domenica 30 dicembre 2007

1 Gennaio 2008 - MARIA SS. MADRE DI DIO


“Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.”

Far brillare il volto, splendido semitismo che indica il sorriso di una persona. Quando sorridiamo il nostro volto si illumina.
Dio sorride, ovvio. Chi ama, anche nelle avversità, sorride.
Il volto di Dio sorridente ci viene svelato dal neonato Gesù.
Dio sorride, non è imbronciato, né impenetrabile, né scostante, né innervosito.
Dio sorride, sempre. Il problema, semmai, siamo noi. Nei momenti di fatica e di dolore non guardiamo verso Dio, siamo travolti dall'emozione, non riconosciamo in Dio nessun sorriso.
Non aspettiamoci che Dio ci risolva i problemi, né che ci appiani la vita o ce la semplifichi.
La vita è mistero e come tale va accolta e rispettata.
Ma se Dio ci sorride, sempre, significa che esiste un trucco che non vediamo, una ragione che ignoriamo, e allora ci fidiamo.
Qualunque cosa succeda nella vostra vita, quest'anno, che Dio vi sorrida, fratello, sorella.

Per accorgerci del sorriso di Dio occorre imitare l'adolescente Maria.
Maria, che festeggiamo con il titolo di "Madre di Dio", è turbata dai troppi eventi che hanno caratterizzato l'ultima settimana: il parto da sola, l'essere lontana dalla sua casa, la sistemazione più che provvisoria, la visita dei loschi pastori. Cosa fa? Serba tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
Meglio, Luca scrive che "prendeva i vari pezzi e cercava di ricomporli".
Manca un centro nella nostra vita, siamo travolti dalla vita vissuta. Come il bucato ammucchiato nella bacinella, ci serve un filo a cui appendere tutte le cose ad asciugare. Questo centro unificatore che è la fede ci è prezioso. Perché non assumerci l'impegno in questo 2008 che inizia, di ripartire da Dio, di mettere l'ascolto della Parola e la meditazione al centro della nostra giornata?
Solo così ci accorgeremo che Dio ci sorride.

Il primo gennaio, infine, da molti anni è dedicato alla preghiera per la pace.
Noi amanti della pace siamo amareggiati per tutto ciò che accade intorno a noi, nel mondo: violenza, guerre, arroganza, un'economia che alimenta ingiustizia; l'uomo sembra non imparare dalla propria storia, dai propri errori, forse non cambierà mai.
La lezione che ci viene dalla fede è semplice: solo un cuore in pace con se stesso, può diventare portatore di pace.
Questo pacifismo cristiano non è una moda da cavalcare, un atteggiamento istintivo, ma la scelta consapevole di chi ha incontrato la pace profonda che solo l'amore di Dio può dare.
Sono portatore di pace perché Dio ha convertito la mia violenza e la mia rabbia e se, talora, l'uomo vecchio emerge nelle mie azioni e in me, so che Dio solo è all'origine dell'accoglienza e della tolleranza.
Per accorgermi di questo devo continuamente convertire il mio cuore: troppa gente usa Dio per giustificare le proprie scelte di violenza.

"Signore, fa di me uno strumento della tua pace;
dov'è odio che io porti l'amore,
dove è offesa che io porti perdono,
dove è discordia, che io porti l'unione,
dove è l'errore, che io porti la verità,
è il dubbio che io porti la fede,
dove è disperazione che io porti la speranza,
dove è tristezza che io porti la gioia,
dove sono le tenebre, che io porti la luce.
Signore, che io cerchi non tanto di essere consolato, quanto di consolare;
di essere compreso, quanto di comprendere; di essere amato, quanto di amare.
Poiché è donando che si riceve; è perdonando che si è perdonati,
è morendo che si risuscita a vita eterna".

E allora ecco l’augurio che dobbiamo farci vicendevolmente: “Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.”
E questo è anche il mio personale augurio, cordiale e sincero, a voi tutti fratelli carissimi: qualunque cosa accada, in questo nuovo anno, che possiate cogliere il volto sorridente di Dio.

domenica 23 dicembre 2007

25 Dicembre 2007 - NATALE DI NOSTRO SIGNORE


Vi annuncio una grande gioia: è nato il Salvatore!

È stanco Giuseppe, di bussare alle porte.
La gente socchiude la porta ma, appena vede, dietro di lui, quella ragazzina col pancione che scoppia, in sella a un ciuchino più stanco del suo padrone, scuote la testa dicendo che no, spiace, ma proprio non hanno posto, lo farebbero volentieri ma sono giorni pieni di gente che viene per il censimento.
Gli occhi di Giuseppe si spengono, ancora una volta, e si gira verso la sua sposa cercando di rassicurala con un sorriso impacciato, lui che è spaventato a morte.
«Presto, amore mio, sta nascendo»
Non ha tempo, Giuseppe, di imprecare, o di avere paura o di prendersela con quell'idiota di Imperatore che vuole contare i suoi sudditi, come se fosse Dio.
Una signora, finalmente, si intenerisce:
«Se volete ho il retro della casa, una piccola grotta fresca e pulita»
Va bene, va bene tutto, purché si faccia in fretta.
Nasce il primogenito di Giuseppe il falegname. Non è figlio suo ed è tutto avvolto dal mistero più fitto e luminoso. Ma va bene così, l'importante è avere trovato un luogo dove farlo nascere.
Giuseppe va a cercare un po' di cibo per sé e la sua sposa, del latte di pecora per il bambino.
Niente di straordinario: è nato un cucciolo d'uomo, tenero e fragile come ogni neonato.
Ma questa volta si tratta di Dio.

Eccolo. Lo avevano detto, i Profeti: Dio era stanco. La voce roca del Battezzatore aveva gridato a tutti di prepararsi: Dio, questa volta, non avrebbe mandato più nessuno. Lui sarebbe venuto.
Troppe incomprensioni con l'umanità, anche con l'amata sposa, Israele.
Dio non dona più la sua Parola ai profeti, viene a parlare di persona.
Dio nasce, cosa è più folle, inatteso, sconcertante, incredibile, drammatico, magnifico?
Dio nasce, diventa uomo. Dio si spoglia della sua divinità perché tutti noi possiamo essere avvolti dalla sua divinità. Dio viene a raccontarsi perché nessuno più vacilli: ecco il suo vero volto.
Allora essere uomini non dev'essere così male se Dio accetta di diventare uomo!
Allora esiste un modo di essere uomini che ci rende vicini a Dio e l'umanità, vissuta con intensità, può riservarci grandi sorprese.
Ti chiedo un favore, Gesù, un dono, in questo Natale: aiuta noi cristiani ad essere più uomini.

Sono seduto in una chiesa e guardo il presepe ormai pronto. Manca solo la statuina del bambinello.
Sorrido: ecco Dio; il Dio che qualcuno brandisce come un'arma, il creatore dell'Universo, l'inconoscibile, il Tutto: eccolo. Fa le smorfie, gli occhi socchiusi, cercando il seno della madre. Sorrido: non so che farmene di un Dio così.
Io voglio un Dio che mi risolva i problemi, non uno che me ne crei! Voglio un Dio potente, non il più fragile delle creature! Mi spaventa e mi inquieta il vero volto di Dio, non so se ho fatto un buon affare a credere nel Dio dei cristiani.
È solo, Dio. Pochi lo accolgono, gente ambigua, mezzi furfanti.
Che ridere... ora la madre adolescente tenta di addormentarlo.
Tace, Dio. Non dona spiegazioni. Tace.
Ti chiedo un altro favore, Gesù: aiuta noi cristiani a non pensarti sulle nuvole, dopo tutta la fatica che hai fatto per venire in mezzo a noi.

È segno di contraddizione un Dio così. Innocuo, inerme, suscita violente reazioni in chi non lo accoglie. Accetta, corre il rischio: l'amore lascia liberi, ovvio. Dio corre il rischio di non essere riconosciuto.
Molti stanno vivendo un Natale da dimenticare: dolore, malattie, solitudine, fame, miseria.
Guardo il neonato che ora dorme, ignaro. E se fosse tutto così semplice?
Se, davvero, la vita fosse spogliazione e dono?
Un mistero da vivere più che da indagare e risolvere?
Ti chiedo un favore, Gesù, un ultimo dono, in questo Natale: fai un sorriso a chi non ne può più.
È Natale, che bello, Dio non si è ancora stancato di noi.

