La Parola e il da farsi
La volontà di Dio. Compiere la volontà del Padre che è nei Cieli schiude le porte del Cielo. Vivere come un cittadino del Cielo, mostrarne l’appartenenza. È questo, e solo questo, il passaporto per il Paradiso. Le parole non contano. Neanche i miracoli. Neanche l’essere vescovo, prete, o missionario.
Potrei dare tutto ai poveri, o consegnare il mio corpo al fuoco; se non è per amore è puro fumo. Vanità senza peso. Una vita costruita come una casa sulla sabbia, polvere finissima, morbida e impalpabile. Senza forza.
Le nostre belle parole, i nostri eroici atti d’altruismo, le nostre liturgie, le preghiere: tutto per apparire, tutto per ricevere in cambio un po’ d’affetto. Tutto per costruire noi stessi. Senza amore; solo concupiscenza. Una vita mondana, la carne a guidarne le scelte. Un passaporto senza valore. Il Signore non lo può riconoscere. Non v’è sigillato il Suo amore. La Parola incarnata, compiuta nella trama dell’esistenza, la casa fondata sulla Roccia. Cristo. O Lui, o noi. Con Lui entreremo nel Regno, senza di Lui ne resteremo fuori. Urge convertirsi. Oggi. Ascoltare la Sua voce e non indurire il cuore, provvedere all’olio dello Spirito Santo quali vergini sagge prudenti. Implorare lo Spirito, il soffio di Dio ad alimentare le nostre vite di vita divina. La Sua natura modellata, riversata in noi. Il pensiero di Cristo nelle nostre menti. Il Suo cuore nei nostri cuori. Con Lui, afferrati al Suo amore, anche oggi nel Getsemani sconvlto dai venti delle tentazioni, nella lotta con la pioggia dei nostri desideri; con Lui la fede per resistere quando i fiumi delle avversità, delle malattie, delle relazioni, del lavoro, dei figli, del marito, della moglie dei soldi si abbattono su di noi.. Con Lui vittoriosi sulla carne, sul mondo, sul demonio. Uniti a Lui, indissolubilmente. Nulla anteporre al Suo amore. E’ questa la saggezza. E’ questa la porta del Cielo.
E' vero. Ci piace, normalmente, parlarci addosso. E annegare chi ci sta intorno con fiumi di parole. Ci sembra che i nostri discorsi scolpiscano la nostra figura nella vita degli altri, ogni parola un colpo di scalpello nella memoria del prossimo. Nelle parole trasferiamo i nostri sentimenti, le nostre idee, e ne facciamo gli ambasciatori del nostro io. Più spesso, riconosciamolo, sono armi puntate alla tempia di chi ci si mette contro, o si risolvono in semplici contenitori di bugie, frottole gonfiate per difenderci o affermarci. Avvertivano i Padri, da Agostino a Leone Magno, sulla possibilità molto concreta che gli annunciatori della Parola possano divenire megafoni di se stessi e delle proprie fobie. Cembali che tintinnano. E' vero, la parola è uno strumento indifeso, è facilmente strumentalizzabile, gli usi possibili sono infiniti. Ma di fronte alla storia, alla cruda realtà della vita, ogni parola è costretta a rivelarsi per quel che è: menzogna o verità. Non basta dire, occorre che il detto abbia un contenuto, e che sia vero. Non basta gridare e affermare, occorre che le parole abbiano un fondamento nella vita vissuta, che siano "ragionevoli", "sagge", che si possano comprendere perchè dimostrabili. Che siano un annuncio o una testimonianza che sgorgano da un'esperienza. Il liquido di contrasto d'ogni parola è la volontà di Dio. Compiuta o non compiuta. Le menzogne hanno le gambe corte, non reggono il passo della storia. Una casa o è costruita sulla Roccia, sull'ascolto della Parola fatta carne che ha il potere di realizzarsi, o è costruita sulla sabbia, sui "vorrei ma ho tanto da fare, i buoi, il lavoro, lo studio, l'attività pastorale, la famiglia....". La sofferenza, le difficoltà, la CROCE rivelano il valore delle nostre parole. E appare la nostra stoltezza. Nella storia si spogliano i nostri discorsi e se ne svelano le nudità. Carne o fumo. Se è Parola fatta carne, si entra nella storia, magari sbuffando, ma si entra. E si rimane lì, crocifissi, perchè è lì che c'è la vita e perchè è sulla croce che sta Cristo, vivo, e noi con Lui. Oppure è fumo, e un po' di vento, una corrente d'aria d'un rimprovero, qualcosa che non va per il verso giusto, o un torrente in piena, una malattia, un fallimento e tutta l'impalcatura della nostra vita così soavemente pubblicizzata dalle nostre parole svanisce senza lasciar traccia, se non quelle della disperazione. Una rovina grande e le false certezze, le vuote speranze crollano senza rimedio. La saggezza è fare la volontà di Dio. Ma è difficile. Impossibile. I libri sapienziali abbondano di sentenze sulle vuote parole non accompagnate dai fatti. Ma è così naturale per noi, parlare è quasi già un agire, sembra che aver detto qualcosa sia già aver cominciato a realizzarlo. Ma non è vero. Ci illudiamo e basta. Per questo oggi appare un angelo nella nostra vita, lo stesso che visitò Maria nella casa di Nazaret: "Non temere, nulla è impossibile a Dio!". E' sufficiente sostituire la preghiera alle parole. Inginocchiarsi, come Maria, e rimettere la propria incapacità, la propria debolezza nelle mani del Padre. Come Gesù nell'orto degli ulivi. Siamo deboli, non possiamo, abbiamo altre volontà e altri desideri. Abbiamo paura. Ma Gesù ha pregato per tutti noi, perchè anche noi possiamo approfittare della Sua preghiera, delle Sue Parole. Esse si compiono in noi. Oggi. Con Gesù e Sua Madre oggi possiamo prostrarci e implorare che si compia in noi secondo le Parole che Dio ha detto per noi. Che si realizzi la Sua volontà in noi. Si tratta solo di abbandonarsi. Al Signore attraverso Maria, la Chiesa, in un cammino di pace, quella di chi fa la volontà di Dio. Gratuitamente come un dono del Padre.
giovedì 29 maggio 2008
venerdì 23 maggio 2008
25 maggio 2008 - Ss. Corpo e Sangue di Cristo
Fare memoria
Ricordati, dice Mosè al popolo, fa memoria del tuo cammino: della schiavitù e della libertà, e di quanto costi diventare liberi, di quanto deserto occorra attraversare per spogliarsi di tutte le sovrastrutture – sociali, caratteriali, religiose – che ti impediscono di credere e di amare nella nudità dell'essere.
Fa memoria, dice Mosè al popolo, della fame che hai patito e del pane che hai ricevuto, il pane del cammino.
La domenica ci raduniamo in obbedienza al comando del Signore, a quell'imperioso «Fate questo in memoria di me» pronunciato durante la Cena, per dare un senso alla nostra settimana, per orientarla verso il vero e il bene, per leggere le mille vicende della nostra vita in una prospettiva di Vangelo.
Fare memoria: questo è anzitutto l'eucarestia; una terapia contro la dimenticanza, una consapevole ed energica scossa che ci permette di rientrare in noi stessi per trovare, in noi stessi, il sorriso di Dio. Nonostante tutto.
E questa partecipazione, questo celebrare insieme, questo radunarsi, questo essere convocati ci rende uno, perché uno è il pane che mangiamo, dice Paolo ai litigiosi Corinzi. Vero, verissimo: niente e nessuno potrebbe radunare ogni domenica in Italia quasi dieci milioni di persone, anziani, coppie, giovani (pochi), persone di cultura diversa, di fede politica e calcistica diversa, tutti, in qualche modo, sedotti dal Nazareno.
Ci rende uno quello spezzare il pane, un'unità che sarebbe belle ritrovare, almeno un poco, anche fuori della chiesa, nel mondo, là dove l'eucarestia diventa vita, là dove mettiamo alla prova la verità del gesto che abbiamo fatto. Il nostro mondo ha urgente bisogno, immenso bisogno di unità, di speranza, di diversità armonizzata intorno ad un sogno, il sogno del Regno di Dio.
Ma i cristiani si nascondono, i “chiamati” vengono meno.
Facendo memoria, facendo unità, incontriamo interiormente, spiritualmente, l'immensità di Dio. Quel pane che ci è donato, dice Gesù, è presenza di Dio, ci cristifica, ci fa nuovi, ci unisce a lui, avviene uno scambio intimo, profondo, misterioso, fra la nostra povertà e la sua immensa grandezza.
«Non possiamo fare a meno di partecipare all'eucarestia», dicevano i martiri di Abitene ad uno sconcertato procuratore romano che li voleva salvare dalla pena di morte invitandoli a non radunarsi alla domenica.
Mio Dio, quanta distanza da noi...
