“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e li condusse in disparte, essi soli, su un alto monte” (Mc 9,2-10).
Gesù
prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni: sono quelli stessi che lui ha
personalmente chiamato al suo seguito, ai quali ha messo anche un soprannome:
Simone diventa Pietro, cioè “testa dura”, Giacomo e Giovanni sono invece i “Boanèrghes”, ossia “i figli del tuono”, dei
fanatici, dei collerici, dei violenti, a cui non sta mai bene nulla.
Sappiamo
però dal vangelo che tutti gli apostoli, Pietro in particolare, cambiano radicalmente
modo di pensare e di agire: Pietro si diventa il “capo”, la guida, il punto di
riferimento del gruppo; Giovanni diventa addirittura il “discepolo amato, quello che posava il capo sul petto di Gesù” (per
dire la trasformazione in amore, in dolcezza, in tenerezza): il loro è stato quindi
un cambiamento radicale, definitivo: una revisione totale e profonda della loro
vita.Un cambiamento che ci mette di fronte ad una realtà: per poter seguire Gesù, è necessario trasformare non solo il nome, ma anche e soprattutto il carattere. In altre parole è necessario “convertirsi”; la conversione infatti comporta proprio questo: smettere di essere “noi stessi”. Certo noi rimaniamo sempre “noi stessi”, ma siamo “diversi”, non sentiamo, non pensiamo, non viviamo più come prima, perché abbiamo fatto una nuova esperienza che ci ha cambiati completamente. Gli orientali la chiamano “illuminazione”: prima eravamo ciechi, ora ci vediamo perfettamente; i cristiani “conversione”: vivere cioè una nuova vita con Lui, in Lui; in maniera diametralmente opposta allo stato di “peccato” che implica un comportamento lontano da Lui.
Gesù quindi “li condusse sopra un monte, in un luogo appartato, in disparte”.
Il monte non è tanto un'indicazione topografica, ma teologica. Cos'era il monte nell'antichità? Era il luogo della terra più elevato verso il cielo, quindi il luogo più vicino a Dio (che stava nei cieli). “In disparte” poi, nei vangeli, ha sempre una valenza negativa: significa, cioè, che questi discepoli sono in qualche modo in contrasto con Gesù, hanno cioè combinato qualcosa che non andava bene. È di poco prima, infatti, la ribellione testarda di Pietro, allorquando Gesù annuncia la possibilità di essere rifiutato e addirittura ucciso (anche qui Marco sottolinea che Pietro “lo prese in disparte”); uno scontro piuttosto violento, tanto che Gesù gli grida: “Lungi da me satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro vede ancora Gesù come un Messia potente, forte, uno che deve in ogni caso imporsi; non vuole saperne di un Gesù mite, remissivo, che predica parole di amore, di perdono e di misericordia.
Anche Gesù, quindi, li prende “in disparte”: deve cioè dimostrare, in maniera forte e inequivocabile, che Lui non è il messia che loro si aspettano; Lui non è un nuovo Elia, non è un nuovo Mosè, come essi avrebbero voluto. Dicevano sì di amarlo: ma amare significa vedere le persone per quello che sono, e non per quello che noi vorremmo che fossero.
A questo punto Gesù si trasfigura: Marco usa il verbo meta-morfeo, cioè “mi metamorfizzo”, entro in una completa metamorfosi. Inoltre il verbo è usato al passivo e, come sempre in questi casi, sta ad indicare un diretto intervento di Dio: quindi non è Gesù che “si” trasforma, ma è Dio stesso che “lo” trasforma. Dunque Dio lo trasfigura: un particolare colpisce l’attenzione dei tre discepoli: le sue vesti erano così bianche che “nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”. Cosa vuol dire? Che per quanto noi facciamo (anche il miglior lavandaio) non potremo mai raggiungere da soli lo splendore di questa condizione: uno splendore che soltanto chi si lascia invadere da Dio può raggiungere; solo chi si lascia trasfigurare da Dio.
