giovedì 24 novembre 2022

27 Novembre 2022 - I DOMENICA DI AVVENTO – ANNO A -


 Mt 24, 37-44 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. 
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 Dio arriva quando meno ce l’aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, e magari convinti scioccamente di averlo trovato, ci adagiamo senza fare più nulla, lasciando che la vita ci scorra addosso, con le sue illusioni, le sue delusioni, le sue paure, i suoi entusiasmi, i suoi fallimenti.
Per questo abbiamo bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, per guardare dove stiamo andando, per trovare (o ritrovare) quel filo conduttore che dia un senso alla nostra storia personale, a questa nostra vita.
Con l'Avvento, tempo liturgico di raccoglimento, di meditazione, di revisione interiore, un nuovo anno liturgico si apre davanti a noi, portandoci al primo dei grandi appuntamenti, quello del “Dio con noi”, il Natale. Una solennità che non ha nulla a che vedere con l’omonimo Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso, a quella fiera insopportabile di bontà posticcia e fasulla, che ha ridotto il Natale di Gesù ad una festa di “compleanno”, priva di qualunque espressione d’amore per il “festeggiato”. No, non è questo il Natale della fede cristiana, il Natale di quanti sentono il bisogno di incontrare quel Dio, che per amor nostro ha accettato di nascere uomo, di entrare nella storia umana, offrendosi alla nostra contemplazione nella fragilità di un neonato, di un Dio bambino adorabile, sorridente, invitante; un Dio che ogni anno, rinascendo nel cuore di chi lo ama, diventa completamente percepibile, incontrabile, affidabile: un Dio amore, che con le sue piccole braccia spalancate, fa capire al mondo di essere venuto per “trarre a sé” l’intera umanità. 
L’“Avvento”, però, (da “advenio”, vengo, arrivo) non si esaurisce nel ricordo di questa prima “venuta” di Dio tra gli uomini, ma ci proietta anche in una prospettiva futura, con altre due “venute”, altri due “incontri” di Cristo con ciascuno di noi: uno privato, alla fine dei nostri giorni per la verifica personale della nostra vita, l’altro universale, definitivo, trionfale, alla fine del mondo. Ed è esattamente a queste due “venute finali” che si riferisce il testo del vangelo di oggi. 
Il brano di Matteo è infatti tipicamente “escatologico”, nel senso che si riferisce al ritorno glorioso di Dio alla fine dei tempi: proprio per questo, molti suoi riferimenti sono di non facile e immediata comprensione.
Come abbiamo sentito, Gesù sta parlando della venuta del “Figlio dell’uomo”, evento imprevedibile, di estrema gravità, in quanto decreterà per ogni singola persona la sua destinazione eterna, se vivere cioè nella gloria dell’elezione o nella sofferenza della condanna: 
«Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo»; cioè: la venuta finale del Figlio dell’uomo, sarà identica a quella verificatasi ai tempi di Noè: “è la vostra storia biblica – dice in pratica Gesù -  tutti conoscete i particolari di quella tragedia: quei popoli infatti non pensavano certo ciò che sarebbe loro capitato: continuavano tranquillamente a vivere disprezzando ogni regola morale, concentrati unicamente sul godimento dei piaceri materiali (mangiare, bere, copulare, fare figli, divertirsi), senza mai preoccuparsi della loro condotta morale, dei loro doveri nei confronti di Dio. Ecco: la mia raccomandazione è che evitiate assolutamente di comportarvi anche voi in quel modo”: perché, (conclude Gesù) essi «non si accorsero di nulla, venne il diluvio, e li travolse tutti»