Ogni tanto mi riemergono dall’infanzia certe raccomandazioni spicciole: lontane, lontanissime… sperdute nei meandri della memoria, ma che ancora oggi penso siano più che mai attuali…
Quando eravamo ragazzi ci dicevano infatti che le doti per ricevere bene l'Eucarestia erano:
- 1° essere in grazia di Dio. Essere in grazia di Dio vuol dire avere l'amore di Dio nel cuore: se ci sono dei rancori non si è in grazia di Dio. Quando si hanno sentimenti di vendetta bisogna evitare di parlare di grazia di Dio! Qualcuno oserà dire: "Io non ho fatto nessun peccato mortale". Vero, ma siccome serbi rancore non sei in grazia di Dio. Il Signore ha detto che anche il pensiero è già una decisione: un pensiero buono è una buona decisione, un pensiero cattivo è una cattiva decisione. Essere in grazia di Dio vuol dire non "tenere" dentro di sé delle cose negative, dei pensieri negativi. E' istintivo provare del rancore per chi ti ha fatto del male, o per chi ti ha fatto un'ingiustizia... ma, bisogna "cacciare" dal cuore il rancore. Un conto è sentire (provare) e un conto è acconsentire. Non dobbiamo permettere ad alcun pensiero cattivo di astio o di odio di rimanere dentro di noi: bisogna cacciarlo. Questo significa essere in grazia di Dio.
- 2° sapere e pensare Chi si va a ricevere. Quando si va a fare la comunione bisogna pensare a Dio: pensare a Lui. Pensare a Lui e non a noi attraverso Lui: pensare solo a Lui perché in quel momento ci deve essere solo Lui.
Questo è il grande raccoglimento che ci deve essere in noi quando andiamo a ricevere la Comunione. Certo, ci sono dei riti eucaristici, per esempio la S. Messa solenne nella quale si devono svolgere anche dei compiti, ma.... al momento della Comunione bisogna arrivare a pensare solo a Lui. Non so se il cantare quando si va a ricevere la Comunione sia veramente positivo!!! Non sono convinto che sia positivo. Vedo bene il cantare dopo, ma... prima e durante non bisogna essere disturbati per poter pensare solo a Lui.
Bisogna sentirsi piccoli davanti a Lui! I gradini dell'Altare, dove una volta ci si inginocchiava per ricevere la Comunione, sono rimasti, e se anche non ci si inginocchia più, devono però farci sentire "piccoli" davanti a "Qualche-cosa" di grande. Ecco: la festa del Corpus Domini ci porti allora a superare, con l'occhio della fede, quello che esteriormente sembra un gesto normale, come l'andare a prendere un pezzetto di ostia, per poter comprendere la Realtà che sta dietro e per riuscire a sapere e pensare Quello che andiamo a ricevere. Solo così la nostra vita sarà più forte, solo così gli altri, quelli che non credono, si renderanno conto che in noi c'è "Qualche-cosa" che ci rende forti.
Dobbiamo fare Eucaristia “in obbedienza”: è l'unica seria ragione che mi viene in mente per partecipare all'Eucarestia ogni domenica. Un'obbedienza seria, adulta, piena, affettuosa. Obbedisco a ciò che un amico immenso mi chiede, mi fido, lo faccio, ci sono.
Quel “Fate questo in memoria di me” detto da Gesù nella tragica fine della sua storia, quella cena Pasquale riempita di un nuovo significato, non più celebrazione della fuga dall'Egitto, ma dono totale di Dio all'umanità, è una richiesta perentoria che Gesù fa ai suoi ignari apostoli, e con loro a noi.
“Rifatelo”, dice il Signore. E noi lo rifacciamo, quel gesto, con stupore e rispetto, con passione e costanza, da duemila anni, per rendere presente il Signore. Non nella rispettosa memoria storica, non nell'emotività, non nella stanchezza dell'abitudine, non nel rischio di una ritualità vuota e ridondante, ma nella fede della sua presenza reale nei poveri segni del pane e del vino.
Già: Gesù volle usare proprio il pane e il vino, la sostanza e la gratuità, l'essenziale e il superfluo della vita, il lavoro e la festa per farlo diventare la presenza della totalità di Dio.
Gesù è davvero presente quando la sua comunità si raduna, ne ascolta le parole e ne ripete il sacrificio.
Che ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no, nella povertà immensa delle nostre annoiate celebrazioni domenicali, Dio si rende presente. Tutto lì.
E se è vero (come è) che Dio si rende presente nel pane e nel vino, e io dico di crederci… allora, scusate, non capisco alcune cose.
Non capisco come si fa a dire: “Sono credente non praticante”, come se dicessi: “Sono innamorato non praticante”. Non capisco chi dice “Meglio non andare a Messa e comportarsi bene che andarci e comportarsi male”, visto che è possibile anche andare a Messa e comportarsi bene! Non capisco chi ha ridotto la Messa a dovere da assolvere, da segnare sul taccuino dei sacrifici fatti e presentarlo a san Pietro il giorno della nostra morte (può accadere che l'amore si riduca a dovere, ma che tristezza di fede!). Non capisco chi pensa di essere discepolo e mette l'incontro con la comunità (sempre che esista una comunità!) all'ultimo posto, dopo le tante cose fondamentali da vivere di domenica. Non capisco chi cerca con passione Dio e snobba il luogo dell'incontro. Non capisco ma vivo, non capisco ma cerco di accorgermi, non capisco ma cerco di avere fede.
Forse ciò che abbiamo perso nelle nostre Messe non è il fascino della ritualità del latino o la solennità delle funzioni, forse non abbiamo perso l'equilibrio e l'armonia del celebrare, forse non abbiamo perso solo la bellezza delle funzioni, forse non dobbiamo solo ripensare il ruolo del celebrante e l'eccessiva enfasi data all'omelia, forse quello che manca è proprio e solo la fede.
Non ci sono scuse: se credessimo veramente (sottolineo “veramente”) che Dio è presente nell’Eucaristia, beh… tutta la nostra vita ne verrebbe stravolta. E in bene!
E allora? “Beati voi che avete creduto….”
Preghiamo dunque per la nostra conversione, perché ogni discepolo si apra allo stupore, perché ogni ministro diventi trasparenza di Dio. Preghiamo per non "cosificare" l'eucarestia: ma che sia una forza dirompente all'interno della nostra settimana, un salubre pungolo ad essere maggiormente discepoli, più autentici e veri, più consapevoli dell'immensità di Dio.
Dalla più sperduta delle favelas alla più pomposa delle Cattedrali, dal villaggio di montagna sperduto alle masse oceaniche radunate in occasione dei grandi eventi, l'Eucarestia resta il dono più misterioso e arricchente della nostra vita interiore. Non spegniamo lo Spirito in noi, lasciamo che la grazia ci raggiunga e ci cambi.
Ricordati, dice Mosè al popolo, fa memoria del tuo cammino: della schiavitù e della libertà, e di quanto costi diventare liberi, di quanto deserto occorra attraversare per spogliarsi di tutte le sovrastrutture – sociali, caratteriali, religiose – che ti impediscono di credere e di amare nella nudità dell'essere.
Fa memoria, dice Mosè al popolo, della fame che hai patito e del pane che hai ricevuto, il pane del cammino.
La domenica ci raduniamo in obbedienza al comando del Signore, a quell'imperioso «Fate questo in memoria di me» pronunciato durante la Cena, per dare un senso alla nostra settimana, per orientarla verso il vero e il bene, per leggere le mille vicende della nostra vita in una prospettiva di Vangelo.
Fare memoria: questo è anzitutto l'eucarestia; una terapia contro la dimenticanza, una consapevole ed energica scossa che ci permette di rientrare in noi stessi per trovare, in noi stessi, il sorriso di Dio. Nonostante tutto.
E questa partecipazione, questo celebrare insieme, questo radunarsi, questo essere convocati ci rende uno, perché uno è il pane che mangiamo, dice Paolo ai litigiosi Corinzi. Vero, verissimo: niente e nessuno potrebbe radunare ogni domenica in Italia quasi dieci milioni di persone, anziani, coppie, giovani (pochi), persone di cultura diversa, di fede politica e calcistica diversa, tutti, in qualche modo, sedotti dal Nazareno.
Ci rende uno quello spezzare il pane, un'unità che sarebbe belle ritrovare, almeno un poco, anche fuori della chiesa, nel mondo, là dove l'eucarestia diventa vita, là dove mettiamo alla prova la verità del gesto che abbiamo fatto. Il nostro mondo ha urgente bisogno, immenso bisogno di unità, di speranza, di diversità armonizzata intorno ad un sogno, il sogno del Regno di Dio.
Ma i cristiani si nascondono, i “chiamati” vengono meno.
Facendo memoria, facendo unità, incontriamo interiormente, spiritualmente, l'immensità di Dio. Quel pane che ci è donato, dice Gesù, è presenza di Dio, ci cristifica, ci fa nuovi, ci unisce a lui, avviene uno scambio intimo, profondo, misterioso, fra la nostra povertà e la sua immensa grandezza.
«Non possiamo fare a meno di partecipare all'eucarestia», dicevano i martiri di Abitene ad uno sconcertato procuratore romano che li voleva salvare dalla pena di morte invitandoli a non radunarsi alla domenica.
Mio Dio, quanta distanza da noi...