No, Dio non si è stancato di noi. Ma non volendo più essere accantonato, essere frainteso, usato, non volendo essere più tirato in ballo per coprire le vergognose nudità della nostra pigrizia, esausto dall'essere tirato per la giacchetta a benedire ogni guerra, depresso per essere accusato di colpe che non ha, decide di diventare uomo, di condividere in tutto la nostra umanità, di raccontarsi.
Un gesto d'amore semplice, folle, inconcepibile: Dio diventa uomo, abbandona la sua divinità. Scorda la sua onnipotenza, per sperimentare tutto il dolore che l'uomo sperimenta e la fragilità e lo sbandamento.
E perché nessuno possa accusare Dio di essere diventato uomo in modo privilegiato, sceglie di diventare uomo nel più povero dei modi, nel più misero dei tempi, affidato all'imperizia di una coppia di generosi e umili provinciali, esule, costretto a nascere in un luogo sconosciuto a causa del delirio di onnipotenza di un Imperatore oppressore.
Il Verbo di Dio, il sorriso della Trinità, abita il corpo del figlio di Maria.
Jeoshua bar Joseph verrà chiamato, Gesù, figlio di Giuseppe, falegname a Nazareth di Galilea.
Nella notte fredda del deserto, a Betlemme, luogo che ha visto nascere Davide figlio di Jesse, re potente in Giudea, in una grotta che serviva a dare riparo ai pastori, disprezzati lavoranti del tempo, sottopagati e clandestini, il Figlio di Dio irrompe nella storia, l'assoluto che neppure l'universo contiene è abbracciato teneramente da una madre tredicenne.
Ecco: la storia si ferma, il tempo è compiuto, gravido, il cielo ha donato il giusto delle genti.
Ora tocca a noi. È tempo della nostra conversione del cuore.

Questo è Dio, fratelli, il Dio di Gesù, il Dio dei cristiani, il Dio vero.
Non quello piccino e meschino delle predicazioni, non quello incostante e terribile delle nostre paure. Dio è un neonato con gli occhi socchiusi e la pelle grinzosa che Maria stringe forte a sé, per ripararlo dal rigore della notte, un neonato che cerca il piccolo seno della madre per allattare, un neonato tenero e fragile.
Siamo spiazzati, vero?
Vorremmo un Dio potente, che ascolta la nostra preghiera, che esaudisce le nostre richieste, e ci troviamo un Dio che ci chiede aiuto. Vorremmo un Dio decisionista, disposto a cambiare i destini della storia, punendo i malvagi, e invece proprio i malvagi vogliono ucciderlo. Ci immaginiamo un Dio che abita nel Tempio e che viene accolto dagli uomini del sacro che, invece, non escono da Gerusalemme per andare a verificare la sconcertante notizia portata da alcuni ricchi stranieri d'oriente. Dio è diverso, fratelli, tutto qui.

Se Dio è così significa che ama l'umanità al punto da diventare uomo.
Essere uomini è bello, essere uomini è talmente bello che Dio vuole essere uno di noi.
Bello il colore della terra in primavera, il volo degli uccelli, la luce accecante dell'estate, l'odore della neve, il cibo caldo preparato con amore, l'odore del legno appena piallato, il sorriso sincero dell'amico, l'abbraccio tenero e affettuoso del padre che torna stanco dal lavoro. Questa umanità che odora di fritto e di sudore, di fumo e di paura, povera e inquieta, incerta del futuro, è il luogo che Dio abita e trasfigura.
Se Dio è così significa che Dio è accessibile e ragionevole, tenero e misericordioso.
Che l'idea di un Dio potente da tenere a bada, che si fa gli affari suoi, sommo egoista bastante a se stesso, è fasulla e pagana, che Dio ama, prima di essere amato, che non ti risolve i problemi ma li condivide, che ti invita a vedere le cose in modo diverso.
Se Dio è così significa che ha bisogno di noi, come ha avuto bisogno di una madre e di un padre.
E che io posso riconoscere Dio e servirlo in ogni sconfitto, in ogni povero, in ogni abbandonato.
Che la fragilità degli uomini è il luogo che Dio vuole abitare, che, se vivo questo Natale con la morte nel cuore, allora è esattamente la mia festa, perché Dio abita anche la stalla della mia vita. Nella notte profonda.
Se Dio è così.

«Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1). Ecco dunque, il nostro mondo è avvolto dalle tenebre e noi siamo stanchi di vivere così!
Noi abbiamo bisogno di voltare pagina e di iniziare una storia nuova, una stagione nuova della vita, in cui solo Cristo, la Luce del mondo, può essere la nostra bussola! Siamo stanchi di sottoporci alle strutture di peccato e di morte che annientano quella dignità umana che oggi Cristo Gesù ha assunto.
Il Bambino di Betlemme ci spalanca le sue braccia, attende la nostra sincera adorazione! Egli è la luce che brilla in mezzo a noi, in mezzo al nostro mondo senza pace! Per questo, ciascuno di noi può sentirsi irradiato dallo splendore della Luce di Dio.

«Un bambino è nato per noi» (Is 9,5).
Ai nostri giorni, con tutta la buona volontà, credo sia difficile cogliere il Natale: quanti problemi accompagnano le nostre famiglie e l'intera società: malattie, guerre, terrorismo, i poveri che diventano sempre più poveri e i ricchi che diventano sempre più ricchi... Non possiamo pensare di celebrare il Natale con le luci, i pranzi, le cene, i regali...
La pagina di Isaia che abbiamo ascoltato è un grande annuncio di gioia per il mondo: se Dio rinnova per noi il suo Natale è segno che Egli non si è ancora stancato di amarci, di darci fiducia, di offrirci il suo perdono e la sua pace, di farci dono della salvezza! Ai nostri giorni Dio non si è stancato di bussare alla porta del nostro cuore e di attendere la nostra accoglienza sincera e definitiva.
Egli vuole ancora incarnarsi nei nostri cuori e nella nostra società, dove i valori sembrano cancellati dalla memoria, dove l'uomo uccide ancora e brama vendetta, dove aumentano gli abusi sulle donne e sui minori, dove la droga continua a diffondere i paradisi artificiali della morte...

«E' apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11).
Il mistero dell'Amore di Dio è in quel Bambino che vediamo nel presepe!
L'atmosfera del Natale è sempre bella, perché è capace di diffondere davvero tanta bontà, tanta felicità, tanti sorrisi... doni semplici che nulla hanno a che vedere con il consumismo di questi giorni! Ma Natale può essere anche ogni giorno, se il nostro cuore pulsa d'amore per il fratello che ci sta accanto, con cui condividiamo la strada, la scuola, il lavoro, l'impegno in Parrocchia... La nostra salvezza è l'Amore, l'Amore di Dio che accogliamo e che siamo capaci di condividere con i fratelli, soprattutto con quelli afflitti da antiche e nuove povertà.

«... lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,7).
In quest'ora in cui i nostri cuori sono a Betlemme per contemplare la nascita del Salvatore, non possiamo non guardare a Maria e Giuseppe nella difficoltà: non c'è un luogo stabile per accogliere il Figlio di Dio, oggi come allora!
Dio nasce ancora oggi in luoghi peggiori della mangiatoia e spesso viene anche ucciso, perché scomodo! Pensiamo alle tante vite, che oggi non hanno più dignità, che vengono uccise perché considerate un "errore" di giovinezza o un "prodotto" non desiderato di laboratorio...
Ancora oggi non vogliamo fare posto a Dio che si fa' uomo per noi, perché – lo sappiamo bene – Lui ci è troppo scomodo, è troppo esigente, dovremmo fare troppe rinunzie...
Fratelli carissimi, non c'è posto per il Figlio di Dio in questo mondo se non c'è posto per la vita, se non c'è posto per l'Amore!

«Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11).
E' l'annuncio dell'angelo ai pastori che vegliavano il gregge nella gelida notte. Ma è anche l'annuncio che giunge a noi e che noi dobbiamo portare al mondo, se vogliamo davvero dare un senso alla nostra presenza qui, adesso!
Per tanti, probabilmente, non sarà Natale, perché hanno perso un loro congiunto in tenera età, o perché il dolore ha bussato alla loro porta con un male incurabile, o perché non sanno con chi condividere la gioia di questo giorno... Certo, è difficile poter pensare alla gioia ed alla festa di questo giorno che è spuntato.
Ma, come cristiani autentici, dobbiamo compiere il gesto di contagiare il mondo di gioia e, specialmente, tutte quelle persone che ora sono in difficoltà per i motivi sopra accennati e per altri ancora!
E' Natale se sappiamo dire a tutti che Dio è con noi, è dalla nostra parte sempre, è sempre pronto a nascere ed immolarsi per noi!