Vi ricordate Madre Teresa? Il suo volto era pieno di rughe, scavato, ma aveva uno sguardo splendido. Perché? Perché in lei Dio si rendeva visibilmente splendente; Dio la trasfigurava. Guardandola si vedeva in lei qualcosa di oltre, di più in là del suo volto: in lei risplendeva Lui.
La radice greca di “splendore” deriva da spodèo, che vuol dire “ridurre in cenere, eliminare, distruggere”. Lo splendore ha sempre a che fare con una trasformazione radicale, con un bruciare il vecchio, ridurlo in cenere, eliminarlo, per diventare qualcosa di completamente nuovo, di rinato.
Poi il testo continua: “E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù” (Mc 9,4). È il massimo del massimo. Sono i due più grandi personaggi della tradizione d'Israele. Mosè il grande legislatore, il grande condottiero, il liberatore del popolo dalla schiavitù d'Egitto; Elia, il riformatore religioso, colui che con ferma determinazione, attraverso anche la violenza, aveva imposto al popolo “disperso” la legge di Mosè. Quelli che, secondo la tradizione, non erano neppure morti; quelli che, soli, avevano incontrato Dio a tu per tu, e avevano parlato con Lui. Qui però non parlano più con Dio, ma parlano con Gesù: si vuole cioè dimostrare che Dio e Gesù sono un tutt’uno. È chiaro. E fin qui tutto bene. Ma ora scatta la reazione di Pietro. Marco gli mette addirittura l'articolo: “Il Pietro”, come a dire il testardo, il duro. E cosa dice Pietro? “Rabbì”; Pietro chiama Gesù “Rabbì”; ma chi era il Rabbì? Era colui che si atteneva strettamente alla tradizione degli antichi. Solo due persone, in Marco, chiamano Gesù con questo nome: Pietro e Giuda. Sono coloro che, identificandolo con il messia annunciato dalla tradizione, non accettano le sue novità “rivoluzionarie”, destinate solo a stravolgerne la missione. In pratica Pietro gli dice: “No! Tu non puoi essere così. Devi essere diverso; devi essere colui che incarna la tradizione, quel liberatore che i nostri padri ci hanno predetto”. In altre parole rifiuta Gesù e gli dice: “Così come sei, noi non ti vogliamo!”. Egli nella sua testa ha un’idea chiara di come deve essere il “maestro”, il “Rabbì” e invece di essere lui a conformarsi alle idee di Gesù, pretende che sia Gesù a conformarsi alla sua idea.
In genere ci sono due modi di rapportarsi alle cose, alle persone, agli eventi.
Il primo dice: “Questo non è come io penso: quindi non vale”. In pratica riduciamo la realtà a ciò che pensiamo nel nostro cervello. Per cui se una cosa non è come noi la pensiamo, la eliminiamo, la scartiamo.
Il secondo invece dice: “Questo non è come io penso, ma può essere vero. Cercherò, studierò e, se sarà vero, lo accetterò anche se non è come io penso”. In questo caso la mente è disponibile ad adattarsi alla realtà.
Nel primo, identifichiamo tutto con noi stessi: rifiutiamo cioè la realtà in quanto tutto è e deve essere come pensiamo noi. Nel secondo ci apriamo invece alla realtà: riconosciamo cioè che la realtà è più grande di noi, esula da noi, non è come la pensiamo. Vivere, imparare, vuol dire aprire la nostra mente alla realtà, non ridurre la realtà alla nostra mente. Infatti, anche se una cosa ci sembra impossibile, non è detto che lo sia; anche se una cosa ci sembra evidente, non è detto che sia vera, reale.