“Tenetevi pronti” è dunque l’invito solenne di Gesù: “vegliate, state allerta, state pronti, perché non conoscete la data di quando il Signore vostro verrà”.
L’appuntamento con Dio, infatti, è sempre incombente; nessuno ne conosce il “come” e il “quando”; sappiamo solo che avverrà improvvisamente, come avviene con i ladri: è successo così ai tempi di Noè, succederà sempre così, anche ai nostri giorni; non illudiamoci, noi non siamo assolutamente migliori, più bravi, più santi, dei nostri antenati. 
Diciamo anzi che la cosa, oggi, non interessa praticamente più, nessuno la tiene più in considerazione: addirittura c’è il rifiuto di tale prospettiva, perché anche solo pensare a quell’evento, richiederebbe una immediata riprogrammazione della propria vita. Vivere al contrario nell’illusione, far finta di nulla, è molto più facile, più gradevole, ma così facendo inganniamo noi stessi.
Il Figlio di Dio è venuto su questa terra con lo scopo preciso di redimerci, di salvarci: ci ha indicato con precisione quale percorso seguire, ci ha lasciato consigli e disposizioni in quantità; noi però non ce ne curiamo abbastanza, preferiamo condurre una vita spiritualmente inutile, ci lasciamo trascinare dalle cose materiali, dai piaceri, dalle futilità passeggere, salvo poi al dunque esclamare: “Che sfortunato! Che destino orribile!”.
Nossignori: non è sfortuna, non è destino, non è Dio ad essere crudele: siamo noi gli insensati, gli incoscienti; siamo noi che avevamo il dovere di preoccuparci per tempo, noi che invece abbiamo preferito dormire, vegetare, divertirci: e siamo sempre noi che alla fine ci meravigliamo, ci sorprendiamo, ci angosciamo: no, Dio non c’entra! Gesù ce l’ha detto e ripetuto, l’ha predicato al mondo intero: «Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo!». 
Non abbiamo dunque attenuanti, l’avvertimento è chiaro: come pure, sappiamo molto bene che in quell’occasione uno sarà “portato via”, l'altro “lasciato”; uno cioè verrà scelto per rimanere nell’amore di Dio, l'altro no; uno sarà salvato, l'altro abbandonato a sé stesso. 
Sono parole, concetti, consigli, sentiti e risentiti: ma Gesù, col Vangelo iniziale di questo Avvento, vuole riproporceli ancora una volta. Egli, durante l’intera nostra vita, è sempre discreto, riservato; puntuale nello starci vicino, pronto nel darci un aiuto: non impone mai la sua presenza. Completamente diversa sarà, invece, la sua apparizione finale, la sua “parusia”: un evento tremendo, improvviso, ineludibile, spaventoso, perché scuoterà terribilmente il mondo e tutti gli illusi, i perdigiorno, i credenti nullafacenti, che lo abitano. 
Approfittiamo allora di questo tempo “favorevole”: pensiamo seriamente a questo nostro rendez-vous conclusivo, riappropriandoci della nostra dignità di cristiani, di figli, di fedeli discepoli; ascoltiamo con profitto la Parola di Dio, accogliamo con fede il soffio divino dello Spirito di Dio nostro Padre, che “anima”, con la sua grazia, la nostra vita. Accettiamole umilmente tutte le sue continue esortazioni; e se ci scopriamo in difetto, approfittiamo per tempo della sua infinita misericordia: un dono sempre attuale, fruibile sempre, in ogni momento, anche ora; evitiamo soprattutto di trasformarla scioccamente in un nostro diritto, contando di esigerlo alla nostra fine! Amen.