«Cantate al Signore un canto nuovo» (Sal 97).
Vogliamo uscire dalla chiesa davvero rinnovati, raggianti della luce di Betlemme, non più camminatori stanchi "in questa valle di lacrime", ma viandanti pieni di speranza verso il Cielo, quel Cielo che oggi tocca la terra e la inonda d'Amore senza fine.
Vogliamo dare lode a Dio con Maria, la Madre di Dio e la Mamma nostra celeste.
Diciamo "Grazie!" a Lei, per averci donato Gesù! E vogliamo pregarla di tenerci tutti tra le sue braccia come tenne il Figlio di Dio fatto uomo: il suo Amore materno possa raggiungere il nostro cuore e consolarci di quella speranza che è novità di vita.

giovedì 13 dicembre 2007

16 Dicembre 2007 - III DOMENICA DI AVVENTO


Dobbiamo aspettarne un altro?
Il Giovanni che incontriamo oggi è ben diverso da quello esaltato e scontroso della scorsa settimana. Ora Giovanni è in carcere, sa che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia di una concubina e dalla debolezza di un re-fantoccio, ha vissuto tutta la sua acida vita solo per preparare la strada al Messia, lo ha riconosciuto il Messia, nascosto tra la folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare.
Ma ora è perplesso, Giovanni, dubbioso. Le notizie che gli giungono dai suoi discepoli lo lasciano costernato. Il Messia non sta seguendo le sue orme, non incita con veemenza la gente, ha assunto un profilo basso, mediocre. Giovanni (ricordate?) minacciava la vendetta di Dio, il fuoco divorante. Gesù, invece, propone un perdono incondizionato, rimette le colpe, non minaccia né attua vendetta, dice che quel fuoco lo vuole accendere, certo, ma a partire dall'amore, non certo dal timore. Troppo diverso questo Messia dal Messia atteso da Giovanni e da Israele, troppo diverso.

Dio ci spiazza sempre, è sempre radicalmente diverso da come ce lo immaginiamo. Anche le persone che, come Giovanni, vivono la radicalità della fede, rischiano di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni – e noi – si aspetta, è una venuta evidente, un irrompere nella storia con fragore assordante e schiere di angeli. Ce lo immaginiamo così, Dio, inutile nasconderselo. Gesù, invece, ci svela il volto di un Dio celato, evidente, sì, ma non banale, pieno di ogni tenerezza e sensibilità. Abituati, come Giovanni, a dividere il mondo in buoni e cattivi, i buoni (spesso noi!) da salvare e i cattivi da punire, per rimettere un po' in sesto il palese squilibrio di questo mondo, che premia gli arroganti e bastona i giusti.
Gesù ci spiazza svelandoci che Dio, invece, divide il mondo in chi ama, o cerca di amare, o almeno si lascia amare, e chi no. E l'amore è una possibilità immensa, l'unica cosa che tutti ci lega. Non i risultati, non gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, no, ma la volontà di amare nella fragilità di ciò che siamo o che vorremmo essere.
Siete certi di Dio? Riprendete in mano il Vangelo e chiedete nella preghiera, a Dio, di condurvi nell'autenticità, sempre. Siete pieni di dubbi? Anche il più grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi.

E Gesù, ovvio, non dà una risposta ai discepoli del Battista. La fede non è evidente, Dio non è il risultato di un ragionamento scientifico, niente "prove" nella fede. Indizi, solo deboli indizi che lasciano intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, sono io che devo cambiare ed accorgermi. Gesù elenca i segni messianici profetizzati da Isaia e dice a suo cugino: "Guardati intorno, Giovanni".
Guardiamoci intorno e riconosciamo i segni della presenza di Dio: quanti fratelli hanno incontrato Dio, gente disperata che ha convertito il proprio cuore, persone sfregiate dal dolore che hanno imparato a perdonare, persone accecate dall'invidia o dalla cupidigia che hanno messo le ali e ora sono diventati gioia e bene e amore quotidiano, crocefisso, donato.
Che sia questo il problema principale? Una miopia interiore che ci impedisce di godere della nascosta e sottile presenza di Dio? Prepararsi al Natale significa, allora, convertire lo sguardo, accorgersi che il Regno avanza, è presente, che io posso renderlo presente.
Impariamo a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dal nostro dolore per accorgerci della salvezza che si attua nelle nostre soffocate città.

La domanda o la perplessità di Giovanni Battista è la nostra: Sei tu.. o dobbiamo attenderne un altro? Sei davvero il Salvatore, l'unico, l'indispensabile?... Sei tu quello buono, o siamo ancora alle promesse, parole parole...! In sostanza: Cristo serve? Vale ancora per la nostra storia e società? Per la mia vita personale? O è anche questa una delle illusorie speranze di moda cui ogni tanto l'umanità s'abbandona volentieri?
C'è una speranza con garanzia? C'è un futuro sicuro e quindi sereno?
La perplessità di Giovanni è molto concreta. Aveva sognato e predicato un Messia potente e giudice: "Già la scure è alla radice dell'albero...; Egli ha in mano il ventilabro"; - finalmente è arrivato il castigamatti, finalmente giustizia sarà fatta, finalmente si volta pagina - .. ed invece eccolo, questo Messia, tra i peccatori, pieno di misericordia e perdono, per nulla rispondente alle attese che gli uomini hanno di Dio e di un suo intervento nella storia. Non cambia niente: i prepotenti Romani comandano ancora, i presuntuosi farisei si credono ancora i più giusti e impongono le loro regole e leggi! Come capita oggi: duemila anni di cristianesimo,... che cos'è cambiato? Come prima, o peggio di prima, gli uomini se ne infischiano di Dio, ciascuno si fa gli affari suoi e le sue prepotenze, e.. ben stupido è chi s'aspetta qualcosa di diverso, chi crede a qualche speranza, chi si aspetta qualcosa di più grande! Dov'è Dio?
"Andate a dire a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano....". Riferite i fatti. Questi fatti dicono una speranza trovata! Quello che Isaia aveva predetto, come espressione d'anelito umano e come promessa di Dio, - "Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto" -, in Gesù si attua e invera, ponendo i segni precisi della novità del Regno, significando con le opere la sua missione di Messia e salvatore definitivo. In altre parole, Gesù dice: il Messia sono io. Io sono quello che tu aspetti. Io pongo i gesti che cambiano la storia e il destino umano. I fatti della nostra salvezza si sono attuati, le premesse e gli strumenti per il rinnovamento ci sono. Nella sua stessa persona - con la risurrezione - il male e la morte sono sconfitti. Il futuro è già iniziato. Il risultato finale è garantito.

Certo: per chi vuole tutto e subito; certo, per chi pensa a Dio come a una bacchetta magica che risolve tutto scavalcando la libertà e la collaborazione dell'uomo, .. questo tipo di speranza può essere una delusione, può essere uno scandalo. Giovanni Battista che aspettava un Messia giudice potente che avrebbe schiacciato i nemici, ne rimane un po' deluso. Chi è chiuso entro il perimetro umano e misura solo col metro delle sue scarse risorse, non avrà che da lamentarsi, giudicare, accusare gli altri, essere sempre in cerca di un capro espiatorio. "Non lamentatevi, fratelli - ci esorta san Giacomo -, gli uni degli altri: ecco, il giudice è alle porte". Gli manca la risorsa decisiva, quella di capire che un Dio s'è accompagnato Lui stesso all'uomo, per percorrere assieme la lunga strada della restaurazione e dell'autentico sviluppo, con gli argini sicuri però della verità e la forza risanante della grazia.
"Guardate l'agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera". E' l'immagine più bella della nostra speranza cristiana: il contadino non dubita del raccolto finale, la terra non delude. Ha pazienza e sta al suo ritmo; vive la serenità di possedere le garanzie della riuscita finale. Noi cristiani abbiamo già chiaro e certo il nostro destino finale di riuscita: l'unica variabile è la nostra adesione, l'unica incertezza è la nostra libertà! Ma questo non ci deve far dimenticare che il futuro è già imbrigliato, che la svolta è già avvenuta, che il domani è già stato deciso dai fatti di ieri. Questo in fondo andiamo a fare a messa ogni domenica: far memoria di quella vittoria di Cristo per illuminare di serenità il nostro futuro.

giovedì 6 dicembre 2007

9 Dicembre 2007 - II DOMENICA DI AVVENTO


Cristo nasce, ma... è già nato nel nostro cuore?
Natale porta con sé questa domanda ineludibile, nascosta sotto le tonnellate di regali e di buonismo, con cui rischiamo di soffocare il messaggio crudo e devastante dell'incarnazione, lo scandalo del Natale.
Dio viene: c'è ancora qualcuno disposto ad accoglierlo?
L'avvento ci ricorda delle tre venute di Cristo: nella storia, nella gloria e in ciascuno di noi. Molti cristiani pensano di essere tali semplicemente perché credono nella venuta nella storia del Signore Gesù. Non c'è bisogno di essere cristiani per crederlo!
Diventare discepoli significa invece far nascere (ri-nascere per alcuni) la presenza interiore di Dio.
Dopo la prima domenica forte, tesa a svegliarci dal rischio di lasciarci passare la vita addosso, a non accorgerci della salvezza, del volto sorridente di Dio, del destino di ogni uomo, ci raggiunge oggi il grido forte e inquietante del Battista, grande asceta e uomo carismatico che invita la gente alla conversione, e non certo con parole dolci!