Ogni tanto mi riemergono dall’infanzia certe raccomandazioni spicciole: lontane, lontanissime… sperdute nei meandri della memoria, ma che ancora oggi penso siano più che mai attuali…
Quando eravamo ragazzi ci dicevano infatti che le doti per ricevere bene l'Eucarestia erano:
- 1° essere in grazia di Dio. Essere in grazia di Dio vuol dire avere l'amore di Dio nel cuore: se ci sono dei rancori non si è in grazia di Dio. Quando si hanno sentimenti di vendetta bisogna evitare di parlare di grazia di Dio! Qualcuno oserà dire: "Io non ho fatto nessun peccato mortale". Vero, ma siccome serbi rancore non sei in grazia di Dio. Il Signore ha detto che anche il pensiero è già una decisione: un pensiero buono è una buona decisione, un pensiero cattivo è una cattiva decisione. Essere in grazia di Dio vuol dire non "tenere" dentro di sé delle cose negative, dei pensieri negativi. E' istintivo provare del rancore per chi ti ha fatto del male, o per chi ti ha fatto un'ingiustizia... ma, bisogna "cacciare" dal cuore il rancore. Un conto è sentire (provare) e un conto è acconsentire. Non dobbiamo permettere ad alcun pensiero cattivo di astio o di odio di rimanere dentro di noi: bisogna cacciarlo. Questo significa essere in grazia di Dio.
- 2° sapere e pensare Chi si va a ricevere. Quando si va a fare la comunione bisogna pensare a Dio: pensare a Lui. Pensare a Lui e non a noi attraverso Lui: pensare solo a Lui perché in quel momento ci deve essere solo Lui.
Questo è il grande raccoglimento che ci deve essere in noi quando andiamo a ricevere la Comunione. Certo, ci sono dei riti eucaristici, per esempio la S. Messa solenne nella quale si devono svolgere anche dei compiti, ma.... al momento della Comunione bisogna arrivare a pensare solo a Lui. Non so se il cantare quando si va a ricevere la Comunione sia veramente positivo!!! Non sono convinto che sia positivo. Vedo bene il cantare dopo, ma... prima e durante non bisogna essere disturbati per poter pensare solo a Lui.
Bisogna sentirsi piccoli davanti a Lui! I gradini dell'Altare, dove una volta ci si inginocchiava per ricevere la Comunione, sono rimasti, e se anche non ci si inginocchia più, devono però farci sentire "piccoli" davanti a "Qualche-cosa" di grande. Ecco: la festa del Corpus Domini ci porti allora a superare, con l'occhio della fede, quello che esteriormente sembra un gesto normale, come l'andare a prendere un pezzetto di ostia, per poter comprendere la Realtà che sta dietro e per riuscire a sapere e pensare Quello che andiamo a ricevere. Solo così la nostra vita sarà più forte, solo così gli altri, quelli che non credono, si renderanno conto che in noi c'è "Qualche-cosa" che ci rende forti.
Dobbiamo fare Eucaristia “in obbedienza”: è l'unica seria ragione che mi viene in mente per partecipare all'Eucarestia ogni domenica. Un'obbedienza seria, adulta, piena, affettuosa. Obbedisco a ciò che un amico immenso mi chiede, mi fido, lo faccio, ci sono.
Quel “Fate questo in memoria di me” detto da Gesù nella tragica fine della sua storia, quella cena Pasquale riempita di un nuovo significato, non più celebrazione della fuga dall'Egitto, ma dono totale di Dio all'umanità, è una richiesta perentoria che Gesù fa ai suoi ignari apostoli, e con loro a noi.
“Rifatelo”, dice il Signore. E noi lo rifacciamo, quel gesto, con stupore e rispetto, con passione e costanza, da duemila anni, per rendere presente il Signore. Non nella rispettosa memoria storica, non nell'emotività, non nella stanchezza dell'abitudine, non nel rischio di una ritualità vuota e ridondante, ma nella fede della sua presenza reale nei poveri segni del pane e del vino.
Già: Gesù volle usare proprio il pane e il vino, la sostanza e la gratuità, l'essenziale e il superfluo della vita, il lavoro e la festa per farlo diventare la presenza della totalità di Dio.
Gesù è davvero presente quando la sua comunità si raduna, ne ascolta le parole e ne ripete il sacrificio.
Che ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no, nella povertà immensa delle nostre annoiate celebrazioni domenicali, Dio si rende presente. Tutto lì.
E se è vero (come è) che Dio si rende presente nel pane e nel vino, e io dico di crederci… allora, scusate, non capisco alcune cose.
Non capisco come si fa a dire: “Sono credente non praticante”, come se dicessi: “Sono innamorato non praticante”. Non capisco chi dice “Meglio non andare a Messa e comportarsi bene che andarci e comportarsi male”, visto che è possibile anche andare a Messa e comportarsi bene! Non capisco chi ha ridotto la Messa a dovere da assolvere, da segnare sul taccuino dei sacrifici fatti e presentarlo a san Pietro il giorno della nostra morte (può accadere che l'amore si riduca a dovere, ma che tristezza di fede!). Non capisco chi pensa di essere discepolo e mette l'incontro con la comunità (sempre che esista una comunità!) all'ultimo posto, dopo le tante cose fondamentali da vivere di domenica. Non capisco chi cerca con passione Dio e snobba il luogo dell'incontro. Non capisco ma vivo, non capisco ma cerco di accorgermi, non capisco ma cerco di avere fede.
Forse ciò che abbiamo perso nelle nostre Messe non è il fascino della ritualità del latino o la solennità delle funzioni, forse non abbiamo perso l'equilibrio e l'armonia del celebrare, forse non abbiamo perso solo la bellezza delle funzioni, forse non dobbiamo solo ripensare il ruolo del celebrante e l'eccessiva enfasi data all'omelia, forse quello che manca è proprio e solo la fede.
Non ci sono scuse: se credessimo veramente (sottolineo “veramente”) che Dio è presente nell’Eucaristia, beh… tutta la nostra vita ne verrebbe stravolta. E in bene!
E allora? “Beati voi che avete creduto….”
Preghiamo dunque per la nostra conversione, perché ogni discepolo si apra allo stupore, perché ogni ministro diventi trasparenza di Dio. Preghiamo per non "cosificare" l'eucarestia: ma che sia una forza dirompente all'interno della nostra settimana, un salubre pungolo ad essere maggiormente discepoli, più autentici e veri, più consapevoli dell'immensità di Dio.
Dalla più sperduta delle favelas alla più pomposa delle Cattedrali, dal villaggio di montagna sperduto alle masse oceaniche radunate in occasione dei grandi eventi, l'Eucarestia resta il dono più misterioso e arricchente della nostra vita interiore. Non spegniamo lo Spirito in noi, lasciamo che la grazia ci raggiunga e ci cambi.
giovedì 15 maggio 2008
18 maggio 2008 - SS. Trinità
Trinità, sostegno e amore per la Chiesa
La festa della Trinità ci invita a una grande umiltà davanti al mistero di Dio, che ha un grande significato per la nostra vita. Gesù ci ha rivelato che c'è un solo Dio, ma in tre persone, che hanno tra loro un misterioso rapporto d'amore.
Un amore così intenso che si espande all'esterno e si manifesta in tre modi: nella creazione dell'uomo e del cosmo; nella redenzione e nel perdono del peccato dell'uomo; nella santificazione, cioè nel far partecipare l'uomo alla vita di Dio. Ecco il significato della Trinità per noi: siamo chiamati a partecipare alla vita di Dio. La nostra risposta al mistero di Dio è amarlo, adorarlo. È davvero una cosa grande: vivere la vita di Dio, partecipare alle relazioni di amore della Trinità, non con l'intelligenza, lo studio, ma attraverso il cuore, la volontà di amare, il fuoco, la passione dell'amore.
La Trinità ci dice che nessuno di noi può vivere da solo, chiuso in se stesso, ma siamo stati creati per amare, per uscire da noi stessi e donarci a Dio e al prossimo. Noi cristiani dobbiamo imparare ad essere persone dedicate all'amore, cordiali, disponibili, capaci di perdonare, di interessarci agli altri, di aiutare. Solo così ogni persona trova la pace del cuore e la gioia di vivere.
Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che oggi contempliamo nella Trinità, sono la radice, la fonte, il sostegno della Chiesa, di quella comunità nata nel giorno di Pentecoste, segno dell'unità di tutto il genere umano. La Chiesa non nasce dal "basso", non è il risultato della convergenza degli interessi delle persone che la compongono, non è il frutto dell'impegno o dello slancio di cuori generosi, non è la somma di tanti individui che decidono di stare assieme. La Chiesa viene dall'alto, da Dio. Più precisamente, da un Dio che è "comunione" di tre persone. Esse - proviamo a balbettare qualche parola - si vogliono a tal punto bene l'una con l'altra da essere una cosa sola. Da tale comunione d'amore nasce la Chiesa e verso tale comunione essa cammina. La Trinità è origine e termine della Chiesa.
Per questo la Chiesa è anzitutto e soprattutto mistero; mistero da contemplare, da accogliere, da rispettare, da custodire, da amare. Solo in questa realtà la Chiesa è comunità, organizzazione, corpo strutturato... Pertanto, chi ascolta il vangelo con il cuore non è solo accolto in una comunità organizzata, è accolto soprattutto nel mistero trinitario, nella comunione con Dio. Noi viviamo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Il segno della croce ci ricorda appunto questo mistero nel quale siamo inseriti.