Dunque: cosa dice Pietro? “Rabbi è bene per noi stare qui; facciamo tre capanne”. Perché tre capanne? Nella tradizione ebraica si sapeva tutto del Messia. E alla domanda: “Quando verrà il Messia?”, la risposta era chiara: “Durante la festa delle capanne”: la festa religiosa in cui si commemoravano i quarant'anni di deserto, dopo la liberazione dagli Egiziani e dalla schiavitù, ottenuta grazie a Mosè. Fare tre capanne significa allora cercare di tenersi buono Gesù: essi sapevano infatti che contrastando rudemente il suo operato, così diverso da come essi se lo aspettavano, prima o poi sarebbero incorsi nelle sue punizioni, nei suoi castighi. Lo vedono ancora con i loro “vecchi” occhi, e questo incute loro paura: “erano stati presi dallo spavento”.
Del resto, come se non bastasse la visione della “trasfigurazione”, sentono improvvisamente la voce di Dio che dalla nube che li sovrastava, esclama in maniera perentoria: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!”. È Lui che dovete ascoltare: non Mosè, non Elia, come avete sempre fatto, attaccati come siete al vecchio, alla tradizione, a ciò che è stato. Inutile insistere nel voler fare di testa vostra, come volete continuare a fare.
“E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro”.
Per accettare Gesù, il Gesù che è davanti a loro, essi devono abbandonare, devono lasciare, rigettare, tutto ciò in cui prima credevano ciecamente. Un decisivo salto di qualità, che richiede la loro completa fiducia: devono credere anche se non capiscono e non condividono. Inoltre, una volta tornati giù, Egli si fa promettere di non parlare con nessuno di ciò che avevano visto, “fino a quando il Figlio dell’uomo non fosse risuscitato dai morti”. Altro particolare che li mette ancor più in confusione. Per loro è veramente troppo: obbediscono all’ordine di Gesù, anche se non riescono ancora a capirci nulla, soprattutto “cosa significasse quel risorgere dai morti”. Ma capiranno anche questo: lo capiranno più tardi, dopo la resurrezione.
E concludo: a noi cristiani del XXI secolo, cosa dice questo vangelo? Prima di tutto dobbiamo evitare il comportamento di Pietro che non accettava Gesù: lo voleva “diverso”. Oggi purtroppo quasi tutti amano un Gesù diverso: un Gesù che ognuno costruisce per sé, secondo le proprie idee, le proprie voglie. Ma così facendo amiamo un falso Gesù, un Gesù che ci siamo creati noi nella nostra testa, non il Gesù del Vangelo. Amiamo la nostra idea di Gesù, non Gesù.
Inoltre dobbiamo imparare ad accettare le persone per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero: dobbiamo amare la realtà, perché è l'unica cosa che esiste veramente. Se noi amiamo gli altri perché sono come noi, pensano come noi, fanno quello che vogliamo noi, non amiamo gli altri, ma soltanto noi stessi. Dobbiamo invece accettare che gli altri siano diversi da noi. Perché in questo consiste l'amore: accettare che ciascuno faccia una strada diversa da quella che noi vorremmo per lui. Amare è dire: “Io mi comporterei diversamente, ma accetto la tua scelta”. Accettiamo infine ciò che ci accade. Accettiamo questo mondo. “Questo mondo mi fa schifo; è pieno di ladri, di imbroglioni; ciascuno pensa solo a se stesso, non c'è solidarietà, non c’è carità, non c’è amore; è impossibile amarlo, non lo posso accettare!”. Avremo anche ragione: ma se eliminiamo questo mondo “di schifo”, quale altro mondo ci rimane? E se invece provassimo ad amarlo sul serio? Se provassimo noi, nel nostro piccolo, a migliorarlo, a farlo diverso? L'amore è anche accettazione: possiamo non condividere, possiamo essere contrari, possiamo dissentire, ma alla fine accettiamo le scelte degli altri; anche se non corrispondono ai nostri parametri. Dice Gesù, “se amate quelli che vi amano (cioè quelli che la pensano come voi), che merito ne avrete?” (Lc 6,32). È solo amando, sempre e comunque, che verremo riconosciuti come figli di Dio e riamati da Lui. Amen.