venerdì 27 gennaio 2017

29 Gennaio 2017 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,1-12).

Il vangelo di oggi ci propone le “beatitudini”: un condensato di norme comportamentali che Gesù indica come insostituibili per quanti vogliono seguirlo come discepoli.
È la legge definitiva del nuovo corso di vita instaurato da Gesù: una legge però che, nello stile di Dio, non impone “cosa” dobbiamo fare o non fare, ma ci spiega semplicemente “come” dobbiamo essere: quindi non una legge “negativa”, nel senso che “vieta”, ma “propositiva”, nel senso che esorta a fare nostro il nuovo stile di vita improntato sulla carità.
Le beatitudini in pratica ci indicano il percorso che dobbiamo fare se vogliamo raggiungere il massimo delle nostre aspirazioni: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole per te e questa è la tua unica felicità. Tu non immagini neppure le possibilità che hai, come puoi vivere, come puoi sentirti soddisfatto e felice! Non immagini neppure la grandezza del tuo cuore, la potenza del tuo amore, la profondità dei tuoi rapporti, dei tuoi sentimenti, delle tue percezioni. Non immagini quanto tu possa sentirti ricco, ricolmo di vita, forte, pur non possedendo nulla”.
Le beatitudini, certo, non ci insegnano a vivere senza contrasti, senza conflitti, perché purtroppo vivere senza tale zavorra è impossibile. Non insegnano a scansare le contrarietà della vita ma ad entrarci dentro, a superarle; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (sarebbe comodo), ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io”; e di noi: “Tu puoi vivere meglio di come pensi”.
Le beatitudini infatti non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza. Non dicono che la povertà è un bene: la povertà è miseria, ma appartiene realisticamente alla nostra condizione umana. Non dicono che è un bene essere perseguitati: no, è terribile e crudele; chi lo cerca è un masochista, un ammalato! Ma non possiamo neppure vivere pensando di essere sempre bene accetti da tutti. Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. Solo che piangere ci trasforma, ci purifica; è il modo naturale di esprimere le nostre sofferenze, i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti, le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà: non è bello, ma è necessario. Non dicono che dobbiamo chiudere gli occhi e subire le malefatte degli uomini: dicono invece che dobbiamo essere misericordiosi, che dobbiamo avere un cuore grande che giudica solo le azioni, i comportamenti umani, non gli uomini. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura; per questo diventano aggressivi, violenti, indisponenti. Ciò non significa tuttavia che dobbiamo subire tutto. Quando c’è da dire un “no”, da puntare i piedi contro qualcuno, facciamolo con tutta la nostra forza, tenendo però in considerazione la persona che sta dall’altra parte, commiserandola per la sua situazione.
Le beatitudini dunque non sono dei comandi: “Devi vivere così”. Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. Ci offre una possibilità: possiamo sceglierla o meno. Tocca a noi scegliere. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa dobbiamo fare per essere dei bravi cristiani!”, sono un cammino.
Dio dice: “Sii te stesso”. Dobbiamo cioè vivere la nostra vita. La società invece impone la competizione: “vivi imitando i più forti, i più potenti, superali!”. Molte persone si sono adattate talmente agli altri per compiacerli, da perdere se stesse; non ricordano più neppure chi siano. Dobbiamo rimanere noi stessi, perché essere qualcun altro è il fallimento della nostra esistenza. Viviamo la nostra vita: viverne un’altra non potrà mai farci felici.
Dio dice: “A me non devi dimostrare nulla, puoi vivere serenamente la tua vita anche se non hai successo!”. La società invece dice: “Puoi vivere solo se sei ricco, se hai profitti, se sei famoso, se sei bravo”. Per questo molte persone lavorano sempre di più. Non riescono a star ferme, sono sempre in movimento. E giustificano tutta questa loro iperattività come “agire”, che a seconda  dei casi definiscono come attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per i figli.
Altre persone invece sono convinte di non valere, di non essere poi così importanti, e allora cercano in tutti i modi la visibilità, l’esserci. È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per il prossimo sarò sicuramente un ottimo cristiano, un ottimo padre, un’ottima madre!”. Ma non è quello che facciamo che ci rende bravi cristiani, bravi genitori. È ciò che abbiamo dentro che ci rende tali. Dio non ci ama perché facciamo tanto. Dio ci ama perché siamo noi, perché siamo tornati ad essere sua somiglianza. Tutto quello che facciamo esteriormente, non ci rende più belli o più graditi ai suoi occhi.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore assolutamente sicuro che ci aspetta alla fine del nostro percorso!
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”. La nostra cultura dice invece: “No, non rivelare mai i tuoi sentimenti, soprattutto quelli più personali e profondi”.
Molte persone hanno imparato che non è bello farsi vedere deboli: chi è forte non piange mai. E per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma ciò non li rende affatto uomini forti, ma solo persone insensibili, rigide e gelide come il marmo. Il pianto è una reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha addolorati. Smettere di piangere non ci rende meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo. Tensione e dolore rimangono forzatamente dentro di noi, nascondendo la verità: facciamo credere che tutto vada bene, quando invece dentro di noi siamo profondamente scossi.
Al contrario molte persone credono che arrabbiarsi sia male. Nossignori: è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni di odio. Ogni volta che veniamo feriti nella nostra dignità, è normale per noi arrabbiarci. E una volta che siamo arrabbiati, dobbiamo accettare di esserlo, perché vuol dire che una ragione c’è: solo così possiamo iniziare a gestire la nostra rabbia e a buttarla fuori.