 

 

giovedì 17 novembre 2022

20 Novembre 2022 - XXXIV DOMENICA DEL T.O. - SOLENNITÀ DI CRISTO RE DELL’UNIVERSO


Lc 23, 35-43 
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi sé stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!».
L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio. tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

 La festa di oggi, Gesù Cristo re dell’Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, una sfida alla nostra fragile contemporaneità, al nostro cristianesimo miope, fatto spesso solo di “grandiosi”, inattuati propositi. 
Dire che Cristo è re dell’universo, significa che Lui avrà l’ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla nostra breve storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio in questo mondo; dire che Cristo è re, significa credere invece che il mondo, nonostante tutto, non sta precipitando nel caos, ma nell’abbraccio tenerissimo e amoroso del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare oggi spazi di testimonianza là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita: piccoli spazi dimostrativi, per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti: “ecco, Dio vi ama”. 
Cristo è un re fuori dagli schemi. Anzi: la regalità di Gesù, uomo Dio, è una regalità che va contro ogni nostra umana immaginazione, perché questo Dio Re, agli occhi del mondo, è il più sconfitto di tutti gli sconfitti, più fragile di ogni fragilità: un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, messo alla gogna, sfigurato, piagato, sconfitto.
Una sconfitta, la sua, che in realtà è la più esaltante vittoria dell’amore, un impensabile dono di sé per la salvezza del mondo. Un Dio sconfitto per amore, un Dio che, contro ogni logica umana, manifesta al contrario la sua vittoria assoluta nel dono di sé stesso e nel perdono. Lui si è messo completamente in gioco, consegnandosi al mondo: non in maniera nascosta, non misteriosamente, ma in modo evidente, provocatoriamente evidente! Pur di piegare la durezza del cuore umano, ha accettato l’ignominia e il supplizio della croce.
Gesù, è venuto a dirci di Dio, a raccontarci il suo amore, la sua vicinanza, la sua misericordia. Lui, figlio del Padre, ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E nonostante ciò tanti uomini, troppi ahimè, gli rispondono ancora: «No, grazie! Non ci serve un Dio così! Siamo adulti, persone “navigate”, sappiamo come vanno le cose: non vogliamo un Dio assillante, sempre attaccato; ne preferiamo uno più riservato, più distaccato, magari a volte anche scostante, permaloso; l’importante è che sia un Dio bonaccione, un po’ credulone, che quando “serve” lo possiamo facilmente confondere con la nostra parlantina e, con poco, tenercelo buono».
Beh, qualche volta, in fondo in fondo, forse preferiremmo anche noi un Dio così; un Dio che ci lasci soddisfare tranquillamente le nostre “voglie” umane, le piacevolezze di questa vita; un Dio che non ci costringa ad un costante, impegnativo, lavoro per “migliorare”, che non ci chieda di aderire completamente, esclusivamente, continuamente a Lui, alla sua volontà, ma che si accontenti di qualche piccola attenzione ogni tanto; insomma preferiremmo volentieri un Dio che non stia sempre, notte e giorno, con la telecamera in mano per documentare puntualmente ogni nostra infedeltà, ma semplicemente che le ignori, permettendoci di campare un po’ come meglio ci aggrada!  
Fortunatamente queste nostre “geniali” soluzioni alternative, non sono troppo frequenti: anche perché il maligno, evidente ispiratore di queste “trovate”, è più impegnato altrove nel fare al meglio il suo mestiere!
Proseguendo inoltre nella lettura del testo evangelico, una frase colpisce particolarmente la nostra attenzione: sono quelle parole di scherno lanciate a Gesù, innalzato sulla croce, da una folla delirante, eccitata: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso».