La conversione – sembra dirci il Battista – è il modo migliore per accogliere il Signore, per essere presi mentre stiamo "alla mola", (ricordate?), per trovare senso a ciò che facciamo.
Giovanni, con la sua vita, proclama il primato di Dio sulla vita, richiama tutti ad uscire da una visione stereotipata e immobilista della fede per incontrare l'inaudito di Dio. Persone ragguardevoli e devote come i farisei vengono duramente criticate, la loro innegabile fede è annientata da un ritualismo esasperato. Severo monito per chi, tra noi, vive a servizio delle comunità, siamo chiamati a interrogarci continuamente sul rischio dell'abitudine alla fede. Simile alla sindrome dell'altronatale, anche la più autentica devozione rischia di sconfinare nell'esteriorità, svuotando la fede dall'incontro con Dio.
Giovanni è un profeta austero, ancora tutto legato all'Antico Testamento. Fedele al modello del profeta coerente e severo, minaccia punizioni divine. Dico sempre, scherzando, che Giovanni è l'ultimo e il più sfortunato dei profeti: minaccia vendetta e castighi divini. Poi, arriverà Gesù a svelare che, invece, Dio non punisce ma ama e perdona!
Il volto di Dio che Gesù svela nel Natale è così inaudito e inatteso che Giovanni stesso stenterà a riconoscerlo...
Abbiamo bisogno di profeti, e profeti ancora abitano le nostre grigie città.

Persone all'apparenza normali e che, pure, sanno parlare in nome di Dio, sanno leggere il presente alla luce della fede. Perché il profeta non predice il futuro (quello è l'indovino!) ma ci aiuta a capire il presente. E Dio solo sa di quanti profeti necessitiamo per riuscire a discernere un percorso di fede nella faticosa vita quotidiana!
Il Dio che il Battista annuncia, il Dio che aspettiamo è il Dio che brucia dentro, che spazza via con forza i timori, un Dio forte e impetuoso! Un fuoco che divampa bruciando le lentezze, divorando impetuoso e forte. Giovanni ammonisce: non basta rifugiarsi dietro alla tradizione ("abbiamo Abramo come padre!") o in una fede esteriore, di facciata, di coscienza tiepida ("fatte frutti degni di conversione"). Colui che viene chiede reale cambiamento, scelta di vita, schieramento.
Dio – diventando uomo – separa la luce dalle tenebre, obbliga ad accoglierlo o a rifiutarlo.
Finché Dio è sulle nuvole, da invocare per chiedere un miracolo o da insultare perché il miracolo non è avvenuto, è un conto. Ma qui parliamo di un Dio neonato! Un Dio indifeso che frantuma le nostre teorie approssimative sulla natura divina, un Dio mite e fragile, che chiede ospitalità e non vana devozione.

Siamo invitati a riconoscere i profeti intorno a noi, siamo chiamati a diventare profeti.
Non c'è bisogno di vestire pelli di cammello, ma di essere trasparenza di Dio, lasciare che il fuoco che Gesù è venuto ad accendere divampi nell'oscurità della nostra vita e dia luce a chi incontreremo.
Niente crocifissi al collo o padrepii sui cruscotti, no, ma un'unica notizia, che è quella che Matteo mette in bocca al Battista e che è il cuore dell'annuncio di Gesù. E del nostro: "Accorgiti che il Regno si è fatto vicino".
Diciamolo a tutti, fratelli, Dio si è avvicinato, è incontrabile, conoscibile, presente, evidente.
Allora coraggio, imitiamo il Signore Gesù, come chiede Paolo ai cristiani di Roma, rendiamo presente la profezia (splendida!) di Isaia che sogna un bambino che gioca con la vipera, e il leone e il capretto che giocano insieme... e questo è quel tempo, tempo in cui porre gesti di pace e di solidarietà autentica.
Grande Giovanni, amico dello sposo, che ci scuoti dalle nostre tiepidezze, che sbricioli le nostre fragili verità, le nostre assonnate parole, le nostre svuotate celebrazioni.
Animo, fratelli, questo è davvero il tempo di preparare la strada al Signore che viene, questo è davvero il tempo di schierarsi, di accogliere questo Dio sempre inatteso, sempre diverso.

giovedì 29 novembre 2007

2 Dicembre 2007 - I DOMENICA DI AVVENTO


Uno preso, l’altro lasciato

É che Dio arriva quando meno ce l’aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, o siamo convinti di averlo trovato e quindi dormiamo sugli allori e, intanto, la vita ci passa addosso. È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora. È che la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni, le sue scoperte e le sue pause, le sue paure e le sue ironie, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa e fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, attorno a cui far girare tutto il resto.
Oggi inizia l'avvento. E tra 23 giorni è Natale.E abbiamo urgente bisogno di capire come possiamo trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Vogliamo poterlo vedere questo Dio consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti neonati.
Sono pochi 23 giorni, lo so. Ma vogliamo provarci ancora. Perché possiamo celebrare cento natali senza che mai una volta Dio nasca nei nostri cuori. Come dice splendidamente Bonhoeffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sapesse che Dio ha già atteso lungamente lui.»
Oggi Iniziamo a leggere Matteo. Il pubblicano divenuto discepolo, colui che si è fatto bene i conti in tasca ci accompagna e ci incoraggia sull'impervia strada della conversione.
Il brano del Vangelo è faticoso e ostico e rischia di essere letto in chiave grottesca. Gesù, al solito, è straordinario: cita gli eventi simbolici di Noè, dice che intorno a lui c'era un sacco di brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Perciò ci invita a vegliare, a stare desti, proprio come fa Paolo scrivendo ai Romani. E Gesù avverte: uno è preso, l'altro lasciato. Uno incontra Dio, l'altro no. Uno è riempito, l'altro non si fa trovare. Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, la sua venuta è come la brezza della sera. A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio. Come? Non lo so, fratelli. Cerchiamo di farlo ritagliandoci uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. Alcuni tra voi riescono a prendersi una domenica pomeriggio per fare un paio d'ore di silenzio e di preghiera, altri fanno una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa. Se vissuti bene, aiutano anche i simboli del Natale cristiano: preparare un presepe, addobbare un albero, partecipare alla novena. Facciamo qualcosa, una piccola cosa, per chiederci se Cristo è nato in noi, per non lasciarci travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive. E ci tocca combattere anche contro la secolarizzazione del Natale, contro il suo svilimento, contro quel Natale finto che tanti vivono.
Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta dalla frenesia di un buonismo natalizio falso. È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio presente e di un uomo assente. Non c'è proprio nulla da festeggiare, non abbiamo fatto una gran bella figura, la prima volta. Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi.
Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione. Quindi: viva i regali, viva la festa. Ma che sia autentico ciò che facciamo, che sia presente il festeggiato, Dio, alle nostre ipercaloriche cene, che i bimbi capiscano che è il suo compleanno: a lui spetterebbero i regali, non a noi!
C’è anche il Natale per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, un Natale che diventa ricordo e sofferenza insostenibile. Di fronte alle immagini stereotipate della famiglia felice intorno all'albero e armonia e canti di angeli che ci propinano i media, chi vive affettività fragili e solitudini, è travolto da un insostenibile dolore. E questo deve farci pensare. Il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, viene purtroppo sostituto dal Dio piccino del nostro buonismo posticcio. Se i nonni soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace.
In questo tempo di Avvento Dio si pone ancora in cammino verso di noi, è Lui che viene, è Lui che prende l'iniziativa verso di noi, è una nuova occasione di salvezza, è un nuovo avvento straordinario.
Egli sta alla porta e bussa, attende che qualcuno gli apra. Motivo della sua visita? Offrirci la possibilità di rinnovare e consolidare il nostro rapporto di amicizia e di comunione con lui, con il Padre, con i nostri fratelli.
«Credo in un Dio che non si nasconde dietro ad un mistero, che non seduce con un miracolo, che non mi opprime con la sua autorità. Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, ma che mi pone di fronte alla scelta del bene o del male; che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi Lo segue. Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette le cose a posto dall'alto, che non esercita la giustizia degli uomini. Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio 'no' risponde con un bacio silenzioso e credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto. Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e non fa quello che voglio io: un Dio scomodo che non si può né vendere, né comperare. Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole, indifeso, perché non debba salire troppo in alto per poterLo incontrare. Credo in un Dio che a volte gioca a nascondino, perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo. Credo in un Dio che si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice: "Ti amo", un Dio che si può solo amare». (Ester Abattista).