È senza dubbio un grande dono. Ma è anche un compito. La comunità che nasce a Pentecoste non è neutra; essa ha nella sua stessa costituzione una vocazione: il servizio dell'unità e della comunione.
L'uomo non è stato creato a immagine di un Dio solitario, ma di un Dio amore.
Ogni singola persona e l'umanità stessa non saranno se stesse al di fuori della comunione. Così, e solo così, potranno salvarsi. Dio non ha voluto salvare gli uomini singolarmente, ma radunandoli in un popolo. La Chiesa, nata dalla comunione e ad essa destinata, si trova perciò a essere impegnata nel vivo della storia di questi anni come lievito di comunione e di amore.
La festa della Trinità è un caldo invito ad inserirsi nel dinamismo stesso di Dio, ad avere le sue stesse ambizioni, a vivere la sua stessa vita, a gioire dell'amore che più non tramonta. Il Signore, che vuole la salvezza di tutti, la realizza raccogliendo gli uomini e le donne attorno a sé come in una grande famiglia. La salvezza si chiama, appunto, comunione con Dio e tra gli uomini. È il sogno di Dio sul mondo.
"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque creda in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". (Gv 3,16)
Non sono parole vuote, lui si è impegnato personalmente con noi, e come pegno del suo amore, non ci dà un anello che possiamo restituire, un fiore che può appassire, un gelato che si può sciogliere, Dio ci dà il suo stesso Figlio, il suo unico Figlio.
Ce l'ha dato bambino perché potessimo accoglierlo tra le nostre braccia, ce lo dà con le braccia spalancate sulla croce, perché potesse abbracciarci tutti.
Oggi si apre anche per noi una nuova opportunità.
È una notizia sensazionale, una notizia dell'ultima ora, e antica quanto la creazione del mondo.
In poche righe Dio rivela se stesso, dice chi egli è realmente: è il Dio che ha tanto amato…
Di più non poteva amare. Il suo modo di essere e di esistere (in Dio coincidono) è amore, non può far altro che amare.
Tutto ciò che egli fa’, lo fa’ con Amore, per Amore, essendo l'Amore.
Dio è onnipotente, può fare tutto; ma c'è una cosa che egli non può fare: smettere di amarti.
Lui non può far altro che amare il mondo. Dio ama tutti gli uomini, ama ciascuno in modo personale, così come ognuno di noi ha bisogno di essere amato.
Se io fossi l'unico abitante in tutto l'universo, Dio non potrebbe amarmi di più di quanto già non mi ami.
Mi ama al punto “da dare il suo Figlio Unigenito”: la rivelazione del Dio cristiano è tutta qui. Chi è Dio? È un Padre che ama il suo Figlio unigenito, sul quale riversa tutta la sua capacità di amare, lo ama come se stesso. E il Figlio risponde al suo amore con una identica capacità di amare. Tutta la sua esistenza di Padre dipende da quel Figlio. Sappiamo che nessuno può dirsi Padre se non colui che ha un Figlio.
Da tutta l'eternità Padre e Figlio si amano di un amore così forte, da farsi Terza Persona: lo Spirito Santo.
Il Padre consegna al mondo che ama, e che si è allontanato da lui, il Figlio.
Questo amore, da cui dipende l'esistenza del Padre stesso, Egli lo dà al mondo, come pegno del suo Amore. L'Amore tra Padre e Figlio è così forte che neppure la morte è capace di distruggerlo. È un Amore che vince la Morte e che regala al mondo la vita eterna.
Ma, com’è questo amore per il mondo?
È un amore che non ha limiti: a Dio non importa che cosa è successo o che cosa abbiamo fatto nel passato e se adesso siamo nel peccato, tristi, delusi, amareggiati... se siamo poveri o ricchi, belli o brutti, perché…
Il suo è un amore incondizionato: non pone nessuna condizione, ci ama così come siamo in questo preciso momento: con i nostri peccati, vizi, difetti. Per lui noi siamo i più belli: “Ti ho fatto come un prodigio” (Sal 139).
Il suo è un amore fedele: non abbiamo bisogno di apparire diversi da quello che siamo, perché Lui ci ami. Lui ci ama infatti molto di più di quanto noi stessi ci possiamo amare.
A ciascuno di noi egli dice questa grande verità: "Tu sei il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto".
Il suo è un amore che aiuta a crescere: Dio ci ama certamente come siamo, ma ci ama così tanto che non vuole lasciarci in questa condizione. Egli vuole per noi molto di più, ha un piano meraviglioso per la nostra vita: vuole fare di noi il suo Figlio amato.
Il suo è un amore che salva: la Rivelazione di Dio è la rivelazione della sua Misericordia, della Parola cioè con cui il Padre vuole ridare alla creazione la bellezza del primo mattino e all'uomo la sua dignità di figlio. La bella notizia allora non è solo che Dio ci salva, ma che ci ha già salvati, quando inviò il suo unico Figlio, che morì e risuscitò vincendo la morte.
Ma, quanto costa un amore così? Non costa nulla, non dobbiamo pagare nessun prezzo: ha già pagato tutto il Figlio sulla Croce; noi dobbiamo solo accettarlo.
È un amore gratuito. L'unica cosa che egli ci chiede in cambio è che ci lasciamo amare da lui.
Dio ci ama e l'unica cosa che si aspetta da noi è che crediamo nel suo amore, che crediamo in Lui e confidiamo nelle sue vie, più che nelle nostre.
Lasciamoci allora raggiungere da Gesù... È lui che prende ogni iniziativa: perché egli è Amore.
"Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi" (Gv 15,16). "Egli ci ha amati per primo" (1Gv 4,19).
Un amore così intenso che si espande all'esterno e si manifesta in tre modi: nella creazione dell'uomo e del cosmo; nella redenzione e nel perdono del peccato dell'uomo; nella santificazione, cioè nel far partecipare l'uomo alla vita di Dio. Ecco il significato della Trinità per noi: siamo chiamati a partecipare alla vita di Dio. La nostra risposta al mistero di Dio è amarlo, adorarlo. È davvero una cosa grande: vivere la vita di Dio, partecipare alle relazioni di amore della Trinità, non con l'intelligenza, lo studio, ma attraverso il cuore, la volontà di amare, il fuoco, la passione dell'amore.
La Trinità ci dice che nessuno di noi può vivere da solo, chiuso in se stesso, ma siamo stati creati per amare, per uscire da noi stessi e donarci a Dio e al prossimo. Noi cristiani dobbiamo imparare ad essere persone dedicate all'amore, cordiali, disponibili, capaci di perdonare, di interessarci agli altri, di aiutare. Solo così ogni persona trova la pace del cuore e la gioia di vivere.
Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che oggi contempliamo nella Trinità, sono la radice, la fonte, il sostegno della Chiesa, di quella comunità nata nel giorno di Pentecoste, segno dell'unità di tutto il genere umano. La Chiesa non nasce dal "basso", non è il risultato della convergenza degli interessi delle persone che la compongono, non è il frutto dell'impegno o dello slancio di cuori generosi, non è la somma di tanti individui che decidono di stare assieme. La Chiesa viene dall'alto, da Dio. Più precisamente, da un Dio che è "comunione" di tre persone. Esse - proviamo a balbettare qualche parola - si vogliono a tal punto bene l'una con l'altra da essere una cosa sola. Da tale comunione d'amore nasce la Chiesa e verso tale comunione essa cammina. La Trinità è origine e termine della Chiesa.
Per questo la Chiesa è anzitutto e soprattutto mistero; mistero da contemplare, da accogliere, da rispettare, da custodire, da amare. Solo in questa realtà la Chiesa è comunità, organizzazione, corpo strutturato... Pertanto, chi ascolta il vangelo con il cuore non è solo accolto in una comunità organizzata, è accolto soprattutto nel mistero trinitario, nella comunione con Dio. Noi viviamo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Il segno della croce ci ricorda appunto questo mistero nel quale siamo inseriti.
È senza dubbio un grande dono. Ma è anche un compito. La comunità che nasce a Pentecoste non è neutra; essa ha nella sua stessa costituzione una vocazione: il servizio dell'unità e della comunione.
L'uomo non è stato creato a immagine di un Dio solitario, ma di un Dio amore.
Ogni singola persona e l'umanità stessa non saranno se stesse al di fuori della comunione. Così, e solo così, potranno salvarsi. Dio non ha voluto salvare gli uomini singolarmente, ma radunandoli in un popolo. La Chiesa, nata dalla comunione e ad essa destinata, si trova perciò a essere impegnata nel vivo della storia di questi anni come lievito di comunione e di amore.
La festa della Trinità è un caldo invito ad inserirsi nel dinamismo stesso di Dio, ad avere le sue stesse ambizioni, a vivere la sua stessa vita, a gioire dell'amore che più non tramonta. Il Signore, che vuole la salvezza di tutti, la realizza raccogliendo gli uomini e le donne attorno a sé come in una grande famiglia. La salvezza si chiama, appunto, comunione con Dio e tra gli uomini. È il sogno di Dio sul mondo.
"Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque creda in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". (Gv 3,16)
Non sono parole vuote, lui si è impegnato personalmente con noi, e come pegno del suo amore, non ci dà un anello che possiamo restituire, un fiore che può appassire, un gelato che si può sciogliere, Dio ci dà il suo stesso Figlio, il suo unico Figlio.
