“Giovanni, vedendo Gesù venire
verso di lui, disse: Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del
mondo!” (Gv 1,29-34).
Il
vangelo di oggi ci ripropone la figura di Giovanni Battista: soltanto che mentre
nel racconto degli altri evangelisti ci viene descritto come colui che battezza
Gesù, nel vangelo di Giovanni egli appare come un osservatore estraneo, uno che,
convinto da certi “segni”, offre una importante “testimonianza” a favore di
Gesù e della sua missione divina. Qui la “discussione” tra il Battista e Gesù sull’opportunità
del battesimo di quest’ultimo, scompare del tutto. Le distanze tra i due vengono
azzerate; il Battista, di fronte alla rivelazione dello Spirito di Dio che
scende sul Figlio in forma di colomba, capisce e rende pubblica testimonianza
su Gesù, rivelando chi egli sia realmente. E dice: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”.
Egli ha visto personalmente, è un testimone oculare diretto, egli ha tutti i
titoli per poter testimoniare la verità.
Noi
invece parliamo troppo spesso per sentito dire. Parliamo senza avere elementi
per poterlo fare con cognizione di causa. Soprattutto quando discutiamo di
Dio. Cosa ne sappiamo noi di Dio? Cosa abbiamo concretamente “visto” di Lui? Lo abbiamo forse sperimentato nella nostra vita, nel nostro intimo? No? E allora come possiamo
parlare con tanta presunzione se non lo abbiamo visto, non lo abbiamo sentito, non abbiamo
capito nulla di lui? Se Dio non ci ha resi diversi, nuovi, più profondi, più liberi,
più veri, se non ci ha “guariti” dentro, se non ha toccato il nostro cuore,
come possiamo affermare di conoscerlo?
Oggi
tutti parlano di Dio, scrivono di Dio, discutono di Dio; ma lo fanno tutti in
maniera superficiale, parlano a vanvera, ripetono meccanicamente il sentito
dire da sedicenti esperti, da studiosi dai nomi altisonanti, sempre pronti ad esibirsi in nuove stravaganti teorie, ma che di incontrarlo personalmente non vogliono neppure sentirne parlare!
Finiamo così troppo spesso col ridurre Dio ad una semplice dottrina, a dei catechismi da
imparare, a dei dogmi da credere, a delle regole da osservare. Ma Dio non è questo: Dio è Amore; è un “incontro” privato, intimo; un incontro con l’anima, col
cuore; è vita condivisa, è amore donato, è gioia trasmessa.
Solo
se lo abbiamo “incontrato” così, solo se cerchiamo in tutti i modi di
incontrarlo per questa via, possiamo affermare seriamente che Egli esiste: altrimenti no!
Allora
la domanda: “Tu conosci Dio? Credi in Dio?” è una domanda mal posta; la domanda
corretta è: “Hai incontrato Dio? Cos’ha fatto lui per te? Come ti ha dimostrato
il suo Amore? Cos’hai fatto tu per Lui? Come hai percepito la sua presenza in
te? Come è nato in te il bisogno di parlargli, di conoscerlo, di affidarti a
lui?”. Perché solo se abbiamo esperienze dirette, un rapporto personale con Lui,
possiamo anche noi come il Battista rendergli testimonianza: dobbiamo prima “vederlo”,
“provarlo”, “toccarlo”. Solo allora potremo anche averne una pallida idea: ma solo
allora ci renderemo anche conto di non saperne mai abbastanza.
“Ecco l’agnello di Dio, colui
che toglie il peccato del mondo!”, grida
dunque il Battista alle folle presenti. È
la sua testimonianza nei confronti di Gesù; una testimonianza che costituisce
il centro del vangelo di oggi, sulla quale vale la pena soffermarci, anche
perché sono parole che noi conosciamo bene, poiché le ripetiamo durante la santa
Messa, probabilmente senza comprenderne il più ampio e profondo significato.
Ebbene:
cosa voleva dire Giovanni in concreto, paragonando Gesù ad un “agnello”?