giovedì 22 novembre 2007

25 Novembre 2007 - Cristo, Re dell'Universo


Il regno di Dio è dentro di noi…

Il senso della festa di Cristo re dell’universo è quello di farci guardare altrove, in avanti, di chiederci, seriamente, dove stiamo andando a finire. Le ragioni per scoraggiarci non mancano, e la nostra fragile storia fatta di armi e di violenza, continua a dettare legge. No, non è cambiato molto in questi duemila anni di cristianesimo, il Regno sembra essere un bel progetto rimasto sulla carta.
Ma non è così: la festa di oggi ci richiama ad una verità di fede che sfida la nostra tiepida contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti. Cristo re vuol dire che Lui avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, sulla mia storia personale.
Dire che Cristo è re, significa non arrendersi all'evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo, credere che il mondo non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire agli smarriti di cuore: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui noi comunità guardiamo avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Chiediamocelo noi, pastori, consacrati, preti e monache, laici “professionisti” del sacro: nelle nostre comunità, nei nostri Consigli Pastorali, nelle nostre programmazioni pastorali, è sempre evidente che tutto ciò che facciamo, dalla catechesi alla carità, sia veramente necessario per essere trasparenza della regalità di Cristo?

Già, perché questa riflessione ci mette in crisi. Quando una proposta o un progetto non vuol decollare, ci siamo mai chiesto se siano veramente consoni all'edificazione del Regno?...
Ma c'è di più: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra comune visione di Dio, di un Dio glorioso e trionfante.
Perché questo Dio è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato.
Ecco: questo è il nostro Dio, un Dio sconfitto.
Non un Dio vittorioso, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che, per Lui, è un evidente gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo.
Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica. “No, grazie!”.
Forse preferiamo un Dio un po' severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono.
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.

La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il dover dipendere dagli altri.
Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, può permettersi di pensare solo a sé, ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri.
Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo riuscito, ricco e sicuro: allora cerchiamo di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.

Si apre a noi perché noi dobbiamo essere discepoli. Guardiamo i due ladroni: sono appunto la sintesi del diventare discepoli.
Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: se esisti fa' che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso (di nuovo!) e noi, e me. Concepisce Dio come un re di cui essere suddito. Ma a certe condizioni, ottenendo in cambio ciò che desidera: una redenzione in extremis. Non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come - spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è solo stupito. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua; innocente e pura quella di Dio. Ecco l'icona del discepolo: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione e che il vero volto dell'uomo è la tenerezza e il perdono. Nella sofferenza possiamo cadere nella disperazione o ai piedi della croce e confessare: davvero quest'uomo è il Figlio di Dio.
Che re fuori da ogni buonsenso, fratelli. Un re che indica un altro modo di vivere, che contraddice il nostro “salvare noi stessi” per salvare gli altri o – meglio – per lasciarci salvare da Lui.
Siamo onesti, fratelli. Luca ci lascia con una domanda da porci seriamente: lo vogliamo davvero un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? È questo, davvero, il Dio che vorremmo? Di quale Dio vogliamo essere discepoli? Di quale re vogliamo essere sudditi?
Non diamo risposte affrettate, per favore: altrimenti ci tocca convertirci per davvero, vivere Cristo in tutti i sensi, e non “in comodato” come troppo spesso ci succede!!.

Ricordate?
“Con me regnare vuol dire servire, chi vuol essere il primo si faccia l'ultimo” e così via.
Anche Ponzio Pilato glielo chiese con un tono sorpreso: “Ma tu, sei proprio un re?” E si divertì a rivestirlo del mantello rosso, a mettergli in testa la corona (di spine!), a dargli uno scettro in mano (era una canna), a metterlo sul trono (era una croce insozzata).
È una storia che sappiamo a memoria… ma in fondo ci resta sempre una domanda: “ Che Re sei tu, se i grandi non ti degnano di uno sguardo, se l'odio, la guerra, la disonestà imperano, se la vita viene impedita con strani artifici, se non ci sono regole morali, se è preferita l'istintività alla razionalità?... “
Sei il Re dei diseredati, dei falliti, dei nullatenenti, dei destinati a morire, dei non emergenti, dei delusi, dei non-importanti, di quelli che non contano, di chi non sa dove sbattere la testa... sei contornato da una folla di sudditi, che però non tratti come tali, ma come amici, ai quali rivolgi i discorsi più confortanti: “Beati voi” e le tue promesse profetiche fanno vibrare l'intimità dei cuori: “Non temete, voi valete più dei passeri del cielo, dei fiori del campo. .. Non abbiate paura, vado a prepararvi un posto presso il Padre. .. “
Sei un Re immischiato nel presente e nel futuro, nelle cose terrene e nell'al di là, un Re a tutto campo, che è sconfitto con gli sconfitti, che sta con i ricchi per ricordare loro i fratelli poveri…
Un Re che non cavalca destrieri, ma cammina con i piedi per terra, che non cerca i consensi, che non tiene le distanze, che sa attendere, che si avvicina con rispetto in punta di piedi, bisbiglia, parla al cuore...
Un Re facilmente sopprimibile, evitabile, ma che continua ad incrociare il suo cammino con il nostro; invisibile, ma con il quale è bene che tutti ci incontriamo; che non si impone, ma le cui proposte hanno valore perenne; trascurabile, ma la cui essenzialità sconvolge le false sicurezze... Un Re che non dà fastidio alle potenze di questo mondo, perché il suo Regno non è di qui: un Regno che offre beatitudine a tutti, un Regno che sarà l'unica autentica vita per tutti.
Non serve che il Vangelo sia strombazzato superficialmente sulle piazze, ma occorre che fermenti nella nostra intimità, come quel pizzico di lievito che fermenta tutta la massa.
E allora, “Non uscire da te. Entra in te stesso, perché nell'uomo interiore abita la Verità” (Sant' Agostino).
Perché… “Il regno di Dio è dentro di voi...”

giovedì 15 novembre 2007

18 Novembre 2007 - XXXIII Domenica del T.O.


Alzate lo sguardo.
«Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta».
A livello più profondo, dentro di noi, di fronte a tutti gli eventi negativi che succedono nel mondo, può emergere talvolta una domanda impertinente: e se ci fossimo davvero sbagliati? E se Dio si fosse sbagliato? E se la vita che viviamo fosse davvero un coacervo inestricabile di luce e di tenebre che mastica e tritura ogni emozione e ogni sogno? E se Dio avesse esagerato con l'idea della libertà degli uomini e del fatto che l'uomo può farcela da solo? E se tutto andasse in fumo? Non possiamo fidarci di nessuno?
No, dice Gesù, state sereni.
Non sono questi i segni della fine, come qualche predicatore catastrofico insiste nel dire.
Non sono questi i segnali di un mondo che precipita nel caos. Già il Signore ha dovuto confrontarsi con questa follia, in un mondo - il suo - ben più aggressivo del nostro.
"Nemmeno un capello del vostro capo perirà..."
E, sorridendo, ci dice: cambia il tuo sguardo.
Guarda alle cose positive, al tanto amore che l'umanità, nonostante tutto, riesce a produrre, allo stupore che suscita il Creato e che tutto ridimensiona, al Regno di Dio che avanza nei cuori, timido, discreto, pacifico, disarmato.
Guarda a te stesso, fratello mio, a quanto il Signore è riuscito a compiere in tutti gli anni della tua vita, nonostante tutto. A tutto l'amore che hai donato e ricevuto, nonostante tutto. Guarda a te e all'opera splendida di Dio, alla sua manifestazione solare, al bene e al bello che ha creato in te. Guarda a Lui e non ti scoraggiare.
Di più: la fatica può essere l'occasione di crescere, di credere. La fede si affina nella prova, diventa più trasparente, il tuo sguardo si rende più trasparente, diventi testimone di Dio quando ti giudicano, diventi santo davvero e non te ne accorgi, ti scopri credente.
Se il mondo ci critica e ci giudica, se ci attacca, non mettiamoci sulle difensive, non ragioniamo con la logica di questo mondo: affidiamoci allo Spirito.
Quando il mondo parla troppo della Chiesa, la Chiesa deve parlare maggiormente di Cristo!
È vero: queste cose non ci piacciono….
Preferiamo crogiolarci nelle nostre vere o presunte disgrazie, preferiamo lamentarci di tutto e di tutti, vivere nella rabbia cronica. Preferiamo cento volte lamentarci del mondo brutto, sporco e cattivo ed eventualmente costruirci una piccola setta cattolica molto devota in cui tra pochi ci troviamo bene, piuttosto che immergerci nella nostra comunità.
Preferiamo fare a modo nostro, non c’è dubbio!
Ma se proprio dobbiamo fare come vogliamo, allora, Signore, sii paziente e misericordioso con noi, libera il nostro cuore dal peso del peccato, dall'incoerenza profonda e dalla tendenza all'autolesionismo che ci contraddistinguono, e rendici liberi, leggeri, comunque in grado di guardare in alto e di volare da te, in attesa del tuo Regno.

giovedì 8 novembre 2007

11 novembre 2007 - XXXII Domenica del T.O.