Sono parole che Luca attribuisce non solo alla gente, ma ai soldati pagani, ai capi, ai sacerdoti: tutti, insomma, con il loro ironico sarcasmo, lo invitano a scendere dalla croce, a mettere da parte le sue fantasie, a smettere di fare l’inviato di Dio proclamandosi Re: un Re che vorrebbe salvare il mondo, ma che non riesce a salvare neppure sé stesso. 
Gesù però, sulla croce, non raccoglie questo invito farneticante: Egli continua a pensare non a sé stesso, ma soltanto a noi: è la nostra salvezza che gli preme, è la salvezza di tutti gli uomini, perché la missione ricevuta dal Padre è una sola: redimere, salvare l’umanità, il mondo intero! Per questo Egli meritatamente può fregiarsi del titolo di Re dell’universo: lo è diventato rivestendo la nostra umanità: durante l’intera sua vita umana ha donato sé stesso a tutti, ha amato, ha aperto il suo cuore misericordioso ai peccatori, ai derelitti, agli afflitti, ai deboli, a tutti i bisognosi; e alla fine, dall’alto della croce, suo trono patibolare, si è immolato, vittima sacrificale, per l’intera umanità. 
Ma lassù, sul GolgotaGesù non è solo ad essere crocifisso: due ladroni stanno scontando la stessa pena; sono due malfattori, due uomini giustiziati secondo le leggi di quel tempo. La loro non è una condanna iniqua, come quella di Gesù: sono due malfattori, hanno derubato e ucciso. Sono uomini che nella loro vita hanno sbagliato tutto, hanno fallito, e ne sono ampiamente consapevoli. Il primo però non è per nulla pentito: anzi provoca Gesù, lo mette alla prova gridandogli: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!»: le sue parole non sono suggerite dall’amore, ma sono l’espressione di un uomo arrogante, vigliacco, di un egoista frustrato, pronto a qualunque compromesso pur di aver salva la vita. 
L’altro ladrone, invece, ha il cuore affranto, è confuso, pentito; dall’alto del suo patibolo, assiste impotente al martirio brutale, ingiusto, disumano, di quel mite “sconosciuto”, che si era dichiarato Figlio di Dio: e urla; urla a squarciagola tutto il suo sdegno, la sua rabbia contro l’insolenza del compagno: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena?», e con voce strozzata dall’angoscia e dal pianto si rivolge a Gesù implorando perdono, misericordia, grazia, salvezza. E subito una pace sconosciuta inonda il suo cuore: «In verità io ti dico: oggi sarai con me in paradiso!». 
Ecco: questa del delinquente pentito e trasformato dall’amore di Dio, è la vera icona del cristiano, di noi deboli e insicuri viandanti: è l’icona di colui che nelle sue miserie, nelle sue infedeltà, nei suoi tradimenti, capisce di potersi rivolgere fiduciosamente a Dio, capisce di potergli aprire completamente il proprio cuore e ottenere da Lui accoglienza, perdono, tenerezza, amore. 
E allora, nella nostra situazione umana altrettanto deficitaria e compromessa, prostrati ai piedi del nostro Re Crocifisso, riconosciamo anche noi con lo stesso spirito umile e contrito del buon ladrone e del centurione: «davvero quest’uomo è il Figlio di Dio!» "Sì, questi è veramente il nostro Dio, il nostro Re, quel Padre, che noi un giorno vogliamo incontrare!”. 
E se finora abbiamo vissuto senza interessarci a Lui, alla sua presenza, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo comportati egoisticamente con gli altri, con i nostri fratelli, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo disinteressati delle nostre infedeltà, dei nostri tradimenti, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo inveito contro Dio per le contrarietà che la vita ci riserva, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo vissuto nel disprezzo, nell’avversione, nella diffidenza, da oggi dobbiamo cambiare. 
Perché solo se cambiamo direzione, solo se invertiamo in questa vita il senso del nostro cammino, possiamo finalmente immetterci sull’unica strada sicura che conduce a Dio, che ci permette un giorno di raggiungerlo, per di unirci a Lui nel suo infinito, eterno amore. Amen.