Molte persone, poi, hanno imparato a non aver mai paura. Così sono convinti di non aver paura di nulla; ma aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura. Non dobbiamo nascondere la paura dietro una maschera allegra o sorridente. Non dobbiamo resistere alla paura con tutte le nostre forze, la paura ci appartiene. Ci dice che ciò che stiamo facendo ci costa, ci mette in gioco, è qualcosa d’importante; sappiamo però di essere noi i più forti.
Altre persone infine si vergognano di come vivono, di ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore talmente grande da contenere ogni cosa; Lui non ha paura di ciò che a noi fa paura o di ciò che ci fa sentire in colpa; la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta qualunque cosa facciamo. Dobbiamo solo comunicare con Lui, condividendo ciò che proviamo. Non dobbiamo nascondergli nulla perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle nostre “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che noi non riusciamo ad amare. E quando non avremo più nulla da nascondere, allora ai suoi occhi saremo finalmente liberi e liberati.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Già questa prima beatitudine le racchiude tutte.
Il “povero” è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso. Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa uno che vive distaccato dalle cose, totalmente immerso in esse, ma senza aggrapparsi ad esse.
Pensiamo ad una cosa e diciamole: “Tu sei mia”. A che cosa possiamo dire: “Tu sei mia!”? Il marito, la moglie, sono nostri? I figli sono nostri? La vita è nostra? No, neppure la vita è nostra. Non ci sembra allora di essere i poveri più poveri? Non possediamo nulla, nemmeno la vita!
La povertà, l’essere nulla (diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente, ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
Quando si ama, ad esempio, la paura di perdere l’altro ci può distruggere. Iniziamo a temere che qualcuno ce lo sottragga, diventiamo gelosi e iniziamo a controllarlo. Iniziamo a temere che l’amore finisca o cambi, e leggiamo ogni situazione alla luce di questa paura, vedendo non la realtà, ma ciò che i nostri occhi vogliono vedere. Iniziamo a volerlo trattenere, ad aver paura quando esce di casa, a proteggerlo troppo, a sentirci soli quando non c’è. Iniziamo a pensare a quando non ci sarà più, a come sarà la nostra vita senza di lui, e se potremmo vivere ancora. Se poi si insinua il dubbio che l’altro non ci ami più, allora è la fine. La verità, in ogni caso, è che prima o poi, nella nostra vita, quest’amore lo perderemo in ogni caso. È la realtà! Ma se riusciamo a vincere questa paura, se ce ne liberiamo, possiamo amare con tutta la forza della nostra anima e con tutto il sentimento del nostro cuore, senza calcoli, senza riserve, senza paure, senza eccessivi attaccamenti, senza possederlo.
Ringraziamo Dio di ciò che viviamo e se le cose un giorno cambieranno, le affronteremo con la pienezza dell’oggi, che diventerà la nostra forza per il domani.
La prima beatitudine, dunque, dice la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ci appoggiamo? Su cosa possiamo davvero fidaci? Sulle cose? Passano tutte, tutte si usurano. Sulla gloria? Forse rimarrà un nome, ma noi non ci saremo più. Sulle persone? Non ci salvano.
Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa a cui ci possiamo appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Nella lingua ebraica “zerà”, oltre a “zero, niente”, significa anche “seme”. Ebbene, noi siamo “zero, nulla”, siamo vuoti, poveri di tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere “niente”, è nascosto, come in un “seme”, il nostro essere tutto.
Nel nostro niente c’è il Tutto. Nella nostra povertà c’è la Ricchezza. E più noi ci spogliamo, smettendo di confidare in noi stessi, più possiamo metterci nelle mani di Dio ed essere al sicuro.

Perché quando non avremo più nulla, è allora che avremo il Tutto. E quando saremo spogli di ogni cosa, è allora che saremo rivestiti di eternità. E quando tutto morirà, allora ci sarà la Vita. E quando tutto alla fine cadrà, allora per noi sarà l’Inizio. Amen.



giovedì 19 gennaio 2017

22 Gennaio 2017 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino. 
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». (Mt 4,12-23).

Il vangelo di oggi ci presenta l’inizio dell’attività pastorale di Gesù.
Il Battista è stato arrestato e la situazione si fa pericolosa anche per Lui. Pertanto Egli “scappa” verso il Nord, in Galilea; lascia Nazaret, la sua città, e si porta in Cafarnao, “sulla riva del mare”. È strano che città come Nazaret e Cafarnao nell’Antico Testamento siano completamente sconosciute, anche se Cafarnao, in particolare, fosse una città molto importante, una città di frontiera. Matteo la colloca “sulla riva del mare”: in realtà non si tratta del mare ma del lago di Genezareth o di Tiberiade. Ma perché l’evangelista parla di mare quando sa benissimo che è un lago? Perché Matteo vuol dare qui una spiegazione teologica: il mare era quello che separava Israele dalle terre pagane ma soprattutto era quello che il popolo d’Israele aveva attraversato per fuggire dalla schiavitù egiziana. Era sinonimo quindi di piena liberazione: per Matteo, quindi, Gesù rappresenta il nuovo Mosè, venuto a liberare il suo popolo.
Inoltre: perché Gesù dalle rive del Giordano, invece di scendere in Giudea, terra eletta, abitata dalla nobiltà sacerdotale, sede del Tempio, sale in Galilea, regione “delle genti”, popolato da poveracci, bifolchi, gente violenta, gente cordialmente disprezzata dai ricchi Giudei? Semplice: perché si compisse quanto anticipato da Isaia: gli abitanti che abitavano nelle tenebre, nella “terra di Zabulon e di Neftali, sulla via del mare, oltre il Giordano”, regione di morte, sarebbero stati i primi testimoni del sorgere di una “grande luce”: e Matteo vede in ciò il compimento della promessa messianica di Israele (Is 8,23): Gesù, in quella terra “maledetta”, è dunque questa “nuova luce” sorta per illuminare il mondo.