C’è da
dire prima di tutto che gli ebrei erano un popolo nomade, allevatori di
bestiame, e quindi esperti conoscitori di agnelli, pecore e capre. Conoscevano bene
la Scrittura, in particolare quei passi che parlavano di agnelli offerti in
sacrificio. Conoscevano l’agnello che ogni anno a Pasqua essi immolavano per
ricordare l’uscita del loro popolo dall’Egitto. Conoscevano il capro
espiatorio: quel capro che nel giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) veniva
caricato simbolicamente di tutte le colpe del popolo e mandato a morire nel
deserto.
Ma
soprattutto conoscevano il famoso, emblematico episodio di Abramo.
A
cento anni Dio gli aveva finalmente concesso il figlio da sua moglie Sara, un figlio
atteso per tutta la vita, un figlio che per lui costituiva la cosa in assoluto
più cara, più preziosa al mondo. Non dimentichiamo che per un ebreo la
discendenza, l’avere un figlio, era la cosa più importante; voleva dire: “anche
se un giorno morirò, io continuerò a vivere per sempre in te, nei tuoi figli,
nei figli dei tuoi figli…”.
Ebbene,
cosa è successo ad Abramo? Un giorno, improvvisamente, Dio gli chiede di offrire
questo suo figlio in olocausto. Possiamo capire la disperazione, l’angoscia, il
dolore mortale che egli dovette affrontare. Solo dopo aver “provato” la sua
fede, la sua sottomissione, la sua totale obbedienza, Dio lo risparmia, chiedendogli
di immolare, al posto del figlio, un agnello.
Gli
ebrei sapevano quindi molto bene a cosa volesse alludere Giovanni parlando dell’agnello:
una vita dolce e mansueta che costituiva la vittima sacrificale più gradita a
Dio. Gesù, dice dunque Giovanni, è l’agnello sacrificale, è la vittima che sarà
offerta a Dio a riscatto dei peccati del mondo.
Inoltre:
il monte in cui avvenne il sacrificio di Abramo si chiamava “Moria”: quasi ad
indicare che in Abramo c’era qualcosa che doveva morire. In che senso?
Nel
senso che in ogni passaggio di vita siamo costretti a far morire qualcosa.
Vivere, crescere, evolvere, diventare discepoli del Signore, vuol dire far
morire sempre qualcosa di noi stessi.
Abramo
amava troppo quel suo figlio: proprio per questo deve sacrificarlo, perché quel
“suo” figlio non è suo, ma del Signore; deve cioè smettere di possederlo, di
considerarlo sua proprietà esclusiva, perché quel figlio appartiene solo a Dio.
Dura da accettare, ma è la volontà di Dio!
Quante
volte, di fronte alle contrarietà della vita, anche noi come Abramo esclamiamo:
“Questo non è giusto! Tu Dio mi chiedi troppo! Mi perseguiti, mi stai facendo troppo
male!”.
E se questa
fosse l’ultima “chiamata” di Dio? Se dovessimo passare proprio di là? Non diciamo
allora: “Ma che vita è questa? È uno schifo! Insopportabile, bastarda!”. Diciamo
piuttosto: “Signore cosa vuoi dirmi con questa tua lezione di vita? Cosa devo imparare
da essa? In cosa devo cambiare, in cosa devo migliorare? È molto faticoso per
me, ma eccomi, sia fatta la tua volontà!”.
L’agnello,
allora, anche per noi rappresenta il sacrificio; è cioè il dolore che dobbiamo
pagare; sono le sofferenze che dobbiamo sopportare per crescere, per evolvere,
per diventare spirituali, puri: non a caso la radice ebraica della parola “Abramo”
significa proprio “purezza, innocenza.
Nella
nostra vita abbiamo sempre paura di fare delle scelte controcorrente? L’agnello
è il prezzo della nostra libertà. Abbiamo timore di dire di no agli altri per
non offenderli? L’agnello è il prezzo della nostra autonomia. Vogliamo sempre pianificare
e decidere tutto? L’agnello è il prezzo della nostra fede.
Nel
mondo dello Spirito, ciò che è più grande (l’amore) richiede sempre il prezzo
più grande (l’agnello del sacrificio). Ma ciò che richiede il prezzo più grande
dona anche la felicità e la pace più grandi.
Ma
forse Giovanni, chiamando Gesù l’Agnello
di Dio, voleva dire anche un’altra cosa.
Infatti,
la parola “taljah”, in ebraico, oltre
che agnello vuol dire anche “servo”.