Il Vivere da vivi
Levirato è una norma mosaica difficile da capire nella nostra sensibilità contemporanea. Talmente forte era il senso di appartenenza in Israele, che un cognato era tenuto a dare un figlio alla vedova del proprio fratello, se questi era morto senza lasciare discendenza. Il figlio nato dall'unione avrebbe preso il nome del defunto, garantendo una discendenza alla famiglia.
Questa norma, ancora praticata in ambienti ultraortodossi in Israele, dà l'occasione ai sadducei di mettere in difficoltà Gesù. L'occasione – che novità – è una discussione tra Gesù e i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l'ala aristocratica e conservatrice d'Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, cresciuta lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, di cui si parla nella prima lettura, un'inutile aggiunta alla dottrina di Mosé.
Così, incrociando la non condivisa teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato pongono a Gesù un caso paradossale, la famosa storia della vedova "ammazzamariti". Il caso è ridicolo: una donna resta vedova sette volte, senza discendenza; una volta risorta, di chi sarà moglie? Gesù pone la riflessione su un piano diverso, invita gli uditori ad alzare lo sguardo da questa visione che proietta nell'oltre morte, di fatto, le ansie e le attese della vita terrena.
È una nuova dimensione quella che Gesù propone: la resurrezione, in cui Gesù crede, non è la continuazione dei rapporti terreni, ma una nuova dimensione, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti (attenzione: nel regno ci riconosceremo ma saremo tutti nel Tutto!), che contraddice la visione attuale della reincarnazione (siamo unici davanti a Dio, non riciclabili, e la vita non è una punizione da cui fuggire, ma un'opportunità in cui riconoscerci!), e ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo, non imbalsamato!
In settimana abbiamo celebrato la memoria dei nostri cari defunti, sovrapposta e confusa con la splendida e gioiosa Solennità dei Santi. Il nostro tempo tende a dimenticare e banalizzare la morte: ogni giorno ci vengono proposte decine di morti, vere o finte, dagli schermi televisivi ma, in realtà, riflettiamo sulla morte solo quando ci tocca sulla pelle. La Scrittura ha lungamente riflettuto sulla morte, giungendo alla dottrina dell'immortalità. Siamo stati creati immortali: il nostro corpo, da custodire e preservare, conserva una parte più spirituale, interiore, che i cristiani chiamano "anima". L'anima è la sorgente del pensiero, la custode dei sentimenti, la dimora della mia identità e diversità. L'anima sopravvive alla morte e raggiunge Dio, per presentarsi al suo cospetto.
Dio non ha che un desiderio: la nostra felicità, la nostra pienezza. Ma ci lascia liberi di scegliere. Questa vita, che ci è data per scoprire la nostra chiamata, per scovare il tesoro nascosto nel campo, può essere giocata nella consapevolezza e nell'amore di Dio, o nella dimenticanza. Di fronte a Dio, se vorremo, ci verrà dato un tempo per imparare ad amare, o verremo abbracciati e ricolmati dalla totalità di Dio o – Dio non voglia – lasciati liberi di rifiutare la luce. Al ritorno del Messia, alla pienezza dei tempi, ritroveremo i nostri corpi trasfigurati, che ora conserviamo con dignità in luoghi chiamati "dormitorio", in greco "cimiteri".
L'eternità è già iniziata, posso vivere e gioire di questa dignità, riconoscerla e svilupparla, o mortificarla sotto una coltre di polvere e preoccupazioni...
Il Dio di Gesù è il Dio dei viventi, non dei morti. Io credo nel Dio dei vivi? E io, sono vivo?
Credo nel Dio dei vivi se per me la fede è ricerca, non stanca abitudine, doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere, slancio e preghiera, non rito e superstizione. È vivo – Dio – se mi lascio incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, che, dopo il suo incontro con Cristo, ci dice che nulla è più come prima. Credo in un Dio vivo se accolgo la Parola (viva!) che mi sconquassa, m'interroga, mi dona risposte. Credo nel Dio dei vivi se ascolto quanti mi parlano (bene) di lui, quanti – per lui – amano.
Un sacco di gente crede al Dio dei vivi e lavora e soffre perché tutti abbiano vita, ovunque siano, chiunque siano. Schiere di testimoni stanno dietro e avanti a noi. Come la madre della prima lettura che incoraggia i figli al martirio piuttosto che abiurare la propria fede, come i tanti (troppi) martiri cristiani di oggi vittime di false ideologie religiose, come chi opera per la pace nel quotidiano e nella fatica.
Io sono vivo (lo sono?) se ho imparato ad andare dentro, se non mi lascio ingannare dalle sirene che mi promettono ogni felicità se possiedo, appaio, recito, produco, guadagno, seduco eccetera, se so perdonare, se so cercare, se ho capito che questa vita ha un trucco da scoprire, un "di più" nascosto nelle pieghe della storia, della mia storia.
Vogliamo dunque anche noi diventare discepoli di un Dio vivo? Viviamo – finalmente – da vivi!
Oggi purtroppo non siamo aiutati a "credere nella vita eterna"; si va dietro all'immediato, al superficiale, si vuole evitare il pensiero salutare della morte, quando addirittura non la si banalizza. Si finisce poi tante volte per essere disperati di fronte alla morte delle persone care o alla propria morte; si finisce per essere anche causa di morte senza farsene troppi problemi.
Ora, pensare a queste cose non è per renderci tristi, ma per camminare sulla strada della gioia vera; uno che non ci pensa, non è più felice, è più sciocco (il vangelo dice stolto). E chi crede di andare chissà dove impostando la vita solo in senso materiale, non va da nessuna parte; si troverà con le mani vuote. La dottrina cristiana ci insegna che il pensiero della morte ci aiuta a costruire bene la vita e che l'attesa e la preparazione alla vita eterna, non solo non indebolisce ma addirittura intensifica l’impegno umano e cristiano nelle realtà terrene: basta pensare alle parabole della vigilanza, dei talenti, del giudizio finale. "Vieni servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo Signore, perché ho avuto fame e mi hai dato da mangiare". "Entra nella gioia del tuo Signore" è la grazia che chiediamo per i nostri defunti e anche per tutti noi, quando saremo chiamati ad essere sempre con il Signore. E allora capiremo che le "sofferenze della vita presente non sono paragonabili alla gloria della vita futura", "perché grande è la ricompensa nei cieli".

"La mia immortalità è indispensabile, perché Dio non commetterebbe iniquità e non spegnerebbe completamente il fuoco dell'amore dopo che questo si è acceso per lui nel mio cuore... Iniziai ad amarlo e mi sono rallegrato col suo amore. Sarà possibile che mi spenga e che la mia gioia si trasformi in niente? Se Dio esiste, anch'io sono immortale!" (Dostoevskij).

mercoledì 31 ottobre 2007

4 novembre 2007 - XXXI Domenica del T.O.


Oggi, la salvezza in casa tua.

Zaccheo è un manager scaltro, riuscito: ha fatto soldi a palate, grazie all'appalto delle tasse dall'invasore romano. Un usuraio, diremmo oggi, un furbo senza scrupoli come i caimani della nostra attuale finanza: al centro di tutto il solo profitto, il guadagno: il resto è relativo.
Zaccheo è rispettato, temuto dai suoi concittadini: basta un suo gesto e i soldati romani intervengono; forse, nella sua spregiudicatezza si sarà pure vendicato delle prese in giro, dei sorrisetti di compassione, a causa della sua statura. Si, perché Zaccheo è rimasto basso, piccolo; contrariamente alla sua ricchezza e al suo potere; e ora, coloro che lo irridevano, abbassano lo sguardo quando lo incrociano. Ma è rimasto solo. La ricchezza e il potere sono avari di amici e di gratuità.