È pertanto da qui che Gesù inizia la sua attività: “cominciò a predicare e a dire: Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino”.
Il verbo usato qui da Matteo è categorico: “metanoèo”; per seguire Gesù, per accoglierlo, è necessario “convertirsi”, nel senso di “cambiare radicalmente mentalità” (“shub” in ebraico vuol dire “cambiare direzione”, fare una inversione ad “U”); in pratica, bisogna che tutti cambino il loro modo di “pensare” (noèo): la mente, nell’antichità, era considerata la sede non solo del pensare ma anche dell’agire. Quindi Gesù non si limita qui a chiedere un semplice “ritorno religioso a Dio” (= avrebbe usato “epi-strepho”), ma pretende un coinvolgimento concreto, operativo, dell’intera persona: un cambio di mentalità totale che incide, che trasforma, che impone al nostro comportamento un radicale “dietro-front”.
Questo perché con Gesù non è più sufficiente “tornare verso Dio”, ma è necessario “accogliere” questo Dio, e andare con Lui e come Lui, andare verso gli altri: in una parola dobbiamo impostare diversamente la nostra esistenza, quell’esistenza che noi incentriamo normalmente su noi stessi.
Poiché è la nostra mente, sono i nostri pensieri, la nostra volontà, che determinano le nostre azioni, le nostre emozioni, dobbiamo essere radicali: dobbiamo cioè iniziare la nostra “conversione” proprio dalla base: analizzando questi nostri pensieri, e sostituendo, cambiando, estirpando quelli che producono male, che generano sofferenza. Molti dei nostri pensieri sono dei veri e propri “virus” per la nostra vita; oltre che indurci al male, creano poi dolore, paure, sensi di colpa, angoscia: “Come sono arrivato a questo? Piacerò ancora? E se continuassi a sbagliare? Se deludessi ancora tutti? Sono un disastro! Non ho più futuro! Non sono capace a rialzarmi! Non cambierò mai! La mia vita è inutile!”.
Come potremmo vivere una nuova vita continuando a lasciarci dominare da questi tarli che ci rodono l’anima? È intraprendere una nuova vita che è difficile, oppure sono i nostri pensieri che la rendono tale? Perché se sono i nostri pensieri noi non saremo mai in pace con noi stessi, di qualunque genere siano le nostre decisioni, qualunque sia la nostra scelta di vita!
Allora perché dobbiamo proprio convertirci? Se questo ci procura tanto lavoro e sofferenza, perché dobbiamo proprio farlo? Il motivo è chiaro: “Il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17). Ma cosa intende Matteo con il “regno dei cieli”? È un’espressione che troviamo soltanto nel suo Vangelo e indica semplicemente il “regno di Dio”. Un regno che non è fatto per dominare, sottomettere, conquistare, ma un regno in cui Gesù si prende cura dei più poveri, degli afflitti, dei miserabili, di coloro che hanno bisogno di tutto. Non è più un regno di questo mondo, dove il re di turno chiede, domanda, pretende, obbliga, impone leggi, sanzioni e tasse; ma è un regno specialissimo in cui Cristo, il Re, si offre, si dona, si prende cura.
E per servire, per attuare, per realizzare, per operare in questo regno, Gesù ha bisogno di collaboratori: ecco perché questo regno è “vicino” a noi: perché aspetta la nostra adesione, perche aspetta che anche noi ci mettiamo al suo servizio; e per farlo dobbiamo come condizione prioritaria ed essenziale abbandonare la nostra vecchia mentalità, e accogliere, rivestirci, della nuova mentalità di Cristo, descritta da Lui nelle beatitudini e nel suo Vangelo.
Per questo, mentre cammina “lungo il mare di Galilea”, visti due fratelli, due poveri pescatori, li chiama dicendo loro: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini”.
È interessante come Gesù per iniziare la sua comunità non vada in cerca di monaci come gli esseni, di persone pie come i farisei, di appartenenti al clero come i sacerdoti, di benestanti e potenti come i sadducei, e tanto meno di teologi come gli scribi, ma preferisca gente povera, normale. Sono gli umili che capiscono subito l’importanza della chiamata. Sono essi che accettano di slancio la difficile missione di offrirsi, di annunciare, di portare un messaggio di gioia, di vita e di speranza. “Venite dietro a me”, dice Gesù: Egli è il nostro riferimento, Lui va avanti e noi dietro: Lui ha bisogno di noi, noi dobbiamo seguirlo. Senza velleità di primeggiare, di ottenere riconoscimenti, ma solo dimostrandogli tutta la nostra disponibilità, la nostra buona volontà, la nostra “nuova” mentalità: perché solo così la nostra risposta al suo invito sarà sincera, leale, efficiente.
Dio ha stima di noi. Dio ha più fiducia in noi di noi stessi, perché ci conosce meglio di noi. Noi abbiamo paura, ma lui, al contrario, ha fiducia, ha stima di noi. Sa cosa possiamo fare. Conosce la grandezza a cui possiamo giungere, se ci manteniamo umili. Gesù infatti non dice: “Venite dietro di me e vi farò maestri di spiritualità, vi farò diventare santi, vi farò diventare asceti”. Ma semplicemente: “Venite dietro a me, vi farò capaci di togliere le persone dalla morte per ridare loro la vita”.
“Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”: la fede non è una produzione di preghiere, di salmi, di concetti religiosi. La fede è andare. Dio ci chiama (chiamata) e noi siamo chiamati a rispondere (respondeo: da cui responsabilità!).
Il rapporto chi si instaura tra noi è immediato, sequenziale: c’è la Sua chiamata (vocatio, vocazione), un qualcosa che ci tocca, che ci interpella, che dice al nostro cuore: “Io voglio te, proprio te!” e c’è una nostra risposta vincolante; una risposta che, a vederla con la mentalità del mondo, è sicuramente una “pazzia”. Sì, perché la chiamata significa “andare”: significa avere fede incrollabile in Lui, lasciarsi coinvolgere, mettersi completamente in gioco, uscire dal proprio “ego”, dal proprio modo di pensare, dal nostro “egotismo”: è questa la “pazzia” dei santi.
Molte persone si chiedono: “Ma qual è in concreto la mia chiamata? Cosa devo fare nella vita per rispondere alla mia vocazione?”. Certo, è una domanda che dobbiamo sicuramente porci, è una fase di discernimento che dobbiamo affrontare: a condizione però che non sia un modo per sfuggire al nostro coinvolgimento, al procrastinare “sine die” un nostro impegno: aspettiamo la “grande” chiamata e intanto trascuriamo le “piccole” chiamate di ogni giorno.
Del resto per deciderci subito basta guardarsi attorno: quanto bisogno c’è di gente che si impegni, che lotti per un mondo meno corrotto, più vero; quanto bisogno c’è di persone che si schierino per l’umanità, che credano in qualcosa che vada oltre il denaro e l’approvazione umana; quanto bisogno c’è di persone che credano nell’uomo per costruire un mondo nuovo e diverso; quanto bisogno c’è di persone profonde che sappiano dialogare, senza indietreggiare di fronte alle contrarietà, senza scendere a compromessi con le nuove “culture”, con il pensiero laico dominante. C’è bisogno insomma di persone appassionate dell’anima, della fede e del profondo; c’è bisogno di persone che ascoltino il dolore e la sofferenza di tanti fratelli che vivono vittime di dinamiche malsane e opprimenti.
Chi deve andare? Sono gli altri che devono muoversi? E noi? Purtroppo gran parte della gente, molto brava nell’arte dello “scaricabarile”, pensa sempre che tocchi a qualcun altro.
Ma è fin troppo comodo pensare che la chiamata di Dio, la vocazione, sia un fatto elitario, riservato soltanto ai preti e alle suore. Certamente quella è la “loro” chiamata: ma Dio non chiama solo alcuni, Dio chiama tutti.
Nel vangelo la chiamata non è mai un fatto privato: è singolare, unica, personale, è vero; ma nel senso che ogni singola persona riceve la sua chiamata specifica, diversa dalle altre per modalità, per competenze e per ruoli. Ma ogni chiamata di Dio ha sempre una dimensione comunitaria, sociale.
Dio non è un qualcosa di privato, di esclusivo, da godere e vivere da soli nella nostra stanza, nel nostro cuore, isolandoci da tutti. Se ci riduciamo a vivere in questo modo, allora la nostra fede implode, diventa squilibrio, alienazione. Fede al contrario è agire, muoversi, andare; è azione verso i fratelli. Agire significa far emergere, portar fuori l’energia, il fuoco, la passione che abbiamo dentro, per vivere e far vivere in pieno la Vita; significa voler trasformare il mondo e la società, significa desiderio e impegno di lotta contro il male che ingabbia l’Amore: se la nostra fede non è così, abbiamo fallito il nostro mandato, la nostra vita rimane vuota, solo frivolezze e vanità.
Gesù ha mandato gli apostoli (e poi noi cristiani) a portare il vangelo per il mondo: un vangelo che è all’opposto di ciò che pensa e vive il mondo. Perciò dobbiamo cambiarlo questo mondo, dobbiamo “convertirlo”, rinnovarlo, renderlo diverso, riportarlo a nuovo. Per questo siamo stati chiamati, per questo siamo stati scelti. Per questo, seguendo il nostro cuore, dobbiamo vivere la nostra “chiamata” con carità, compassione, tenerezza, elasticità, adattamento, sorriso, umanità. E soprattutto con fede: perché solo dimostrando con i fatti di vivere la nostra fede, di credere convintamente in Dio, potremo “convertire” anche gli altri. Amen.



venerdì 13 gennaio 2017

15 Gennaio 2017 – II Domenica del Tempo Ordinario

“Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29-34).

Il vangelo di oggi ci ripropone la figura di Giovanni Battista: soltanto che mentre nel racconto degli altri evangelisti ci viene descritto come colui che battezza Gesù, nel vangelo di Giovanni egli appare come un osservatore estraneo, uno che, convinto da certi “segni”, offre una importante “testimonianza” a favore di Gesù e della sua missione divina. Qui la “discussione” tra il Battista e Gesù sull’opportunità del battesimo di quest’ultimo, scompare del tutto. Le distanze tra i due vengono azzerate; il Battista, di fronte alla rivelazione dello Spirito di Dio che scende sul Figlio in forma di colomba, capisce e rende pubblica testimonianza su Gesù, rivelando chi egli sia realmente. E dice: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. Egli ha visto personalmente, è un testimone oculare diretto, egli ha tutti i titoli per poter testimoniare la verità.
