Matteo
non ci dice quale fosse questo monte: di certo non era un monte qualsiasi, ma “quel”
monte, il Sinai, che tutti conoscevano anche senza nominarlo, perché su di esso
Mosè aveva incontrato Dio ed aveva ricevuto da Lui il patto di Alleanza per il “suo”
popolo.
Anche Gesù,
come Mosè, sale su questo monte per dare a tutti i popoli la sua Nuova
Alleanza.
Per gli
antichi, i monti erano la dimora degli dei (pensiamo all’Olimpo): luogo sacro,
luogo di terrore, di rispetto, di paura; con Gesù, al contrario, i “monti”
diventano motivo di vita, di gioia, di trasfigurazione, luogo riservato
all’incontro col Padre.
“Gli
si avvicinarono i suoi discepoli”: dopo averli “attirati”, perché
è Gesù che “attira” anche loro, come fa con la folla. Il Dio di Gesù non è più
un Dio scontroso, terribile e temibile, ma un Dio affabile che “attrae” tutti.
Non è più un Dio da evitare, da allontanare, ma un Dio da incontrare, da
avvicinare. Non un Dio vendicativo che punisce, ma un Dio che come una madre, ama
tutte le sue creature. È un Dio che non pretende nulla di impossibile da noi,
un Dio che al contrario è sempre pronto a dare Lui qualcosa a noi. Se pensiamo
ad un Dio diverso, non stiamo seguendo il Dio del Vangelo!
Nella religione ebraica, prima della
venuta di Gesù, le cose non stavano affatto così: per incontrare Jahweh nel suo
Tempio, gli uomini potevano arrivare soltanto fino ad un certo punto: solo il
sommo sacerdote poteva avvicinarlo, entrando, una volta all’anno, nella “sancta
sanctorum”, la zona più interna e sacra vietata al popolo, in cui oltre a venir
conservata l’Arca dell’alleanza, si riteneva che Dio fosse presente. Quindi tra
Dio e il suo popolo c’era un “muro”, una netta separazione. Con Gesù, invece,
tutto cambia, tutti possono avvicinarsi a Dio, confrontarsi con Lui, intrattenere
con Lui un rapporto diretto. Per incontrarlo non esistono più impedimenti, non ci
sono più prescrizioni o particolari condizioni (meriti; purità; peccato;
sacralità, ecc.), non esistono più barriere.
“Prendendo
allora la parola li ammaestrava dicendo”.
Una
volta sistemati i presenti, Gesù prende la parola e proclama otto “beatitudini”:
perché otto? Perché nella simbologia del cristianesimo primitivo, il numero otto
indicava la “risurrezione” (“l’ottavo giorno”): Gesù infatti è resuscitato il “primo
giorno dopo la settimana” (una settimana di 7 giorni + 1-il giorno dopo = 8). Matteo,
che scrive per la gente di origine ebraica, molto attenta alla simbologia, vuol
far capire che chi vive le “otto” beatitudini, vivrà da “risorto”, vivrà per
sempre col “Risorto”, vivrà cioè una vita che non potrà mai essere interrotta
dalla “morte”; a differenza di coloro che, osservando fedelmente i comandamenti
di Mosè, avevano sì assicurata in premio una “lunga vita” su questa terra, ma
anch’essi dovevano poi morire come tutti, e scendere nello Sheol. La pratica
delle beatitudini di Gesù assicura pertanto, a quanti la seguono, una vita che va
oltre la morte: quella vita nuova e gloriosa dei “risorti” in Gesù, che vivranno
eternamente nell’amore del Padre.
“Beati
i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”.
È la
prima beatitudine, e fa da premessa a tutte le altre: è la “conditio sine
qua non” per poter concretizzare tutte le altre.
“Beati”, in ebraico “ascer”: sono
coloro che vivono nella felicità Divina, quella felicità che è impossibile
raggiungere su questa terra. Eppure, dice Gesù, Io vi dimostro che anche quaggiù,
da subito, è possibile vivere decisamente felici, gioiosi, con la pace nel
cuore, da “riconciliati”.
Dobbiamo
essere però dei “poveri in spirito”; dobbiamo cioè vivere liberi da fini
egoistici, da ogni condizionante preconcetto, da ogni egocentrismo; dobbiamo
cioè possedere una mentalità aperta all’amore.
Gesù in
sostanza pone come condizione prioritaria la nostra disponibilità a “riversare”
concretamente sui fratelli quell’amore divinizzante che riceviamo dal Padre. Non
si tratta quindi di limitarci ad una semplice elemosina materiale, ma di aprire
completamente il nostro cuore e la mente a beneficio dei fratelli.
“Di
essi è il regno dei cieli”.
A tutti coloro che spendono il loro “spirito” per il prossimo, fino a diventare
essi stessi “poveri”, è assicurato il regno di Dio. Da notare che Gesù usa qui un
verbo al presente: non dice “sarà” ma “è”; in altre parole, siamo già “santi”, da
subito; il regno dei cieli, l’amore del Padre, la nostra “vita” santificata”
per l’eternità, sono già possibili da ora, a condizione che il nostro stile di
vita rispecchi fedelmente le beatitudini.
Oggi è
la solennità di tutti i Santi del Cielo: ma è la festa anche di coloro che sono
“beati” già qui su questa terra, perché vivono la loro vita donando sé stessi. È
la festa di quei beati che, sull’esempio di Gesù, vivono per amare, per far del
bene al prossimo, per confortarlo nelle difficoltà, per guarirlo nelle ferite
dell’anima, per sostenerlo nelle contrarietà della vita. Sono insomma “beati”
perché amano.
“Amare” è
un po’ come “creare” una nuova vita: è dare agli altri un qualcosa di noi
stessi; un qualcosa che li faccia “rinascere”, un qualcosa per cui possano
riconoscere quanto è grande l’amore di Dio per ognuno di noi.
È così
che i “beati” della terra sono diventati i “Santi del cielo”; è così che anche
noi possiamo diventarlo sul serio, creando, nel prossimo, nuovi motivi di vita,
di gioia, di riconoscenza a Dio.
“Vuoi
essere eternamente felice? Vivi così”, ci ripete oggi Gesù con la sua proposta
evangelica: sta solo a noi accettarla, e riempire questo nostro “passaggio” terreno,
di pace, di gioia, di amore, di serenità: in una parola, di Dio. Amen.