Ce l'ha dato bambino perché potessimo accoglierlo tra le nostre braccia, ce lo dà con le braccia spalancate sulla croce, perché potesse abbracciarci tutti.
Oggi si apre anche per noi una nuova opportunità.
È una notizia sensazionale, una notizia dell'ultima ora, e antica quanto la creazione del mondo.
In poche righe Dio rivela se stesso, dice chi egli è realmente: è il Dio che ha tanto amato…
Di più non poteva amare. Il suo modo di essere e di esistere (in Dio coincidono) è amore, non può far altro che amare.
Tutto ciò che egli fa’, lo fa’ con Amore, per Amore, essendo l'Amore.
Dio è onnipotente, può fare tutto; ma c'è una cosa che egli non può fare: smettere di amarti.
Lui non può far altro che amare il mondo. Dio ama tutti gli uomini, ama ciascuno in modo personale, così come ognuno di noi ha bisogno di essere amato.
Se io fossi l'unico abitante in tutto l'universo, Dio non potrebbe amarmi di più di quanto già non mi ami.
Mi ama al punto “da dare il suo Figlio Unigenito”: la rivelazione del Dio cristiano è tutta qui. Chi è Dio? È un Padre che ama il suo Figlio unigenito, sul quale riversa tutta la sua capacità di amare, lo ama come se stesso. E il Figlio risponde al suo amore con una identica capacità di amare. Tutta la sua esistenza di Padre dipende da quel Figlio. Sappiamo che nessuno può dirsi Padre se non colui che ha un Figlio.
Da tutta l'eternità Padre e Figlio si amano di un amore così forte, da farsi Terza Persona: lo Spirito Santo.
Il Padre consegna al mondo che ama, e che si è allontanato da lui, il Figlio.
Questo amore, da cui dipende l'esistenza del Padre stesso, Egli lo dà al mondo, come pegno del suo Amore. L'Amore tra Padre e Figlio è così forte che neppure la morte è capace di distruggerlo. È un Amore che vince la Morte e che regala al mondo la vita eterna.
Ma, com’è questo amore per il mondo?
È un amore che non ha limiti: a Dio non importa che cosa è successo o che cosa abbiamo fatto nel passato e se adesso siamo nel peccato, tristi, delusi, amareggiati... se siamo poveri o ricchi, belli o brutti, perché…
Il suo è un amore incondizionato: non pone nessuna condizione, ci ama così come siamo in questo preciso momento: con i nostri peccati, vizi, difetti. Per lui noi siamo i più belli: “Ti ho fatto come un prodigio” (Sal 139).
Il suo è un amore fedele: non abbiamo bisogno di apparire diversi da quello che siamo, perché Lui ci ami. Lui ci ama infatti molto di più di quanto noi stessi ci possiamo amare.
A ciascuno di noi egli dice questa grande verità: "Tu sei il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto".
Il suo è un amore che aiuta a crescere: Dio ci ama certamente come siamo, ma ci ama così tanto che non vuole lasciarci in questa condizione. Egli vuole per noi molto di più, ha un piano meraviglioso per la nostra vita: vuole fare di noi il suo Figlio amato.
Il suo è un amore che salva: la Rivelazione di Dio è la rivelazione della sua Misericordia, della Parola cioè con cui il Padre vuole ridare alla creazione la bellezza del primo mattino e all'uomo la sua dignità di figlio. La bella notizia allora non è solo che Dio ci salva, ma che ci ha già salvati, quando inviò il suo unico Figlio, che morì e risuscitò vincendo la morte.
Ma, quanto costa un amore così? Non costa nulla, non dobbiamo pagare nessun prezzo: ha già pagato tutto il Figlio sulla Croce; noi dobbiamo solo accettarlo.
È un amore gratuito. L'unica cosa che egli ci chiede in cambio è che ci lasciamo amare da lui.
Dio ci ama e l'unica cosa che si aspetta da noi è che crediamo nel suo amore, che crediamo in Lui e confidiamo nelle sue vie, più che nelle nostre.
Lasciamoci allora raggiungere da Gesù... È lui che prende ogni iniziativa: perché egli è Amore.
"Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi" (Gv 15,16). "Egli ci ha amati per primo" (1Gv 4,19).
giovedì 8 maggio 2008
11 maggio 2008 - La Pentecoste
Vieni, tenerezza di Dio!
È un testo densissimo, quello di oggi, che fa da raccordo tra l’ora del Figlio e quella dei fratelli, tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa.
Protagonista è sempre lo Spirito. All’inizio si posò e dimorò sull’agnello di Dio che toglie il peccato (1,12.13.16.29.32- 33). Adesso è alitato anche su di noi, perché continuiamo la sua opera di riconciliazione.
L’epoca dello Spirito, inaugurata nella carne di Gesù, prosegue in noi: la gloria del Figlio è trasmessa alla comunità dei fratelli.
Alla presenza del Risorto il sepolcro delle nostre paure si apre alla pace e alla gioia.
La Parola, diventata carne in Gesù e tornata Parola nel Vangelo, ora anima anche la nostra carne. La sua parola infatti è Spirito e vita (6,63). I discepoli, pur sapendo che il sepolcro è vuoto ed avendo ricevuto l’annuncio della Maddalena, non hanno ancora incontrato il Risorto. È necessario, ma non sufficiente, che qualcuno l’abbia visto e annunciato. Bisogna giungere all’incontro con lui. Il c. 20 rappresenta, in modo graduale, il cammino di Pasqua. E innanzi tutto un cercare Gesù nel sepolcro e trovano vuoto (v. 1), un contemplare i segni del suo corpo assente, vederne il significato e credere in lui e nelle sue parole (vv. 2-10); poi è un incontrarlo, abbracciarlo ed essere inviati ad annunciano (vv. 11-18). Ora c’è il suo ritorno definitivo con il dono dello Spirito, che ci fa creature nuove, capaci di amare come lui ha amato (vv. 19-23). Da «come» avviene l’incontro, si passa a vedere «cosa» avviene nell’incontro.
Senza questo dono restiamo ancora nel chiuso delle nostre paure. Il Pastore bello entra nel nostro sepolcro, ci mostra nelle mani e nel fianco i segni del suo amore e ci tira fuori dalla prigione. Il Crocifisso non è un fallito, sconfitto dal male: vincitore della morte, è realmente in mezzo a noi nella sua gloria. Ci mostra quelle ferite da cui sgorga la nostra salvezza. Sono le stesse che ci testimonia il Vangelo, perché anche noi le contempliamo e tocchiamo. In esse vediamo il Signore, da esse fluisce quella pace che trabocca in gioia. E questa gioia è la nostra risurrezione. Infatti la gioia del Signore è la nostra forza (cfr. Ne 8,10) per una vita nuova: ci fa uscire dalla tomba, ci comunica il «profumo» del Risorto e ci fa vivere del suo amore per noi.
In queste ferite scopriamo quanto Dio ha amato il mondo (3,16). In esse troviamo la nostra dimora e la nostra identità di figli: è l’amore del Padre che il Figlio ci ha donato. Ma l’amore è sempre «missione»; infatti è relazione, che manda la persona fuori di sé, verso l’altro. L’amore del Padre e del Figlio ci spinge verso i fratelli (cfr. 2Cor 5,14), perché anch’essi lo scoprano e lo accolgano. Allora Dio sarà tutto in tutti (cfr. 1Cor 15,28), come tutto e tutti da sempre sono in Dio.
Perché possiamo compiere questa missione, Gesù ci dona il suo soffio vitale: la vita di Dio diventa anche nostra. E lo Spirito nuovo, che ci toglie il cuore di pietra e ci dà un cuore di carne, capace di vivere secondo la parola di Dio e di «abitare» la terra (cfr. Ez 36,24ss). Questo Spirito fa rivivere le ossa aride (Ez 37,9ss) e ci fa conoscere il Signore: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri» (Ez 37,13). È quel soffio che Dio alitò nel vecchio Adamo (Gn 2,7) e che il nuovo Adamo ci consegnò dalla croce, facendo scaturire dal suo fianco sangue e acqua (19,30.34).
È lo Spirito del Figlio, che ci rende capaci di vivere da fratelli, vincendo il male con il bene (cfr. Rm 12,21). Per questo la missione dei discepoli consiste nel perdonare i peccati. Il perdono verso i fratelli realizza sulla terra l’amore del Padre. In questo modo la Chiesa, sacramento di salvezza per tutti, continua la missione dell’agnello di Dio che leva i peccati del mondo (1,29).
In questi racconti di risurrezione Gesù crea la sua comunità, primizia della creazione nuova. Il testo contiene allusioni eucaristiche, che saranno ampliate nel seguito del presente capitolo e nel successivo. Il luogo è il cenacolo, dove Gesù anticipò il dono di sé; il tempo è la sera, quando la comunità si riunisce per far memoria del suo Signore; il Vivente sta al centro, mostrando le ferite della sua passione; la pace e la gioia che ne scaturiscono sono il frutto dello Spirito, che abilita i discepoli alla loro missione di riconciliazione. Il corpo di Gesù, crocifisso e risorto, forma il corpo della Chiesa: è sorgente aperta in Gerusalemme, che lava peccati e impurità (Zc 13,1).