Noi invece parliamo troppo spesso per sentito dire. Parliamo senza avere elementi per poterlo fare con cognizione di causa. Soprattutto quando discutiamo di Dio. Cosa ne sappiamo noi di Dio? Cosa abbiamo concretamente “visto” di Lui? Lo abbiamo forse sperimentato nella nostra vita, nel nostro intimo? No? E allora come possiamo parlare con tanta presunzione se non lo abbiamo visto, non lo abbiamo sentito, non abbiamo capito nulla di lui? Se Dio non ci ha resi diversi, nuovi, più profondi, più liberi, più veri, se non ci ha “guariti” dentro, se non ha toccato il nostro cuore, come possiamo affermare di conoscerlo?
Oggi tutti parlano di Dio, scrivono di Dio, discutono di Dio; ma lo fanno tutti in maniera superficiale, parlano a vanvera, ripetono meccanicamente il sentito dire da sedicenti esperti, da studiosi dai nomi altisonanti, sempre pronti ad esibirsi in nuove stravaganti teorie, ma che di incontrarlo personalmente non vogliono neppure sentirne parlare!
Finiamo così troppo spesso col ridurre Dio ad una semplice dottrina, a dei catechismi da imparare, a dei dogmi da credere, a delle regole da osservare. Ma Dio non è questo: Dio è Amore; è un “incontro” privato, intimo; un incontro con l’anima, col cuore; è vita condivisa, è amore donato, è gioia trasmessa.
Solo se lo abbiamo “incontrato” così, solo se cerchiamo in tutti i modi di incontrarlo per questa via, possiamo affermare seriamente che Egli esiste: altrimenti no!
Allora la domanda: “Tu conosci Dio? Credi in Dio?” è una domanda mal posta; la domanda corretta è: “Hai incontrato Dio? Cos’ha fatto lui per te? Come ti ha dimostrato il suo Amore? Cos’hai fatto tu per Lui? Come hai percepito la sua presenza in te? Come è nato in te il bisogno di parlargli, di conoscerlo, di affidarti a lui?”. Perché solo se abbiamo esperienze dirette, un rapporto personale con Lui, possiamo anche noi come il Battista rendergli testimonianza: dobbiamo prima “vederlo”, “provarlo”, “toccarlo”. Solo allora potremo anche averne una pallida idea: ma solo allora ci renderemo anche conto di non saperne mai abbastanza.
“Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”, grida dunque il Battista alle folle presenti. È la sua testimonianza nei confronti di Gesù; una testimonianza che costituisce il centro del vangelo di oggi, sulla quale vale la pena soffermarci, anche perché sono parole che noi conosciamo bene, poiché le ripetiamo durante la santa Messa, probabilmente senza comprenderne il più ampio e profondo significato.
Ebbene: cosa voleva dire Giovanni in concreto, paragonando Gesù ad un “agnello”?
C’è da dire prima di tutto che gli ebrei erano un popolo nomade, allevatori di bestiame, e quindi esperti conoscitori di agnelli, pecore e capre. Conoscevano bene la Scrittura, in particolare quei passi che parlavano di agnelli offerti in sacrificio. Conoscevano l’agnello che ogni anno a Pasqua essi immolavano per ricordare l’uscita del loro popolo dall’Egitto. Conoscevano il capro espiatorio: quel capro che nel giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) veniva caricato simbolicamente di tutte le colpe del popolo e mandato a morire nel deserto.
Ma soprattutto conoscevano il famoso, emblematico episodio di Abramo.
A cento anni Dio gli aveva finalmente concesso il figlio da sua moglie Sara, un figlio atteso per tutta la vita, un figlio che per lui costituiva la cosa in assoluto più cara, più preziosa al mondo. Non dimentichiamo che per un ebreo la discendenza, l’avere un figlio, era la cosa più importante; voleva dire: “anche se un giorno morirò, io continuerò a vivere per sempre in te, nei tuoi figli, nei figli dei tuoi figli…”.
Ebbene, cosa è successo ad Abramo? Un giorno, improvvisamente, Dio gli chiede di offrire questo suo figlio in olocausto. Possiamo capire la disperazione, l’angoscia, il dolore mortale che egli dovette affrontare. Solo dopo aver “provato” la sua fede, la sua sottomissione, la sua totale obbedienza, Dio lo risparmia, chiedendogli di immolare, al posto del figlio, un agnello.
Gli ebrei sapevano quindi molto bene a cosa volesse alludere Giovanni parlando dell’agnello: una vita dolce e mansueta che costituiva la vittima sacrificale più gradita a Dio. Gesù, dice dunque Giovanni, è l’agnello sacrificale, è la vittima che sarà offerta a Dio a riscatto dei peccati del mondo.
Inoltre: il monte in cui avvenne il sacrificio di Abramo si chiamava “Moria”: quasi ad indicare che in Abramo c’era qualcosa che doveva morire. In che senso?
Nel senso che in ogni passaggio di vita siamo costretti a far morire qualcosa. Vivere, crescere, evolvere, diventare discepoli del Signore, vuol dire far morire sempre qualcosa di noi stessi.
Abramo amava troppo quel suo figlio: proprio per questo deve sacrificarlo, perché quel “suo” figlio non è suo, ma del Signore; deve cioè smettere di possederlo, di considerarlo sua proprietà esclusiva, perché quel figlio appartiene solo a Dio. Dura da accettare, ma è la volontà di Dio!
Quante volte, di fronte alle contrarietà della vita, anche noi come Abramo esclamiamo: “Questo non è giusto! Tu Dio mi chiedi troppo! Mi perseguiti, mi stai facendo troppo male!”.