giovedì 10 novembre 2022

13 Novembre 2022 - XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 21, 5-19 
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

 Il vangelo di oggi per noi moderni è sicuramente di non facile comprensione: riferimenti e allusioni sono oscuri, lontani dalla nostra mentalità. Tuttavia è possibile individuare tre passaggi, su cui concentrare la nostra attenzione, e ricavarne un utile insegnamento. 

Primo passaggio: «[…] alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi» (21,5). Il testo ovviamente fa riferimento al tempio di Gerusalemme, uno dei monumenti sacri più belli, più ricchi e lussuosi dell’antichità, di cui tutti gli Israeliti ne magnificavano la preziosità. Bene: e se invece che ad un Tempio materiale, noi adattassimo quelle belle parole ad ogni cristiano, anch’esso Tempio dello Spirito Santo? Se le rivolgessimo a ciascuno di noi, al nostro “interno”, alla nostra vita spirituale, alla nostra coscienza, saremmo anche noi “ornati di pietre preziose”? Beh, c’è sicuramente di che meditare: perché noi (forse io per primo), nel nostro “tempio” personale, ci limitiamo purtroppo solo ad esporle, ad esibirle, le nostre “pietre preziose”: dovrebbero essere “elementi portanti” di grande robustezza, tali da suscitare l’ammirazione e l’imitazione in quanti le guardano, non certo semplici “rappresentazioni decorative”: perché nella realtà,  troppo spesso, “ornamenti preziosi” come le nostre pratiche religiose, le nostre “buone” opere, le nostre messe, i nostri rosari, le nostre elemosine, non sono altro che “mezzi” attraverso cui ostentare una fede, una pietà, una carità che probabilmente non abbiamo! Queste nostre “gemme” che dovrebbero impreziosire l’habitat di Dio nel nostro cuore, si rivelano invece dei meschini “orpelli”, con un valore pari a quello dei “costosi” monili che esibiamo orgogliosamente al collo (corone del rosario, preziosi crocifissi, medaglioni sacri) con cui ci illudiamo di testimoniare sufficientemente la nostra fede di devoti cristiani! Ma: «fate attenzione» ci avverte qui Gesù: «fate attenzione, perché tutto quello che ora appare solo esteriormente, tutto quello che fate per far bella figura, alla fine, quando il Figlio dell'uomo verrà nella gloria, tutto svanirà, tutto inesorabilmente si rivelerà inutile, senza alcun valore». 
E, quel che è peggio, presentandoci a mani vuote, non potremo certo sentirci accogliere con le stesse parole riservate ai suoi servitori fedeli: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo» (Mt 25,34).