Pace a voi, dice Gesù: «Pace» (ebraico shalom) non è semplicemente il saluto abituale degli ebrei. Indica la pienezza di ogni benedizione messianica. È il dono di Gesù che dice: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (14,27), quella pace che il mondo non conosce. È la pace dell’amore che vince l’odio: «Abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo; ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo» (16,33).
Lo Spirito è consolatore
Visto che gli apostoli non ce la fanno, visto che manca loro energia e coraggio, idee e passione, Dio rifà la Creazione da capo.
L'esperienza della croce ha messo in luce il loro evidente limite, la loro inadeguatezza. Si sentono insicuri, si sentono incapaci. Sono fango.
E allora Dio prende il fango per creare una cosa nuova e il soffio, la ruah biblica, ora irrompe per dare vita, per ricreare, per forgiare santi.
Sono spaventati? Arriva la forza.
Sono insicuri e balbuzienti? La Parola li abita.
Sono divisi e diversi? La Pentecoste è l'antibabele e le nazioni si capiscono.
Sono oscurati dal proprio dolore? Lo Spirito è fuoco che scalda e illumina, come la colonna di fuoco che accompagna il popolo di fuga dalla schiavitù.
Sono rosi dal senso di colpa? Lo Spirito dona il perdono e la capacità di perdonare.
Ora sono pronti, ora sono discepoli.
Non per i loro meriti, non per le loro qualità, non perché sono "bravi cristiani", ma perché, infine, si lasciano abitare e devastare dalla forza di Dio.
In questo tempo, tempo della Chiesa, volto di Dio, tempo in cui siamo chiamati a rendere testimonianza al Signore, tempo della conversione alla gioia, aspettiamo il ritorno glorioso di Dio costruendo comunità.
Anche noi, come gli apostoli, dubitiamo. Per questo il Signore ci dona lo Spirito Santo, primo dono ai credenti, per essere resi capaci di quest'incarico di testimonianza, per diventare finalmente adulti.
Lo Spirito Santo è il grande dimenticato della nostra vita di fede e della nostra preghiera, il grande assente. Difficile da descrivere, difficile da immaginare (colomba? Fiammelle? Uhm...), dimenticandolo, rischiamo di ignorare l'essenziale della vita spirituale. Vita spirituale, cioè: vita nello Spirito Santo, dimensione essenziale per incontrare Dio.
Fatichiamo a capire la Parola? Manca lo Spirito che l'ha ispirata. Non ci spieghiamo quando parliamo? Manca lo Spirito che crea sintonia tra le persone. Abbiamo sentito – improvviso – il soffio di Dio nella nostra vita? Era lo Spirito creatore, che ancora plana sulle acque informi della Creazione e suscita la vita. Non riusciamo a perdonare? Accogliamo lo Spirito che ci rende capaci di perdonare e creare nuovi rapporti...
Ci vuole una presenza interna, intelligente e sottile, che ci permette di scrutare nel profondo la nostra vita, per potere scoprire Dio. O cambiano le cose intorno a noi, o cambia il nostro modo di vederle: perciò Gesù ci dona lo Spirito Santo.
Lo Spirito è presenza d'amore della Trinità, primo dono che Gesù fa agli apostoli, viene nominato con rispetto e con titoli straordinari da Gesù: "Vivificatore", "Consolatore", "Ricordatore", "Paraclito", invocato con tenerezza e forza dai nostri fratelli cristiani d'oriente.
Senza lo Spirito saremmo morti, esanimi, spenti, non credenti, tristi.
Esagero? No, è che lo Spirito, così discreto, così impalpabile, indescrivibile, è la chiave di volta della nostra fede, ciò che unisce tutto.
Siamo soli? Abbiamo l'impressione che la nostra vita sia una barca che fa acqua da tutte le parti? Ci sentiamo incompresi o feriti? Invochiamo lo Spirito che è Consolatore, e fa compagnia a chi è solo.
Ascoltiamo la Parola ma fatichiamo a credere, a fare il salto definitivo? Invochiamo lo Spirito che è Vivificatore, e rende la nostra fede schietta e vivace come quella dei grandi santi.
Facciamo fatica a iniettare Gesù nelle vene della nostra quotidianità, preferendo tenerlo in uno scaffale bello stirato da tirare fuori alla domenica? Invochiamo lo Spirito che ci ricorda ciò che Gesù ha fatto per noi.
Abbiamo l'impressione che la vita ci condanni? Sentiamo di essere messi all'angolo dal giudizio degli altri? Invochiamo il Paraclito, l'avvocato difensore (In Israele quando un accusato non riusciva a dimostrare la propria innocenza in tribunale, un anziano poteva decidere di alzarsi e mettere la mano sulla sua spalle, dimostrando così di credergli: era il paraclito).
Allora tutto si trasformerà. Tutto acquisterà un altro valore, un altro modo di vedere le cose.
Allora preghiamolo, invochiamolo… perché vi assicuro non è tempo perso il tempo dedicato ad invocarlo, a supplicarlo, a fargli vedere che lo aspettiamo.
Che entri lo Spirito, cha faccia violenza, che scardini tutte le nostre scuse e le nostre porte chiuse a doppia mandata. Che mandi in frantumi le nostre (finte) difese per risvegliare in noi l'ardore e il desiderio di amare!
Ne abbiamo un bisogno, urgente, ci è indispensabile, perché è lo Spirito che ci cambia il cuore, che lo riempie, che ravviva la nostra fede.
È un testo densissimo, quello di oggi, che fa da raccordo tra l’ora del Figlio e quella dei fratelli, tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa.
Protagonista è sempre lo Spirito. All’inizio si posò e dimorò sull’agnello di Dio che toglie il peccato (1,12.13.16.29.32- 33). Adesso è alitato anche su di noi, perché continuiamo la sua opera di riconciliazione.
L’epoca dello Spirito, inaugurata nella carne di Gesù, prosegue in noi: la gloria del Figlio è trasmessa alla comunità dei fratelli.
Alla presenza del Risorto il sepolcro delle nostre paure si apre alla pace e alla gioia.
La Parola, diventata carne in Gesù e tornata Parola nel Vangelo, ora anima anche la nostra carne. La sua parola infatti è Spirito e vita (6,63). I discepoli, pur sapendo che il sepolcro è vuoto ed avendo ricevuto l’annuncio della Maddalena, non hanno ancora incontrato il Risorto. È necessario, ma non sufficiente, che qualcuno l’abbia visto e annunciato. Bisogna giungere all’incontro con lui. Il c. 20 rappresenta, in modo graduale, il cammino di Pasqua. E innanzi tutto un cercare Gesù nel sepolcro e trovano vuoto (v. 1), un contemplare i segni del suo corpo assente, vederne il significato e credere in lui e nelle sue parole (vv. 2-10); poi è un incontrarlo, abbracciarlo ed essere inviati ad annunciano (vv. 11-18). Ora c’è il suo ritorno definitivo con il dono dello Spirito, che ci fa creature nuove, capaci di amare come lui ha amato (vv. 19-23). Da «come» avviene l’incontro, si passa a vedere «cosa» avviene nell’incontro.
Senza questo dono restiamo ancora nel chiuso delle nostre paure. Il Pastore bello entra nel nostro sepolcro, ci mostra nelle mani e nel fianco i segni del suo amore e ci tira fuori dalla prigione. Il Crocifisso non è un fallito, sconfitto dal male: vincitore della morte, è realmente in mezzo a noi nella sua gloria. Ci mostra quelle ferite da cui sgorga la nostra salvezza. Sono le stesse che ci testimonia il Vangelo, perché anche noi le contempliamo e tocchiamo. In esse vediamo il Signore, da esse fluisce quella pace che trabocca in gioia. E questa gioia è la nostra risurrezione. Infatti la gioia del Signore è la nostra forza (cfr. Ne 8,10) per una vita nuova: ci fa uscire dalla tomba, ci comunica il «profumo» del Risorto e ci fa vivere del suo amore per noi.
In queste ferite scopriamo quanto Dio ha amato il mondo (3,16). In esse troviamo la nostra dimora e la nostra identità di figli: è l’amore del Padre che il Figlio ci ha donato. Ma l’amore è sempre «missione»; infatti è relazione, che manda la persona fuori di sé, verso l’altro. L’amore del Padre e del Figlio ci spinge verso i fratelli (cfr. 2Cor 5,14), perché anch’essi lo scoprano e lo accolgano. Allora Dio sarà tutto in tutti (cfr. 1Cor 15,28), come tutto e tutti da sempre sono in Dio.
Perché possiamo compiere questa missione, Gesù ci dona il suo soffio vitale: la vita di Dio diventa anche nostra. E lo Spirito nuovo, che ci toglie il cuore di pietra e ci dà un cuore di carne, capace di vivere secondo la parola di Dio e di «abitare» la terra (cfr. Ez 36,24ss). Questo Spirito fa rivivere le ossa aride (Ez 37,9ss) e ci fa conoscere il Signore: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri» (Ez 37,13). È quel soffio che Dio alitò nel vecchio Adamo (Gn 2,7) e che il nuovo Adamo ci consegnò dalla croce, facendo scaturire dal suo fianco sangue e acqua (19,30.34).