Molto
probabilmente allora il Battista, quando parlava di Gesù, intendeva non tanto l’agnello,
ma il “servo” di Dio. E qui si sarebbe ampiamente riferito ai “Canti del Servo
di Jahweh”, quei quattro meravigliosi canti contenuti nel Deutero Isaia.
Col tempo
però i cristiani preferirono leggere nella parola “taljah” il solo significato di “agnello”: d’altronde non era forse
vero che la sentenza di morte di Gesù era stata pronunciata il 14 di Nisan,
verso mezzogiorno, proprio nell’ora in cui si sgozzavano gli agnelli? Esattamente
come è successo con Gesù, che è quindi il nuovo, ultimo e definitivo Agnello, Colui
che toglie il peccato dal mondo.
Quando
durante l’Eucaristia ripetiamo “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo…”,
noi vogliamo sicuramente dire: “Dio è morto a causa dei nostri peccati; Dio si
è sacrificato per noi”. E ci sentiamo profondamente colpevoli. Ma l’espressione
“Agnello di Dio” vuol dire anche e soprattutto
un’altra cosa: “Dio è buono come un agnello; Dio non ci farebbe mai del male;
Dio è bontà, tenerezza, misericordia”. Dio non è vendicativo, non è geloso, non
è violento: Dio non potrà mai volere il nostro male.
In
questo senso, noi uomini moderni, per definire la grande bontà, la mansuetudine,
la pazienza di Dio, più che ricorrere all’immagine dell’agnello, molto comune nella cultura ebraica, potremmo più
plasticamente servirci del termine “abbraccio”.
Sì, Dio è un “abbraccio”!
Un
abbraccio in cui ci sentiamo assolutamente accolti, accettati, avvolti di bontà,
riconosciuti, stimati, amati. Un abbraccio non può far mai paura, a nessuno. Dio
è così. Per nessun motivo al mondo lo dobbiamo temere. Lui non ci tradisce, non
ci volta le spalle, sta sempre dalla nostra parte, non ci abbandona mai. Il suo
è il gesto di uno che ci corre incontro per amarci, per guarirci, per darci
tutto ciò che ha; il suo è un abbraccio che offre felicità, che vuole per noi
una vita entusiasmante.
Allora
andare a fare la Comunione è come andare dalla persona amata: è una gioia, un’attesa
ansiosa, un’aspettativa carica di desiderio. Andare a fare la Comunione è come correre
tra le braccia della mamma: è lì che sentiamo quanto siamo importanti, quanto valiamo,
quanto siamo belli. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia del
papà: è lì che ci sentiamo al sicuro.
Dio si
è mostrato al mondo come Bambino perché voleva che non avessimo paura di Lui.
Se voleva che lo temessimo si sarebbe mostrato forte, potente, gigantesco. Ma
che può farci un bambino? Che può farci un agnellino? Che può farci una madre perdutamente
innamorata del proprio figlio? Se qualche volta ci mette alle strette, ci da
una tirata d’orecchie, è solo perché ci vuole bene, perché vuole che diventiamo
grandi, adulti e soprattutto felici. Nel silenzio dell’anima possiamo ascoltare
tante sue parole che non hanno voce.
Una
storiella racconta che dei feroci banditi, scesi da una montagna altissima,
entrarono in un villaggio, lo misero a ferro e fuoco, saccheggiarono tutti i beni,
e per assicurarsi la fuga, rapirono un bambino, portandolo con sé nel loro impervio
rifugio. Gli uomini migliori del villaggio, per ben due volte provarono in
tutti i modi a scalare le alte vette della montagna, ma tornarono vinti dalle
difficoltà, dal freddo, dal ghiaccio, dalle tormente di neve. Visti i loro tentativi
infruttuosi, la madre del bimbo, disperata, contro il parere di tutti, partì da
sola; dopo alcuni giorni, lacera, ferita e stremata, tornò portando in braccio
il suo bambino. Increduli, quanti avevano partecipato alle precedenti spedizioni le chiesero: “Ma come hai fatto? Noi in gruppo e ben equipaggiati non ci siamo
riusciti, e tu da sola, sì? E lei: “Non era vostro figlio!”.
La
potenza di una madre! Ebbene, Dio è come quella madre. Amen.
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