E se questa fosse l’ultima “chiamata” di Dio? Se dovessimo passare proprio di là? Non diciamo allora: “Ma che vita è questa? È uno schifo! Insopportabile, bastarda!”. Diciamo piuttosto: “Signore cosa vuoi dirmi con questa tua lezione di vita? Cosa devo imparare da essa? In cosa devo cambiare, in cosa devo migliorare? È molto faticoso per me, ma eccomi, sia fatta la tua volontà!”.
L’agnello, allora, anche per noi rappresenta il sacrificio; è cioè il dolore che dobbiamo pagare; sono le sofferenze che dobbiamo sopportare per crescere, per evolvere, per diventare spirituali, puri: non a caso la radice ebraica della parola “Abramo” significa proprio “purezza, innocenza.
Nella nostra vita abbiamo sempre paura di fare delle scelte controcorrente? L’agnello è il prezzo della nostra libertà. Abbiamo timore di dire di no agli altri per non offenderli? L’agnello è il prezzo della nostra autonomia. Vogliamo sempre pianificare e decidere tutto? L’agnello è il prezzo della nostra fede.
Nel mondo dello Spirito, ciò che è più grande (l’amore) richiede sempre il prezzo più grande (l’agnello del sacrificio). Ma ciò che richiede il prezzo più grande dona anche la felicità e la pace più grandi.
Ma forse Giovanni, chiamando Gesù l’Agnello di Dio, voleva dire anche un’altra cosa.
Infatti, la parola “taljah”, in ebraico, oltre che agnello vuol dire anche “servo”.
Molto probabilmente allora il Battista, quando parlava di Gesù, intendeva non tanto l’agnello, ma il “servo” di Dio. E qui si sarebbe ampiamente riferito ai “Canti del Servo di Jahweh”, quei quattro meravigliosi canti contenuti nel Deutero Isaia.
Col tempo però i cristiani preferirono leggere nella parola “taljah” il solo significato di “agnello”: d’altronde non era forse vero che la sentenza di morte di Gesù era stata pronunciata il 14 di Nisan, verso mezzogiorno, proprio nell’ora in cui si sgozzavano gli agnelli? Esattamente come è successo con Gesù, che è quindi il nuovo, ultimo e definitivo Agnello, Colui che toglie il peccato dal mondo.
Quando durante l’Eucaristia ripetiamo “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo…”, noi vogliamo sicuramente dire: “Dio è morto a causa dei nostri peccati; Dio si è sacrificato per noi”. E ci sentiamo profondamente colpevoli. Ma l’espressione “Agnello di Dio” vuol dire anche e soprattutto un’altra cosa: “Dio è buono come un agnello; Dio non ci farebbe mai del male; Dio è bontà, tenerezza, misericordia”. Dio non è vendicativo, non è geloso, non è violento: Dio non potrà mai volere il nostro male.
In questo senso, noi uomini moderni, per definire la grande bontà, la mansuetudine, la pazienza di Dio, più che ricorrere all’immagine dell’agnello, molto comune nella cultura ebraica, potremmo più plasticamente servirci del termine “abbraccio”. Sì, Dio è un “abbraccio”!
Un abbraccio in cui ci sentiamo assolutamente accolti, accettati, avvolti di bontà, riconosciuti, stimati, amati. Un abbraccio non può far mai paura, a nessuno. Dio è così. Per nessun motivo al mondo lo dobbiamo temere. Lui non ci tradisce, non ci volta le spalle, sta sempre dalla nostra parte, non ci abbandona mai. Il suo è il gesto di uno che ci corre incontro per amarci, per guarirci, per darci tutto ciò che ha; il suo è un abbraccio che offre felicità, che vuole per noi una vita entusiasmante.
Allora andare a fare la Comunione è come andare dalla persona amata: è una gioia, un’attesa ansiosa, un’aspettativa carica di desiderio. Andare a fare la Comunione è come correre tra le braccia della mamma: è lì che sentiamo quanto siamo importanti, quanto valiamo, quanto siamo belli. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia del papà: è lì che ci sentiamo al sicuro.
Dio si è mostrato al mondo come Bambino perché voleva che non avessimo paura di Lui. Se voleva che lo temessimo si sarebbe mostrato forte, potente, gigantesco. Ma che può farci un bambino? Che può farci un agnellino? Che può farci una madre perdutamente innamorata del proprio figlio? Se qualche volta ci mette alle strette, ci da una tirata d’orecchie, è solo perché ci vuole bene, perché vuole che diventiamo grandi, adulti e soprattutto felici. Nel silenzio dell’anima possiamo ascoltare tante sue parole che non hanno voce.
Una storiella racconta che dei feroci banditi, scesi da una montagna altissima, entrarono in un villaggio, lo misero a ferro e fuoco, saccheggiarono tutti i beni, e per assicurarsi la fuga, rapirono un bambino, portandolo con sé nel loro impervio rifugio. Gli uomini migliori del villaggio, per ben due volte provarono in tutti i modi a scalare le alte vette della montagna, ma tornarono vinti dalle difficoltà, dal freddo, dal ghiaccio, dalle tormente di neve. Visti i loro tentativi infruttuosi, la madre del bimbo, disperata, contro il parere di tutti, partì da sola; dopo alcuni giorni, lacera, ferita e stremata, tornò portando in braccio il suo bambino. Increduli, quanti avevano partecipato alle precedenti spedizioni le chiesero: “Ma come hai fatto? Noi in gruppo e ben equipaggiati non ci siamo riusciti, e tu da sola, sì? E lei: “Non era vostro figlio!”.
La potenza di una madre! Ebbene, Dio è come quella madre. Amen.


giovedì 5 gennaio 2017

8 Gennaio 2017 – Battesimo del Signore

«Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui» (Mt 3,13-17).