È lo Spirito del Figlio, che ci rende capaci di vivere da fratelli, vincendo il male con il bene (cfr. Rm 12,21). Per questo la missione dei discepoli consiste nel perdonare i peccati. Il perdono verso i fratelli realizza sulla terra l’amore del Padre. In questo modo la Chiesa, sacramento di salvezza per tutti, continua la missione dell’agnello di Dio che leva i peccati del mondo (1,29).
In questi racconti di risurrezione Gesù crea la sua comunità, primizia della creazione nuova. Il testo contiene allusioni eucaristiche, che saranno ampliate nel seguito del presente capitolo e nel successivo. Il luogo è il cenacolo, dove Gesù anticipò il dono di sé; il tempo è la sera, quando la comunità si riunisce per far memoria del suo Signore; il Vivente sta al centro, mostrando le ferite della sua passione; la pace e la gioia che ne scaturiscono sono il frutto dello Spirito, che abilita i discepoli alla loro missione di riconciliazione. Il corpo di Gesù, crocifisso e risorto, forma il corpo della Chiesa: è sorgente aperta in Gerusalemme, che lava peccati e impurità (Zc 13,1).
Pace a voi, dice Gesù: «Pace» (ebraico shalom) non è semplicemente il saluto abituale degli ebrei. Indica la pienezza di ogni benedizione messianica. È il dono di Gesù che dice: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (14,27), quella pace che il mondo non conosce. È la pace dell’amore che vince l’odio: «Abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo; ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo» (16,33).
Lo Spirito è consolatore
Visto che gli apostoli non ce la fanno, visto che manca loro energia e coraggio, idee e passione, Dio rifà la Creazione da capo.
L'esperienza della croce ha messo in luce il loro evidente limite, la loro inadeguatezza. Si sentono insicuri, si sentono incapaci. Sono fango.
E allora Dio prende il fango per creare una cosa nuova e il soffio, la ruah biblica, ora irrompe per dare vita, per ricreare, per forgiare santi.
Sono spaventati? Arriva la forza.
Sono insicuri e balbuzienti? La Parola li abita.
Sono divisi e diversi? La Pentecoste è l'antibabele e le nazioni si capiscono.
Sono oscurati dal proprio dolore? Lo Spirito è fuoco che scalda e illumina, come la colonna di fuoco che accompagna il popolo di fuga dalla schiavitù.
Sono rosi dal senso di colpa? Lo Spirito dona il perdono e la capacità di perdonare.
Ora sono pronti, ora sono discepoli.
Non per i loro meriti, non per le loro qualità, non perché sono "bravi cristiani", ma perché, infine, si lasciano abitare e devastare dalla forza di Dio.
In questo tempo, tempo della Chiesa, volto di Dio, tempo in cui siamo chiamati a rendere testimonianza al Signore, tempo della conversione alla gioia, aspettiamo il ritorno glorioso di Dio costruendo comunità.
Anche noi, come gli apostoli, dubitiamo. Per questo il Signore ci dona lo Spirito Santo, primo dono ai credenti, per essere resi capaci di quest'incarico di testimonianza, per diventare finalmente adulti.
Lo Spirito Santo è il grande dimenticato della nostra vita di fede e della nostra preghiera, il grande assente. Difficile da descrivere, difficile da immaginare (colomba? Fiammelle? Uhm...), dimenticandolo, rischiamo di ignorare l'essenziale della vita spirituale. Vita spirituale, cioè: vita nello Spirito Santo, dimensione essenziale per incontrare Dio.
Fatichiamo a capire la Parola? Manca lo Spirito che l'ha ispirata. Non ci spieghiamo quando parliamo? Manca lo Spirito che crea sintonia tra le persone. Abbiamo sentito – improvviso – il soffio di Dio nella nostra vita? Era lo Spirito creatore, che ancora plana sulle acque informi della Creazione e suscita la vita. Non riusciamo a perdonare? Accogliamo lo Spirito che ci rende capaci di perdonare e creare nuovi rapporti...
Ci vuole una presenza interna, intelligente e sottile, che ci permette di scrutare nel profondo la nostra vita, per potere scoprire Dio. O cambiano le cose intorno a noi, o cambia il nostro modo di vederle: perciò Gesù ci dona lo Spirito Santo.
Lo Spirito è presenza d'amore della Trinità, primo dono che Gesù fa agli apostoli, viene nominato con rispetto e con titoli straordinari da Gesù: "Vivificatore", "Consolatore", "Ricordatore", "Paraclito", invocato con tenerezza e forza dai nostri fratelli cristiani d'oriente.
Senza lo Spirito saremmo morti, esanimi, spenti, non credenti, tristi.
Esagero? No, è che lo Spirito, così discreto, così impalpabile, indescrivibile, è la chiave di volta della nostra fede, ciò che unisce tutto.
Siamo soli? Abbiamo l'impressione che la nostra vita sia una barca che fa acqua da tutte le parti? Ci sentiamo incompresi o feriti? Invochiamo lo Spirito che è Consolatore, e fa compagnia a chi è solo.
Ascoltiamo la Parola ma fatichiamo a credere, a fare il salto definitivo? Invochiamo lo Spirito che è Vivificatore, e rende la nostra fede schietta e vivace come quella dei grandi santi.
Facciamo fatica a iniettare Gesù nelle vene della nostra quotidianità, preferendo tenerlo in uno scaffale bello stirato da tirare fuori alla domenica? Invochiamo lo Spirito che ci ricorda ciò che Gesù ha fatto per noi.
Abbiamo l'impressione che la vita ci condanni? Sentiamo di essere messi all'angolo dal giudizio degli altri? Invochiamo il Paraclito, l'avvocato difensore (In Israele quando un accusato non riusciva a dimostrare la propria innocenza in tribunale, un anziano poteva decidere di alzarsi e mettere la mano sulla sua spalle, dimostrando così di credergli: era il paraclito).
Allora tutto si trasformerà. Tutto acquisterà un altro valore, un altro modo di vedere le cose.
Allora preghiamolo, invochiamolo… perché vi assicuro non è tempo perso il tempo dedicato ad invocarlo, a supplicarlo, a fargli vedere che lo aspettiamo.
Che entri lo Spirito, cha faccia violenza, che scardini tutte le nostre scuse e le nostre porte chiuse a doppia mandata. Che mandi in frantumi le nostre (finte) difese per risvegliare in noi l'ardore e il desiderio di amare!
Ne abbiamo un bisogno, urgente, ci è indispensabile, perché è lo Spirito che ci cambia il cuore, che lo riempie, che ravviva la nostra fede.
giovedì 1 maggio 2008
4 Maggio 2008 - Ascensione del Signore
“Viri Galilei, quid statis aspicientes in coelum?” O uomini di Galilea, perché state fissando il cielo? Perché vi preoccupate tanto? Quel Gesù che stava con voi, che vi parlava, che vi guidava, che vi dava fiducia, ora è stato assunto in cielo, si è ricongiunto con Dio Padre; ma non temete, egli ritornerà ancora tra voi… sic veniet, così ritornerà… ed è vero come è vero che voi ora l’avete visto salire in cielo.
È una promessa. Una promessa che per noi è certezza.
L'Ascensione unisce due momenti determinanti della storia della salvezza: termina l'azione storica del Cristo e inizia il cammino terreno della Chiesa.
Con l'Ascensione finisce un'epoca, un momento, una storia. La storia dell'uomo Gesù, del suo aspetto, del suo sorriso, del suo sguardo profondo. Non potremo più sentire la sua voce che chiama per nome Tommaso e Maria, non ammireremo più la sua pazienza mentre dialoga animatamente con i due testoni di Emmaus. Neppure potremo più, commossi, guardare le passeggiate del Maestro per le strade di Israele, seguito dagli apostoli e dalle folle che credevano in lui.
Gesù, è tornato nella gloria del Padre, non è più da vedere, da toccare, ma da aspettare nella fede; da adorare in silenzio nella sua presenza eucaristica, da annunziare come proposta di una vita nuova, da testimoniare con la forza dello Spirito.
L'Assente dal mondo continua a farsi presente attraverso l'esperienza e la testimonianza di tutti noi, sua Chiesa, costruttori di una nuova storia con prospettive di eternità.
Su di noi grava la missione-dovere di "fare discepoli" di Cristo tutti i popoli. Non si tratta di chiacchiere, di parole, di prediche, di discorsi teologici, ma di vivere uno stile di vita contagioso, che parte dalla nostra esperienza battesimale e si arricchisce via via con il pane della Parola e dell'Eucaristia.
Le conseguenze di questo comportamento sono tante e urgenti: ognuno deve avere il coraggio, per quanto lo riguarda, di individuarle nella loro concretezza.
Su una cosa dobbiamo avere comunque le idee chiare: la salvezza di cui godiamo non è un bene nostro, esclusivo, ma appartiene a tutti. Per questo ognuno ha il dovere di essere in costante osmosi con il proprio fratello, perché, davvero, “ogni cristiano ha il mondo intero a suo carico!". Questo è credere nell’'Ascensione del Signore, Questo deve essere il nostro impegno.