Zaccheo ha sentito parlare del Galileo, quel tale Nazareno che la gente crede un guaritore, un profeta. Si dice che passerà da Gerico, l'antichissima città che sorge sulle rive del Mar Morto. Zaccheo è dunque piccolo: di statura, certamente, ma soprattutto di cuore, e per vedere Gesù deve salire su un albero. Meglio, così potrà vedere senza essere visto... Ha una vita di fede, Zaccheo? Non ci viene detto ma, a naso, possiamo dire che Dio non è il suo principale problema. C'è movimento, la folla si agita, vede le braccia che si alzano al cielo, le grida dei bambini. Stringe gli occhi, ora lo vede, il Nazareno è proprio lì, a qualche metro da lui. E accade l'inatteso: Gesù lo stana, lo vede, gli sorride: scendi, Zaccheo, scendi subito, vengo da te.
Zaccheo è interdetto: come fa a conoscere il suo nome? Cosa vuole da lui? Forse lo ha confuso con qualcun altro? Non importa, Zaccheo scende, di corsa.
Perché? Il fascino di Gesù lo ha riempito? Intuisce qualcosa?
Una cosa lo colpisce: Gesù non giudica, né teme il giudizio dei benpensanti di ieri e di oggi: vuole andare in casa sua; si ferma da lui, gli porta salvezza.
Zaccheo è confuso, turbato, vinto: in dieci minuti la sua vita è cambiata, il famoso Jeshua bar Joseph è venuto a casa sua.
Si sente rovesciato come un calzino, Zaccheo.
Si, perché Gesù cercava lui; non si è sbagliato di persona. Voleva proprio lui, non c'è dubbio. Gesù non ha posto condizioni, è venuto a casa di un peccatore incallito. A questo punto Zaccheo fa un proclama che lo porterà alla rovina (restituisce quattro volte ciò che ha rubato!), ma che importa? È salvo ora. Non più solo sazio, solo temuto, solo potente.
No, è salvo, è discepolo. Lui, temuto ed odiato, ora è finalmente discepolo. Che grande è Dio!

Zaccheo siamo noi: travolti dal delirio quotidiano, concentrati a riuscire, frustrati perché non riusciti.
Zaccheo siamo tutti noi che diamo retta alle sirene che ci stanno intorno, sirene che ci chiedono sempre di più, sempre il massimo: a casa, al lavoro, nella carriera, nell'aspetto fisico.
La fede non ci importa poi molto: sì, un po' di curiosità, qualche spolveratina di spiritualità orientale, o di New Age, che tratta Dio come una serva e mette noi, l’io, l’ego, sempre al centro dell'universo.
Eppure Dio ci ripesca proprio lì, dove crediamo di essere arrivati. Dio ci stana, ci rincorre, ci tampina. Perché ci ama, davvero: Lui sì ci ama come siamo!

Prima di tutto è Lui che ci cerca, è Lui che prende l'iniziativa. Noi cerchiamo, quando cerchiamo, Colui che ci cerca.
Come sempre, quando meno ce lo aspettiamo, arriva la crisi esistenziale: perché siamo al mondo? A cosa serviamo? Dove andiamo a finire? A chi va quello che abbiamo accumulato? Cosa abbiamo fatto di buono? Cosa c'è dopo la morte? E tutto il resto… Quando cominciamo a farci di queste domande non le fermiamo più. Bisogna trovare delle risposte, una per volta. La matassa è ingarbugliata, la testa va in ebollizione, i vecchi ragionamenti non tengono più, ci ritroviamo nella nebbia fitta senza il senso dell'orientamento. L'età cresce, l'epoca dei colpi di testa è crollata e nelle mani ci troviamo un pugno di mosche! Che momenti drammatici!
C'è chi si dà all'alcool, chi alla droga, chi ad emozioni di ogni tipo, chi pensa al suicidio!
Ma Gesù non ci giudica... Egli ci aspetta.
Da qualche parte Egli passa, e per ogni piccolo uomo come noi c'è una pianta per arrampicarsi per vederlo passare e poi iniziare a scendere a terra, nella vita normale, nella quale e per la quale Gesù vuole essere il nostro Salvatore. Smettiamola di correre da maghi, guaritori, cartomanti, imbonitori, truffatori, anche se hanno lo studio pieno di santi, madonne, crocefissi, candele; liberiamoci dal giogo di chi ci sfrutta, ci succhia i soldi e la vita. Andiamo da chi può dirci: Oggi la salvezza entra nella tua vita, perché hai scoperto che sei figlio di Dio.

L'amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama perché siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni.
Gesù non chiede: dona, dona senza condizioni. Se Gesù avesse detto: "Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci ciò che hai rubato quattro volte tanto, vengo a casa tua", credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull'albero. No: Dio precede la nostra conversione, la suscita, ci perdona prima del nostro pentimento, e il suo perdono ci converte: è talmente inaudita e inattesa la salvezza, che ci porta a conversione. Eccoci dunque fratelli: è arrivato il nostro momento.
Chi vuole seguire Gesù si decida, scenda dall'albero, si schieri.
Non importa chi egli sia, né quanta strada abbia fatto o che errori porti nel suo cuore.
Non importa se scruta il passaggio di Gesù soltanto per curiosità. Non importa nulla di nulla: perché oggi, oggi stesso, in questo momento, Lui vuole entrare nella sua casa.

martedì 9 ottobre 2007

28 ottobre 2007 - XXX domenica del T.O.

Guardarsi dentro
La preghiera è una questione di fede: credere che il Dio che invochiamo non è una specie di sommo organizzatore dell'universo che, se da noi corrotto, potrebbe anche concederci ciò che chiediamo. Dio non è un potente da blandire, non un sottosegretario da cui farsi raccomandare, ma un padre che sa ciò di cui abbiamo bisogno. Se la nostra preghiera fa cilecca, sembra suggerirci Gesù, è perché manca l'insistenza, o manca la fede. Oggi, con la parabola del pubblicano e del fariseo, ci viene suggerita un'altra pista di riflessione.
I due personaggi, il fariseo e il pubblicano, sono due modi diversi di essere discepoli.
Modi molto diversi. Il fariseo - leggete - dice il vero, tutto sommato: vive la fede con entusiasmo, pratica la giustizia, è un fedele modello, e sa di esserlo. Prega anche nel modo giusto: ringrazia Dio, subito, prima di chiedere qualcosa. Ma presume d'essere giusto e disprezza gli altri, ha un nemico, fuori di sé. Guarda con disprezzo il pubblicano (che è davvero peccatore!) e ne prende le distanze. Il pubblicano - invece - non osa alzare lo sguardo: conosce il suo peccato, non ha bisogno di fare l'esame di coscienza: glielo ha già fatto il fariseo! Solo chiede pietà. Succede anche a noi: facciamo fatica a guardarci dentro con equilibrio. Fatichiamo a non deprimerci nei momenti di difficoltà, in cui emergono più evidenti i nostri limiti e i nostri difetti. Fatichiamo a non tentare di mostrare il nostro "meglio" quando stiamo con gli altri. Ma soprattutto fatichiamo a paragonarci agli altri in maniera serena. Se capissimo di essere unici, imparagonabili! Se sapessimo amarci come Dio ci ama, senza eccessi! No, non abbiamo bisogno di guardare al peggio o al meglio di chi sta intorno per esaltarci o deprimerci, specialmente nella fede. L'errore del fariseo è questo: è giusto e sa di esserlo, ma non ha compassione né misericordia. Misericordia e compassione che - invece - Dio ha verso il pubblicano, che esce cambiato. Ecco una buona battaglia per noi discepoli: l'equilibrio in noi stessi: senza trovare colpevoli "fuori", senza autolesionismo depressivo. Consapevoli della nostra fragilità e della nostra grandezza, perdonati che sappiamo perdonare, pacificati che sappiamo pacificare.
Tutti dobbiamo avere il coraggio di fare un passo indietro! Di scendere dal piedistallo che ci costruiamo per crescere in umanità e verità! Il nemico è dentro, non fuori. È il nostro egoismo, la parte peggiore di noi, che deve essere illuminata dal Vangelo; è scoprire l'altro, accoglierlo e accoglierci. Iniziamo a costruire la pace dall'unica persona su cui abbiamo influenza: noi stessi. Quanta più armonia ci sarebbe nella coppia con un po' più di umiltà e verità, con qualche "scusami" in più...
E la Chiesa, comunità di credenti, è popolo di perdonati, non di perfetti. Le paranoie, le prese di distanza dalla Chiesa che sentiamo in giro (non vado più a quella messa perché Tizio è veramente insopportabile; non mi va di incontrare Caio perché in chiesa si dà un sacco di arie... ma scusate, ma di quale "chiesa" si tratta? Giusto di quella che immaginiamo nella nostra testa!), il più delle volte si basano su questo equivoco di fondo: il mio fratello che si professa cristiano, deve essere irreprensibile, deve essere “santo”… dentro e fuori la chiesa! È vero. Ma solo in parte. E non facciamo gli ipocriti! Il cristiano è e resta peccatore, ma è un peccatore toccato dalla tenerezza del perdono. E come tale, con grande umiltà, deve comportarsi...
Noi tutti ci troviamo in chiesa non per lucidarci l'aureola, o per guardare in cagnesco i fratelli che non riteniamo alla nostra altezza.
Ma ci troviamo tutti insieme per celebrare coralmente quella misericordia divina che ci ha cambiato.
Non è splendido?