Con la festività di oggi, il Battesimo di Gesù, si conclude il tempo liturgico del Natale. Domenica prossima entreremo nel Tempo Ordinario che ci porterà fino alla Quaresima.
Oggi il vangelo di Matteo annuncia che Gesù, partito dalla Galilea, raggiunge Giovanni Battista sul fiume Giordano, nel deserto e, come tutti gli altri, si fa battezzare da lui.
Ma per quale motivo Gesù va a farsi battezzare? Non certo in quanto peccatore, bisognoso di conversione. Lo fa invece per essere fedele in tutto alla volontà del Padre. Inoltre, tra il suo battesimo e quello della gente c’è una differenza sostanziale: infatti se entrambi richiamano in qualche modo l’idea di “morte”, quello dei comuni mortali implica il morire sia alla loro vita passata che a quella presente; il loro morire è propedeutico ad una nuova vita; per Gesù invece il battesimo annuncia e simboleggia la sua morte futura, una morte non simbolica ma reale: scendendo nelle acque del Giordano, egli abbraccia e accetta il suo destino di morte, il suo atto sacrificale estremo offerto al Padre per la nostra salvezza, per dimostrare pienamente al mondo il Suo volto d’Amore.
Il Battista però, che non percepisce questo motivo pilota del comportamento di Gesù, cerca di impedirglielo, e protesta: “Ma come, sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e invece sei tu che vieni da me?”. E Gesù: “Lascia fare per ora, poiché conviene che adempiamo ogni giustizia” (Mt 3,15).
Una risposta ermetica. Cosa intende qui Gesù? Dobbiamo prima di tutto risalire al significato di “giustizia”: questo termine, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è strettamente collegato al termine “fedeltà”, fedeltà all’Alleanza: era “giusto”, praticava la “giustizia”, l’uomo che era fedele a Dio, al patto di Alleanza che Egli aveva sancito con il suo popolo e, attraverso di esso, con l’intera umanità. Se Dio dal canto suo è sempre “giusto”, perché la sua “fedeltà” alle promesse fatte è eterna, non così è per l’uomo: a lui capita molto spesso e con estrema disinvoltura, di venir meno alla “giustizia”, di tradire cioè qualunque impegno preso con Dio. La qualifica di “giusto” di “operatore di giustizia”, allora, gli spetterà soltanto se risulterà fedele ai suoi impegni con Dio. E solo allora.
Questo, in estrema sintesi, è quanto Gesù vuol dire al Battista con le parole “adempiere ogni giustizia”: Gesù, da “giusto” qual è, si sottomette docilmente alla volontà del Padre: Battista, dal canto suo, si deve adeguare, anche se ciò gli scombina il suo “credo”.
A questo punto Matteo, nel descrivere l’adattamento di Giovanni alla volontà di Gesù, dice letteralmente che “egli lo lasciò” (in greco “tote afiesin auton”): sono le identiche parole che egli userà più tardi (Mt 4,11), nel descrivere le tentazioni di Gesù nel deserto: il demonio, visti inutili i suoi tentativi di seduzione, “lo lasciò”: appunto “tote afiesin auton”. Allora qui Matteo non vuol dire tanto che il Battista “acconsentì” alla richiesta di battezzarlo rivoltagli da Gesù; e neppure che egli “lasciò fare”, come talvolta vengono tradotte in italiano queste parole: che cioè il Battista, pur non essendo d’accordo, avrebbe “lasciato correre”, avrebbe “accondisceso” a battezzare Gesù. Matteo qui invece vuol sottolineare che il Battista, deluso dal comportamento di Gesù completamente fuori schema, assolutamente contrario alla sua visione messianica, in pratica lo lasciò, lo abbandonò al suo destino, né più né meno di come farà più tardi il diavolo stesso.
In altre parole, avremmo già qui la prima tentazione di Gesù, ossia un invito pressante rivolto a Gesù (il diavolo in questo caso sarebbe Giovanni), di accantonare la missione salvifica affidatagli dal Padre, per trasformarla in quel ruolo messianico che la gente si aspettava da lui: un Messia storico, cioè, immediatamente riconoscibile da tutti, accolto e acclamato come un coraggioso e vittorioso re davidico, finalmente giunto per condurre il popolo alla riscossa contro gli invasori, seminando tragiche rappresaglie e vendette contro i malvagi, contro i “fuori legge”.
Ma Gesù non si lascia fuorviare dal “maligno”: Egli è esattamente l’opposto; è venuto a portare all’umanità diseredata, la salvezza, l’amore, la misericordia del Padre; Egli combatterà durante la sua missione terrena; combatterà continuamente e coraggiosamente per estirpare dal popolo questa distorta immagine del Messia: perché Lui sarà solo ed esclusivamente un Messia d’amore, un Messia votato al servizio dei più deboli, dei peccatori, .
“Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui”; si aprì cioè la “dimora” divina e Dio stesso scese per appoggiare suo Figlio.
Interessante è il verbo “aprirsi” (in greco eneòkthesan) riferito ai cieli, che fa un chiaro riferimento al testo di Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi” (Is 63,19). Perché è interessante? Perché indica un evento di assoluta novità: a quei tempi infatti si credeva che Dio, indignato per i peccati dell’umanità, avesse sigillato la sua dimora (i cieli sono la dimora di Dio), interrompendo ogni comunicazione con il popolo degenere.