Signore, tu mi lasci oggi, per tornare al Padre. Ma io non resto quaggiù, vengo con te, perché nel tuo cuore di uomo tu porti il mio volto, la mia storia, le mie speranze, tutto di me. Sono certo che tu continuerai a pronunciare il mio nome al Padre, e l’unione del vostro amore, lo Spirito, fortificherà la debolezza del mio cuore. Signore Gesù, per questo i miei occhi sono sempre pieni di te, e posso vederti e incontrarti ovunque, perché tu sei con me, dentro, senza più rischi di perdita. Amen...
Nella misura quindi in cui noi ascendiamo con il Signore, poniamo tutta la nostra vita con Lui nei cieli e questo è un atteggiamento che è perenne, continuo, che possiamo vivere ogni giorno. Cristo glorioso, di cui dobbiamo rivestirci, non ci trae fuori dalla storia, ma come ha fatto con i discepoli ci invita, più che il cielo, a guardare la terra per impegnarci in essa affinché si rivesta di una vita nuova, inaugurata dalla sua ascensione. Così la nostra ascensione non è dal mondo, ma col mondo. È immersione in tutte le realtà umane, fino ad aprirle oltre i limiti che le rinserrano, per vedere in esse quella luce che proviene da Dio che tanta parte del mondo vuole negare. È saper valorizzare tutte le cose, anche quelle che apparentemente non hanno valore o non fanno notizia, quelle piccole e magari dimenticate, per scorgere la presenza di Dio che si è unito all'uomo in maniera indissolubile. È riuscire a vedere che anche nei segni dell'eucaristia che celebriamo, rappresentati da un po' di pane e da un sorso di vino, simboli della vita e del lavoro dell'uomo si realizza quella promessa riportata dal vangelo di oggi: "Ecco io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo" (Mt 28,20). Una promessa che per noi cristiani diventa il dovere urgente dell'annuncio di cieli e terra nuovi per tutti gli uomini e per il mondo intero.
Ma c'è anche il dubbio di alcuni. Questo insinuarsi del dubbio è la povertà del nostro essere qui dei "viandanti" la cui certezza è riposta solo nella Parola di Chi, amandoci per primo, ci fa passare per la sua stessa strada che è la morte prima della Risurrezione, il buio prima della Luce in pienezza. Proprio qui, dunque, si tratta di afferrare, quasi in risposta a quell'ombra di dubbi, la Parola che salva. "Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine dei tempi". È qui, proprio solo qui, la luce che rassicura e ci strappa alla tristezza dell'"addio" e della depressione di ogni dipartita. Perché Gesù, in modo diverso da quando era in Palestina ma con potenza di Spirito Santo, è con noi. Lungo lo scorrere dei giorni basta "connettersi". Sì, connettersi credendo.
Ma tornerò da voi. Quando, verrebbe da dire? Alla fine dei tempi? E perché non prima, non ora che avverto cocente il bisogno di un abbraccio, di una parola, di un sorriso divino da vedere con gli occhi non solo del cuore, ma anche del volto? Gesù è con noi. Il suo Spirito che invierà dal Padre avrà una nuova carne da abitare, quella dei credenti. Ogni credente, abitato dallo Spirito, sarà il luogo della presenza di Dio nel mondo, un Cristo che mai più morirà perché lì dove tutto sa di miracolo lì è il Figlio fatto carne. I miracoli del mistero che ti sovrasta mentre parli e ti rendi conto che tra le sillabe mentre tu le pronunci passa la Vita, che tu non avevi messo prima... i miracoli dell'amore che ti incanta nei gesti che compi e che ti sembrano firmati da un sempre remoto... i miracoli del domani che sfiorano la tua pelle mentre riposi donandoti la percezione di essere eco dell'inenarrabile sussurro del tuo Signore.
È una promessa. Una promessa che per noi è certezza.
L'Ascensione unisce due momenti determinanti della storia della salvezza: termina l'azione storica del Cristo e inizia il cammino terreno della Chiesa.
Con l'Ascensione finisce un'epoca, un momento, una storia. La storia dell'uomo Gesù, del suo aspetto, del suo sorriso, del suo sguardo profondo. Non potremo più sentire la sua voce che chiama per nome Tommaso e Maria, non ammireremo più la sua pazienza mentre dialoga animatamente con i due testoni di Emmaus. Neppure potremo più, commossi, guardare le passeggiate del Maestro per le strade di Israele, seguito dagli apostoli e dalle folle che credevano in lui.
Gesù, è tornato nella gloria del Padre, non è più da vedere, da toccare, ma da aspettare nella fede; da adorare in silenzio nella sua presenza eucaristica, da annunziare come proposta di una vita nuova, da testimoniare con la forza dello Spirito.
L'Assente dal mondo continua a farsi presente attraverso l'esperienza e la testimonianza di tutti noi, sua Chiesa, costruttori di una nuova storia con prospettive di eternità.
Su di noi grava la missione-dovere di "fare discepoli" di Cristo tutti i popoli. Non si tratta di chiacchiere, di parole, di prediche, di discorsi teologici, ma di vivere uno stile di vita contagioso, che parte dalla nostra esperienza battesimale e si arricchisce via via con il pane della Parola e dell'Eucaristia.
Le conseguenze di questo comportamento sono tante e urgenti: ognuno deve avere il coraggio, per quanto lo riguarda, di individuarle nella loro concretezza.
Su una cosa dobbiamo avere comunque le idee chiare: la salvezza di cui godiamo non è un bene nostro, esclusivo, ma appartiene a tutti. Per questo ognuno ha il dovere di essere in costante osmosi con il proprio fratello, perché, davvero, “ogni cristiano ha il mondo intero a suo carico!". Questo è credere nell’'Ascensione del Signore, Questo deve essere il nostro impegno.
Signore, tu mi lasci oggi, per tornare al Padre. Ma io non resto quaggiù, vengo con te, perché nel tuo cuore di uomo tu porti il mio volto, la mia storia, le mie speranze, tutto di me. Sono certo che tu continuerai a pronunciare il mio nome al Padre, e l’unione del vostro amore, lo Spirito, fortificherà la debolezza del mio cuore. Signore Gesù, per questo i miei occhi sono sempre pieni di te, e posso vederti e incontrarti ovunque, perché tu sei con me, dentro, senza più rischi di perdita. Amen...
Nella misura quindi in cui noi ascendiamo con il Signore, poniamo tutta la nostra vita con Lui nei cieli e questo è un atteggiamento che è perenne, continuo, che possiamo vivere ogni giorno. Cristo glorioso, di cui dobbiamo rivestirci, non ci trae fuori dalla storia, ma come ha fatto con i discepoli ci invita, più che il cielo, a guardare la terra per impegnarci in essa affinché si rivesta di una vita nuova, inaugurata dalla sua ascensione. Così la nostra ascensione non è dal mondo, ma col mondo. È immersione in tutte le realtà umane, fino ad aprirle oltre i limiti che le rinserrano, per vedere in esse quella luce che proviene da Dio che tanta parte del mondo vuole negare. È saper valorizzare tutte le cose, anche quelle che apparentemente non hanno valore o non fanno notizia, quelle piccole e magari dimenticate, per scorgere la presenza di Dio che si è unito all'uomo in maniera indissolubile. È riuscire a vedere che anche nei segni dell'eucaristia che celebriamo, rappresentati da un po' di pane e da un sorso di vino, simboli della vita e del lavoro dell'uomo si realizza quella promessa riportata dal vangelo di oggi: "Ecco io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo" (Mt 28,20). Una promessa che per noi cristiani diventa il dovere urgente dell'annuncio di cieli e terra nuovi per tutti gli uomini e per il mondo intero.
Ma c'è anche il dubbio di alcuni. Questo insinuarsi del dubbio è la povertà del nostro essere qui dei "viandanti" la cui certezza è riposta solo nella Parola di Chi, amandoci per primo, ci fa passare per la sua stessa strada che è la morte prima della Risurrezione, il buio prima della Luce in pienezza. Proprio qui, dunque, si tratta di afferrare, quasi in risposta a quell'ombra di dubbi, la Parola che salva. "Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine dei tempi". È qui, proprio solo qui, la luce che rassicura e ci strappa alla tristezza dell'"addio" e della depressione di ogni dipartita. Perché Gesù, in modo diverso da quando era in Palestina ma con potenza di Spirito Santo, è con noi. Lungo lo scorrere dei giorni basta "connettersi". Sì, connettersi credendo.
Ma tornerò da voi. Quando, verrebbe da dire? Alla fine dei tempi? E perché non prima, non ora che avverto cocente il bisogno di un abbraccio, di una parola, di un sorriso divino da vedere con gli occhi non solo del cuore, ma anche del volto? Gesù è con noi. Il suo Spirito che invierà dal Padre avrà una nuova carne da abitare, quella dei credenti. Ogni credente, abitato dallo Spirito, sarà il luogo della presenza di Dio nel mondo, un Cristo che mai più morirà perché lì dove tutto sa di miracolo lì è il Figlio fatto carne. I miracoli del mistero che ti sovrasta mentre parli e ti rendi conto che tra le sillabe mentre tu le pronunci passa la Vita, che tu non avevi messo prima... i miracoli dell'amore che ti incanta nei gesti che compi e che ti sembrano firmati da un sempre remoto... i miracoli del domani che sfiorano la tua pelle mentre riposi donandoti la percezione di essere eco dell'inenarrabile sussurro del tuo Signore.
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