Secondo passaggio: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno nel mio nome. Non andate dietro a loro!» (21,8). Di questo dobbiamo stare veramente molto attenti: oggi siamo infatti costretti a convivere con una pletora indescrivibile di pseudo profeti (conferenzieri, studiosi, preti, frati, teologi, santoni, medium, guaritori, ciarlatani ecc.); con gente che pur di consolidare il proprio prestigio economico, pur di avere un “ritorno” di fama modana, di applausi, di gloria mediatica, è pronta, vendendosi l’anima, a promuovere la sapienza venefica di satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza melliflua, affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e dispensatrice dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, poiché mira esclusivamente alla propria personale affermazione.

Terzo passaggio: «Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici…; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» (21,16-18)
In altre parole: Quando ci sentiamo traditi e abbandonati da tutti, è allora che una certezza interiore ci conforterà, ci sorreggerà: noi non siamo soli! Sempre, puntualmente, Dio è con noi! Anche se non lo vogliamo, anche se ricalcitriamo, anche se lo rinneghiamo continuamente, Egli continuerà sempre e comunque a starci vicino, pronto ad intervenire in nostro soccorso. 
Se siamo convinti di ciò, perché allora preoccuparci? Perché vivere continuamente nell’ansia, nell’angoscia? 
L’angoscia, lo sappiamo, è un male tremendo, mortale: è la sensazione di poter cadere ogni istante in un baratro profondo, vittime del male, senza che nessuno possa aiutarci. 
È un terrore costante che priva di qualunque certezza; è quel sentimento che destabilizza, che mette di fronte all’impotenza umana, ai suoi limiti, che fa temere un crollo improvviso e totale di tutto ciò che ci circonda.
L’angoscia è molto diffusa nella nostra società moderna: noi tutti, in qualche modo, ne siamo vittime: per il nostro domani, per la possibilità di perdere il lavoro, per non riuscire ad arrivare a fine mese. Siamo tutti ossessionati dalla concreta possibilità di malattie, di epidemie, di guerre, di inondazioni e di calamità naturali. E come se non bastasse, quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte, la drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti nostro malgrado ad abbandonare, a perdere, a separarci da tutto ciò che siamo, da tutto ciò che abbiamo, da tutto ciò che amiamo. 
Cosa dobbiamo fare, allora, per combattere questa sensazione così nefasta? Quale via dobbiamo seguire per contrastare questa paralisi invalidante? 
Prima di tutto dobbiamo portare luce nel nostro intimo, dobbiamo illuminare il buio che avvolge la nostra anima: non dobbiamo più temere di scoprirci, di mettere il nostro cuore, la nostra coscienza più profonda, alla luce del Sole divino. Perché più cerchiamo di nascondere, più teniamo segrete le nostre frequenti infedeltà, più ci immergiamo in un crescente senso di colpa nel rispondere con l’inganno ai continui interventi d’amore che Dio opera in nostro favore. Gesù nel vangelo dice infatti: “Non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato e di segreto che non debba essere manifestato» (Mt 10,26). Molte persone sono dunque particolarmente angosciate dal guardarsi dentro perché, nel loro orgoglio, temono di scoprirsi peggiori di tante altre. Ma ingannare sé stessi non è certo il metodo più sicuro e celere per raggiungere la serenità; solo portando luce e verità nella nostra coscienza, l’ansia, l’inquietudine, la paura, spariranno, lasciando spazio alla gioia, alla serenità, alla pace. 
Dopo di ciò, dobbiamo vivere umilmente nel presente, nelle realtà della vita, convinti che il più forte antidoto all’angoscia è la fiducia in Dio. Sì, perché aver fiducia in Lui significa percepire, sentire la sua presenza in noi, una presenza discreta che ci guida, ci consiglia, ci dà forza: sapere cioè che Lui c’è, che ci accompagna, che vuole il nostro bene, che ci sostiene nel bisogno, che ci ama: in una parola, “si nobiscum Deus, quis contra nos? se Dio sta con noi, chi potrà essere contro di noi?” (Rom 8,31). Ecco: questa certezza ci basterà a superare qualunque ostacolo. 
Ovviamente, per arrivare a tanto, dobbiamo soprattutto pregare. Pregare sul serio, umilmente, continuamente, in particolare nella solitudine del nostro cuore. 
Del resto, cos’ha fatto Gesù nei momenti della sua più profonda angoscia? Era nel Getsemani: la prospettiva che gli si apriva davanti era una morte terribile: ebbene, Lui ha pregato intensamente, ha affidato nelle mani del Padre tutta la sua vita, il suo affanno, la sua paura; ha avuto anch’egli bisogno, in quel momento terribile, di sentire la vicinanza del Padre. E in quel momento, ha ritrovato la forza, la determinazione, la serenità, per portare a compimento la sua missione redentrice. 
È il grande esempio lasciatoci da Gesù con la sua vita: seguiamolo anche noi umilmente, e potremo compiere con coraggio, dignità e fedeltà, la missione affidataci dal Padre. Amen.