21 ottobre 2007 - XXIX domenica del T.O.

Troverò la fede sulla terra?
Di interrogativi Gesù ne ha posti a sufficienza, nel suo ministero. Ma quello di oggi ci fa veramente pensare. Gesù, con un velo di tristezza chiede: "Quando tornerò, ci sarà ancora fede sulla terra?". Attenzione, non dice: "Ci sarà ancora un'organizzazione, la gente andrà ancora a Messa, si farà ancora l'elemosina?". No, Gesù è angosciato perché vede che, troppe volte, la nostra religione è senza fede, la nostra preghiera è senza fede, la nostra lotta per un mondo diverso è senza fede. Davanti al grido della vedova invadente che chiede giustizia, simbolo del grido dell'oppresso di tutti i tempi, la fede vacilla.
Come può Dio permettere la sofferenza, la guerra, la malattia? Davanti agli avvenimenti che percepiamo "ingiusti", la nostra fede vacilla, retrocede. Il dubbio ottenebra il nostro cuore, perché credere è difficile. La sofferenza dell'innocente è e resta la più grande obiezione dell’uomo della strada alla bontà di Dio: intuisce che sotto sotto c'è una risposta, ma gli sfugge.
La sofferenza che esiste nel mondo, più che mettere in discussione Dio, coinvolge e responsabilizza ciascuno di noi. Noi facciamo le guerre e Dio le deve fermare! Bella pretesa!Al grido dell'oppresso, davanti alla violenza, davanti agli uomini che si massacrano, gridiamo: "Dio dove sei?" E Dio ci risponde: "Tu dove sei?". Il Signore ci ha consegnato un mondo che potrebbe essere un capolavoro di misericordia e di fraternità. Noi lo abbiamo ridotto a un covo di malfattori, di indifferenza, di ingiustizia. La nostra preghiera, spesso, cade nel vuoto perché, semplicemente, non facciamo nulla perché si realizzi. Dio infatti fa prontamente giustizia, afferma Gesù alla fine della parabola della vedova... Sì, mi fido, lo credo! Stento a capire, ma mi ci metto, ci sto, lavoro!
Devo credere in un mondo in cui la giustizia inizia dal mio cuore, per poi uscirne e contagiare il mondo. Nella lotta per la giustizia, per creare spazi e luoghi di amore solidale, abbiamo bisogno di fede per pregare, abbiamo bisogno di costanza per tenere le braccia alzate durante la battaglia. Solo la preghiera autentica, profonda, incarnata, ci può sostenere nella conversione del mondo che parte da me. Non esiste dualismo tra vita interiore e impegno sociale: l'uno scaturisce a approda all'altro. Un mondo che cambia necessita di interiorità; un'interiorità che non diventa impegno, è sterile devozione. Nella lotta della vita, dobbiamo osare la preghiera.
Mosé che tiene le braccia alzate, per far vincere il suo popolo, è l'immagine di come la preghiera ci porti in una dimensione nuova, capace di vincere la lotta della vita.
Chiediamoci se l'insistenza della vedova è la nostra insistenza, se la sua costanza è la nostra, quando si tratta di rendere giustizia, di dare una testimonianza di trasparenza nel nostro essere "prossimo". C'è purtroppo il rischio di stancarci, per strada, c'è il rischio di lasciar cadere le braccia, perché stanchi di pregare.
Allora, com'è successo a Mosé, saranno i fratelli vicini, quelli della nostra comunità, ad aiutarci a tenere alzate nella preghiera le nostre braccia.
La dimensione comunitaria, che ancora tanto dobbiamo scoprire, è questa volontà, questa capacità di camminare insieme, di lasciarci anche trasportare dalla preghiera della Comunità. L'Eucarestia, allora, diventa il momento in cui ci raduniamo per tenere le braccia alzate gli uni per gli altri, e invocare la benedizione di Dio su noi e sul nostro cammino.
Allora potremo rispondere al Signore Gesù convintamente: "Signore, oggi se verrai, troverai ancora fede sulla terra.
Si, Signore: la mia, quella della comunità in cui vivo, quella di altri milioni di fratelli sparsi nel mondo".

14 ottobre 2007: XXVIII domenica del T.O.

Essere guariti non significa essere salvati (Lc 17, 11-19).
Dei dieci lebbrosi, uno di loro è samaritano: la sofferenza li accomuna. Gli ebrei consideravano i vicini samaritani "cani bastardi" e come tali venivano trattati. Eppure qui tutti gridano ma, una volta guariti, le differenze tornano (mistero dell'umana fragilità!): nove vanno al Tempio e il samaritano, di nuovo solo, senza un Tempio in cui essere accolto, corre dal Tempio della gloria di Dio che è Gesù.
I nove ingrati sono la perfetta icona di un cristianesimo molto diffuso, che ricorre a Dio come ad un potente guaritore da invocare nei momenti di difficoltà. Che triste immagine di Dio si fabbricano coloro che a lui ricorrono "quando c'è bisogno", che lasciano Dio ben lontano dalle loro scelte, dalla loro famiglia, salvo poi arrabbiarsi e tirarlo in ballo quando qualcosa va storto nei loro (badate, non nei suoi) progetti.
I nove sono guariti: hanno ottenuto ciò che chiedevano, ma non sono salvati. Rimasti chiusi nella loro parziale e distorta visione di Dio, guariti dalla lebbra sulla pelle, non vedono neppure la lebbra che hanno nel cuore. Il Dio che hanno invocato è il Dio dei rimedi umanamente impossibili, non il Tempio dell’Amore in cui abitare; è il Potente da corrompere e convincere, non il Dio che, nella guarigione, testimonia che è arrivato il tempo della vera salvezza. Che triste idea di Dio hanno questi lebbrosi! Una visione della fede superstiziosa e magica, che accusa Dio delle nostre malattie, che mette Dio alla sbarra, accusandolo. La malattia e la morte ricordano al nostro mondo contemporaneo, perso nel delirio di onnipotenza, che siamo creature fragili, che, come gli alberi e gli uccelli del cielo, viviamo la nostra vita come un soffio, che il nostro corpo è mortale. Ma il faggio e il passerotto, quando arriva l'autunno, accettano la propria condizione serenamente, sapendo di far parte di un immenso disegno d'amore e che la morte non è una condizione definitiva. L'uomo, invece, la rifiuta. La malattia può allora diventare, paradossalmente, la porta attraverso cui entriamo nel nostro ricco mondo interiore. Davanti alla sofferenza, come i due ladroni sulla croce, possiamo bestemmiare Dio accusandolo di indifferenza. O accorgerci che sta morendo accanto a noi. Cadere nella disperazione. O cadere ai piedi della croce. Basta la salute? Certo, la salute è bene prezioso, e va conservato, con uno stile di vita salubre ed armonioso, ricordandoci che la pace del cuore di chi incontra Dio e scopre il proprio progetto di vita, apporta anche benessere psicofisico profondo. Ma non è vero, non basta la salute, ci necessita la felicità. Gesù ci dice che la salute non è tutto, più della salute c'è la salvezza. Vi sono malati relativamente felici e pieni di Dio, e giovani in piena forma che si buttano via nella droga. La salvezza è un benessere più profondo, assoluto, uno scoprirsi al centro di un Progetto d'amore... La gratitudine, la festa, lo stupore, sono atteggiamenti connaturali all'uomo, eppure manifestati troppo poco nella nostra vita. Siamo tutti molto lamentosi, sempre pronti a sottolineare il negativo che pesa come un macigno nelle nostre bilance. Diamo tutto per scontato: è normale esistere, vivere, respirare, amare; normale e dovuto nutrirsi, lavarsi, abitare, lavorare... Il nostro sguardo, un po' assuefatto dalle troppe cose scontate e dovute, non sa più aprirsi alla gratitudine. Come sarebbe bello veder uscire dalla chiesa - almeno ogni tanto! - qualcuno che torna a casa sua lodando Dio a gran voce... Come sarebbe bello vedere più sorrisi sulle labbra dei cristiani, più lode nelle loro preghiere, più gratitudine nei gesti di coloro che, guariti dalle loro solitudini interiori e dalla lebbra che è il peccato, sono anche salvati e fatti Figli di Dio. Un sano esercizio alla lode dovrebbe essere insegnato ai giovani, non come pesante moralismo ("i giovani d'oggi hanno tutto"), ma come educazione allo stupore.
Andiamo tutti insieme, giovani e non, con fede dal Signore, per guarire da ogni lebbra, da ogni malattia del corpo e dello spirito.