Con la venuta di Gesù, questa antica convinzione viene decisamente annullata: i cieli si aprono, si “squarciano” addirittura: una autentica garanzia di salvezza per il futuro, perché d’ora in poi i Cieli rimarranno sempre aperti, al pari di un contenitore la cui chiusura è stata distrutta, “squarciata”. Dio ha smesso di offendersi, di isolarsi da noi: anche se noi continueremo testardamente ad ignorarlo, a tradirlo, Lui non potrà fare altrettanto con noi, la sua misericordia non lo permette; ci rimarrà invece sempre vicino, pronto ad offrirci a piene mani il dono supremo del suo Amore. Sempre.
Oggi Dio, in occasione del battesimo di Gesù, lo rende noto, comprensibile all’umanità intera; fa cioè vedere a tutti, in concreto, chi Egli sia veramente: un Dio Amore, un Dio esclusivamente buono; un Dio ansioso di comunicare, di colloquiare con gli uomini. Un Dio completamente diverso da prima.
Il Dio della religione mosaica diceva infatti: “Hai ucciso: meriti di morire! Hai peccato: non Mi meriti! Hai fatto un tragico errore: considerati indegno di Me, un peccatore imperdonabile: hai tradito la Mia fedeltà; sei fuori dalla mia dimora!”.
Il Dio di Gesù dice invece: “Io sono l’Amore. Sono qui per amarti, anche se tu non vuoi saperne. Non sono qui per terrorizzarti, ma per farti capire che ti amo. Il mio compito è questo. Vuoi permettermelo? Vuoi accettarlo?”. Una verità, questa annunciata oggi da Matteo, confermata anche dal quarto vangelo, quello di Giovanni: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).
Allora, come dobbiamo rispondere noi a questa opportunità, a questa offerta di Dio? Semplicemente trasformando il nostro battesimo d’acqua, in battesimo dello Spirito.
Tutti abbiamo ricevuto il battesimo d’acqua: siamo stati cioè “generati”, ci è stata offerta una nuova vita: un dono gratuito ricevuto per i meriti di Cristo. Ma ciò non basta. Non enfatizziamo troppo questo “inizio”: perché il vero battesimo, quello che ci rende veri seguaci di Cristo, è quello successivo, quello di “fuoco”, quello con cui noi rispondiamo con la vita, con i fatti, alla chiamata di Dio: quello cioè, con cui ci rigeneriamo, ci “ricostruiamo”, per ridiventare a sua “immagine e somiglianza”, come Egli ci aveva chiamati ad essere fin dall’inizio. È il battesimo dello Spirito che ci renderà infatti testimoni di una nuova vita, risposta d’amore all’Amore, fedeli fino in fondo a Colui in cui crediamo e che ci “brucia” dentro, che ci appassiona il cuore oltre ogni umana esperienza.
I grandi personaggi della Bibbia hanno sempre confermato la loro chiamata iniziale (battesimo d’acqua) superando cammini tortuosi, prove difficili, viaggi duri, faticosi, durante i quali Dio li ha forgiati e purificati. Noè, per esempio, ha dovuto costruire l’arca tra la derisione e lo scherno generale; Abramo ha dovuto affrontare un lunghissimo viaggio per raggiungere nuove terre, completamente a lui sconosciute e ostili; Mosè ha dovuto guidare il popolo attraverso il Mar Rosso e il deserto, per poter raggiungere la terra promessa; Giobbe e Tobia compirono entrambi dei viaggi molto impegnativi e pericolosi. Gesù stesso si immerge oggi nel Giordano (Giordano, yared, vuol dire appunto “immergersi”) ma soprattutto si immerge in questa umanità inquieta ed irrequieta che, in cambio dei tanti benefici e favori, lo condanna al patibolo: un’umanità che ancora oggi non cessa di rinnegarlo, di rifiutarlo, di ucciderlo.
Gesù dice nel vangelo: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso… Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, la divisione... Non sono venuto a portare la pace ma una spada...”.
Allora smettiamola di pensare o di credere che per essere veri cristiani basti semplicemente l’essere battezzati. Quando i media dicono che il 95% degli italiani sono cristiani, dicono una corbelleria. Sarà la percentuale dei battezzati con l’acqua, ma non dei cristiani battezzati col fuoco dello Spirito.
La gente crede ancora che seguire Gesù sia qualcosa di comodo, di tranquillo e di indolore. Basta qualche pratica, andare alla messa ogni tanto o dire qualche preghiera.
Ma seguire Gesù significa “fuoco”. È quella passione che ci brucia dentro, che non può lasciarci indifferenti di fronte alle ingiustizie, di fronte ad una società edonista che uccide l’anima degli uomini, di fronte a genitori inconsapevoli che portano al battesimo i loro figli come fossero delle graziose marionette o dei burattini con cui divertire la gente.
“Fuoco” è la passione che ci spinge ad uscire, ad esporci, a non stare zitti. Potremmo starcene in disparte e farci gli affari nostri; e, invece no, ci buttiamo nella mischia, rischiando in prima persona.
L’essere cristiani di “fuoco” significa purificarsi interiormente, bruciare tutto ciò che c’è di impuro dentro di noi. Solo così ci accorgeremo che noi, e non gli altri, siamo invidiosi, siamo in rivalità, siamo gelosi. Che noi, e non gli altri, non amiamo; che noi e non gli altri vogliamo possedere, gestire, manipolare. Che noi, e non gli altri, abbiamo assoluta necessità di cambiare, di crescere, di modificare con umiltà la nostra vita.
Non è facile cambiare. Non è per nulla piacevole vedere certe reazioni dentro di noi. Per questo seguire Gesù sarà sempre difficile, impegnativo, un lavoro continuo. Ma sarà entusiasmante, passionale, ardente; ci darà la sensazione di vivere in profondità, ci farà capire che la nostra vita finalmente ha un senso. Amen.