 

giovedì 3 novembre 2022

06 Novembre 2022 - XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 20, 27-38 
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 La pagina del vangelo di oggi per noi, per la nostra mentalità, è difficile da capire, è anacronistica, molto lontana dalla nostra cultura e dal nostro linguaggio. Vediamo in particolare di che si tratta. 
C’è ancora una discussione tra Gesù e le autorità religiose: questa volta sono i Sadducei che la provocano, gente colta, che rappresenta quella parte dell’aristocrazia sacerdotale razionalista, che non crede nella dottrina della risurrezione dei morti, così come era stata formulata nell’epoca maccabaica, ritenendola una inutile “aggiunta” alla dottrina di Mosè. 
Essi dunque si avvicinano a Gesù non per chiedere un suo parere, ma con lo scopo evidente di metterlo in difficoltà, di ridicolizzarlo: incrociando infatti la “teoria della resurrezione”, che essi non riconoscevano, con l’istituto giuridico del Levirato (legge mosaica che imponeva al cognato di sposare la propria cognata rimasta vedova e senza figli, per salvaguardare la discendenza e assicurare la sopravvivenza del clan), gli prospettano un caso paradossale, decisamente assurdo, artificioso, grottesco: la storiella di sette fratelli, costretti a sposare tutti la stessa donna, alla quale nessuno prima di morire - né il marito, né in seguito i sei cognati - era riuscito a darle un figlio; da qui la domanda astrusa: “nell’aldilà, di quale dei sette fratelli la donna sarà considerata moglie?”. 
Gesù ovviamente, con la calma e l’eleganza che lo distingue, elude la provocazione, e superando la banale questione dei Sadducei, ne approfitta per parlare del mistero della risurrezione e della vita futura, dando in proposito due risposte. 
La prima di ordine formale: non è possibile servirsi dei nostri attuali criteri razionali per parlare e spiegare l’aldilà. Tutto quello che diciamo sono solo ipotesi, balbettii, allusioni, immagini, parabole. In genere, ogni religione quando affronta il problema della destinazione finale dell’uomo dopo la morte, parla infatti, quando va bene, di luoghi incantevoli, di latte e miele, di pascoli erbosi, di luce splendente, di giardini fioriti; quando invece va male, di fuoco, di tenebre, di tormenti, di angosciose sofferenze. In ogni caso, sono solo supposizioni: è come se un bambino, ancora nel grembo della madre, volesse descrivere il cielo, il mare, un fiore, la fisionomia della mamma e del papà: ma come potrebbe farlo? È impossibile, non può. 
Ebbene: succede la stessa cosa anche quando noi pensiamo l’aldilà. Abbiamo solo dei presentimenti, delle intuizioni, dei segnali, che possiamo cogliere dall’osservazione della natura in cui viviamo, che possiamo trarre dai nostri sentimenti, dalla nostra fantasia: così l’alternarsi delle stagioni con fiori e piante che muoiono e rinascono; il seme piantato che “muore” per rinascere, crescere, e dare frutto; il sentimento dell’amore vero che ci estasia, che ci fa toccare il cielo, che ci unisce in maniera indissolubile, sono tutte semplici “trasposizioni” logiche che, quando oggi “balbettiamo” di aldilà, ci offrono un’idea, vaga e imprecisa, di cosa potrebbe significare “risurrezione, rapporto con Dio, paradiso, vita beata”: ma sappiamo per fede, che la vita in Dio, l’Amore eterno, sarà un’esperienza completamente diversa, sarà un’altra cosa, indescrivibile, talmente sublime da farci cadere in deliquio. 
Di concreto, quindi, non possiamo dire nulla, non possiamo descrivere nulla, non abbiamo alcuna certezza. L’unica cosa certa che sappiamo, l’unica verità sulla quale non possiamo dubitare, è che siamo figli di Dio. Una certezza che dovrebbe bastarci. Perché se arriviamo a capire che siamo veramente figli dell’Altissimo, quale altro motivo potremmo ancora avere per preoccuparci? “Io sono la risurrezione e la vita”, siamo figli suoi, figli della Risurrezione! Qualunque morte futura non potrà mai farci paura. 
La seconda risposta è di ordine concettuale: c’è un “aldilà” e Gesù lo fonda sul rapporto di amicizia che l’uomo, durante la sua vita terrena ha stabilito con Lui. Dice: “Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi” e ancora: “Il Signore è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”
I Patriarchi cui Gesù qui si riferisce, sono state persone che nella loro vita hanno amato e servito Dio: sono state creature “amiche” di Dio, “vive”, fedeli a Lui. 
Con queste persone, con tutta la loro discendenza, e con tutta l’umanità grazie a loro, Dio ha stabilito un legame indissolubile di amicizia, di amore, di speranza. E poiché Dio è fedele, dobbiamo credere a questa promessa; è sulla certezza di questa Sua fedeltà che dobbiamo poggiare la nostra fede nella “risurrezione”. Chi si appoggia a Lui è come il ramo di una pianta: anche se non porta frutto, anche se la linfa non scorre più in esso, anche se muore, non può separarsi, non può staccarsi di sua iniziativa da quel tronco che l’ha originato. Fidiamoci. Come un amico si appoggia ad un altro amico, la sposa allo sposo, un bimbo alla mamma, così dobbiamo appoggiarci a Dio. Perché Dio è l’unico essere che non abbandona le sue creature. 
Ogni giorno sperimentiamo questa Sua fedeltà: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo da Lui, anche se in certi giorni non accettiamo ciò che ci propone, anche se gli siamo infedeli e lo tradiamo (che poi non facciamo nient’altro che tradire noi stessi), Lui rimane con noi, Lui è sempre presente. Lui è roccia (in ebraico hesed, roccia, significa amore fedele): Lui è granito; è la mano che non si stanca di sorreggerci, che non molla, che ci tiene forte. 
Nelle nostre categorie umane, non sappiamo con esattezza cosa voglia dire “Risorto, risurrezione”: sappiamo bene però che Dio è Vita, è Amicizia, è Amore, è Colui che non ci abbandona mai, qualunque cosa succeda: e questo ci deve bastare. 
Dobbiamo solo affidarci a Lui, consapevoli che con Lui non cadremo nel buio, nel vuoto: se la nostra vita poggia su di Lui, infatti, durerà per sempre, perché Dio è eterno e offre ai suoi figli solo amicizia eterna. 
Quindi: se noi in questo cammino terreno abbiamo riconosciuto Dio, se lo abbiamo fatto diventare centro della nostra vita, se lo abbiamo amato, nonostante le nostre fragilità, non dovremo avere mai alcun motivo per temere: perché il nostro incontro con Lui, alla fine del nostro percorso, sarà come l’incontro tra due persone che si amano. Se al contrario Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, se lo abbiamo relegato tra le cose inutili, se nella nostra esistenza lo abbiamo ignorato, contrastato, oltraggiato, vilipeso, allora sì che dovremo avere paura! 
È questo il motivo per cui la morte, con quello che ci aspetta nell’aldilà, costituisce l’incognita più tragica e angosciante: ma ciò non deve preoccuparci, perché risponde al nostro bisogno naturale di voler sapere, di avere il controllo su tutto, di essere sempre noi a gestire qualunque situazione. 
Gesù al contrario ci chiede oggi di abbandonare queste fantasie, questa innata presunzione; ci chiede semplicemente di aver fiducia; ci chiede di fidarci di Lui. “Perché debbo fidarmi?”, gli chiediamo; “perché ti amo”, risponde Lui: “Osserva attentamente la tua vita, e vedrai quanto ti ho amato e quanto continuo ad amarti; e se ti amo così intensamente, come potrei abbandonarti? Fidati di me!”. 
Giusto: solo che la fiducia, quella sincera, quella totale, esige confidenza, adesione, fedeltà. Esige soprattutto amore: perché è l’amore che ci spinge, che determina il nostro fidarci, il nostro andare avanti con sicurezza: e questo, credetemi, non dipende dal fatto che sappiamo dove andremo, cosa faremo, come saremo; ma piuttosto perché conosciamo Lui, perché ci fidiamo ciecamente di Lui, perché è Lui che ci guida. 
Una sera di tanti anni fa, alcuni amici mi hanno bendato e mi hanno detto di fidarmi e di lasciarmi condurre. Non era il mio compleanno, non c’erano motivi particolari per questa sceneggiata. Non mi fidavo; anzi, poiché non capivo il senso della cosa, avevo paura di qualche “brutta” sorpresa, facevo un sacco di domande, tenevo le mani avanti ed ero attento ad ogni rumore. Non avevo la più pallida idea di come sarebbe finita. Quando mi tolsero la benda, meraviglia: c’era una grande tavola imbandita con tutti i miei amici più cari seduti intorno. Volevano solo festeggiare con me i decenni trascorsi insieme in grande e sincera amicizia. È stato emozionante. 
Ebbene, questo rappresenta, molto pallidamente, quella che è la nostra vita attuale e quello che ci succederà quando andremo di là: abbiamo paura nell’andare, siamo bendati, vogliamo sapere, ma poi una visione incantevole ci apparirà. Sarà una festa decisamente diversa da come la possiamo immaginare ora: inutile pensarci, inutile cercare di farci delle idee a modo nostro; inutile voler sapere ad ogni costo i particolari. Sappiamo solo che sarà un tripudio d’amore. Punto e basta! 
Noi siamo come i bambini al momento della loro nascita: sono traumatizzati dal dover uscire, dal lasciare un ambiente tanto confortevole; non sanno che quel passaggio così difficile è la loro unica salvezza, è l’inizio di una nuova vita, una nuova, inimmaginabile, meravigliosa, avventura che inizia tra le braccia accoglienti, calde, protettive e amorevoli della loro mamma.
Tante persone sono scioccamente convinte che il risultato finale, l’inferno o il paradiso, sia solo una questione di fortuna, un po’ come giocare alla lotteria: la speranza è di vincere, ma può capitare anche di finir male. Nossignori. L’inferno o il paradiso non capitano a caso: l’inferno o il paradiso ce li scegliamo noi, ce li costruiamo noi; il futuro è soltanto nelle nostre mani: quando andremo di là, Dio non farà altro che confermare la nostra scelta! Scegliamo allora la Vita, amici! Scegliamo fin d’ora il Paradiso, la gioia, la pace! Scegliamo l’Amore eterno, e in Lui ci sentiremo completamente soddisfatti, felici, e soprattutto amati! Amen.