“Resta con noi, Signore, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (Lc 24,13-35).
Dopo la sconvolgente esperienza di Maria di Magdala e la corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro, dopo il misterioso ingresso del Signore risorto nel cenacolo, dopo aver tranquillizzato i suoi e aver donato loro la pace, in quello stesso giorno dopo il sabato, Gesù risorto, non più soggetto a condizionamenti spazio temporali, raggiunge due discepoli, che lo avevano seguito fino a Gerusalemme, in cammino verso Emmaus.
Tornano a casa loro, scappano da quella città “maledetta” che uccide i profeti. Sono tristi, pensierosi, commentano a bassa voce le ultime tragiche vicende, si lamentano, si caricano a vicenda. La tristezza è palpabile, la delusione e l’amarezza sono profonde, insostenibili, terribili, arrivando a mettere in discussione l’operato di Dio.
Gesù si avvicina e cammina con loro. Ma essi non lo riconoscono; del resto, come potrebbero? Non si rialzano da loro stessi, dalla loro sofferenza, e non possono quindi incrociare lo sguardo amoroso del Signore. Sono talmente pieni del loro “sacrosanto” dolore da non accorgersi che non c’è più alcun motivo per essere tristi. Sono totalmente incapaci di uscire dalla spirale vorticosa di quel nulla in cui sono precipitati dopo la scomparsa del loro maestro, da non accorgersi che Egli è lì, al loro fianco.
Uno stato d’animo che anche noi sperimentiamo molto spesso: quante volte ci sentiamo depressi, ci lamentiamo di tutto e di tutti, niente ci sta bene: invecchiando poi, non sopportiamo più nulla; perfino le chiacchierate tra amici, lo scambio delle proprie impressioni, l’amabile conversare del nulla, la vacuità del dire: tutte cose che ci irritano; nulla ci soddisfa. Con Dio, poi, è un disastro. Diventiamo pretenziosi, irriverenti, quasi insolenti. E Lui, di fronte alla nostra idiozia, al nostro vuoto assordante, tace paziente. Tace suo malgrado, perché Dio ama discutere con noi; egli è il moderatore, vuole che riflettiamo, che cerchiamo, che ci documentiamo. Egli, rispettoso e discreto, ci considera capaci di conoscere, di arrivare a conclusioni ragionevoli e positive; ci chiede di essere audaci nell’interrogarci. Non vuole dei cristiani beoti: vuole gente convinta, battagliera. Ma noi ─ non appena egli si mette al nostro fianco lungo il percorso della vita, quando con tutta la sua amorevolezza cerca di farci capire che in fondo il nostro dolore non è poi così insuperabile ─ diventiamo immediatamente ombrosi, insofferenti; ci offendiamo: “ma come si permette Dio di mettere in discussione il nostro dolore? Che ne sa lui della nostra situazione attuale? Delle nostre preoccupazioni, dei nostri problemi? Che ne sa lui delle condizioni in cui siamo costretti a vivere oggi? della disoccupazione, della difficoltà di arrivare a fine mese, del tirare su dei figli, della situazione internazionale, della pandemia, delle guerre, del terrorismo, della crisi economica, della fame, del malcostume generale che ci fagocita? Perché mai vuole scuoterci da questo nostro dolore? In fin dei conti il dolore ci rassicura, ci dona identità, ci identifica, e in questo nostro percorso di autodistruzione folle, finiamo col costruirci una nuova identità. Finiamo col coltivare il dolore per sé stesso: “Ho perso un figlio. Sono un infartuato. Ho il cancro. Mio marito, mia moglie mi ha lasciato...”. Il dolore diventa il nostro segno di riconoscimento, ci esibiamo nel nostro “dolore”, vogliamo che ci riconoscano così, compiacendoci scioccamente di inutili cenni di benevolenza, di compassione, di condivisione. Ma siamo degli illusi. Il dolore non deve ridursi ad un fenomeno da baraccone, non è una maschera da indossare per ottenere ammirazione e consensi: il dolore vero nasce dalla constatazione della nostra precarietà, della nostra fragilità, dall’esperienza di essere un nulla. È la via per arrivare a capire che Uno solo può consolarci veramente, Uno solo può offrirci motivi validi per risorgere dalla nostra depressione, dalla nostra fragilità di creature: è il nostro Creatore, Colui che conosce perfettamente il nostro cuore, la nostra anima, Colui che fin dal primo istante di vita ci ha amati fino all’inverosimile.
“Cosa è successo?” Chiede il risorto ai due. “È mai possibile – essi pensano - che questo intruso sia tanto svanito da non conoscere, almeno per sentito dire, quel che è successo a Gerusalemme?
Sono frastornati, offesi; e ne hanno veramente motivo, essendo rimasti improvvisamente orfani della loro guida, della loro unica speranza di miglioramento. E gli rispondono parlando della passione, della croce, della morte di Gesù: ma nulla. Lui, che li ha affiancati, sembra non ricordarsene; Lui che ha affrontato personalmente tutto questo, sembra non sapere nulla.
“Noi speravamo che fosse Lui il liberatore di Israele”: rispondono. Parole che rivelano la loro profonda frustrazione! “Noi speravamo”: solo che la speranza si riferisce sempre ad un futuro, mai declinarla al passato come fanno loro, perché così significa ammettere un totale fallimento. Nella vita è sempre difficile accettare la fine di qualcosa: ma il fallimento della speranza è addirittura tragico, perché con la delusione, causa inevitabilmente la morte interiore. La delusione è la punta estrema del fallimento di ogni prospettiva: è un dolore sordo, che suscita rabbia, che aggiunge alla sofferenza il sospetto di essere stati ingannati; un dolore che ci destabilizza, che mette in dubbio l’efficacia di ogni nuovo progetto, che ci impedisce di riprendere coraggio, confinati tra cocenti delusioni, speranze abbandonate, sofferenze dell’anima insopportabili. Eppure lì, proprio nel più profondo all’anima, alla soglia dello smarrimento finale, Dio ci aspetta con tutto il suo amore: è lì per ascoltarci, per soccorrerci, per rimetterci in piedi e camminare insieme a noi.
“Noi speravamo” insistono i discepoli: “ma siamo stati proprio degli stupidi a voler seguire il Nazareno, a credere che fosse lui il Messia! Che ingenui!”. “Noi speravamo: ma ci siamo illusi, siamo stati degli idioti abissali, non abbiamo giustificazioni! La nostra speranza è morta su quella maledetta croce. È morta e sepolta con Gesù, nel suo sepolcro”.
Ebbene: quanti ne abbiamo conosciuti di discepoli come questi, tristi e rassegnati! “Noi speravamo”, continuano a ripetersi. E non si accorgono che il Signore, creduto morto, cammina con loro.
I due si aspettano comprensione da questo compagno occasionale: si aspettano compassione, condivisione. Ottengono invece un sonoro schiaffone: “Stolti e tardi di comprendonio”, dice loro Gesù: “Stupidi, ignoranti!”. La sua è una evidente provocazione: vuole scuoterli, costringerli ad alzare lo sguardo, a guardare avanti. Dobbiamo infatti capire, loro come noi, che non sempre chi ci dà una carezza ci vuole bene, e non sempre chi ci dà uno schiaffo ci vuole male. A volte nella vita un energico scossone ci distoglie dalla sofferenza, dall’autocommiserazione, e ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa, in una prospettiva nuova, più costruttiva.
Essi si scuotono, è vero, ma continuano a non capire: “cosa sta dicendo questo sconosciuto? Come si permette?”. “Sciocchi e incapaci di capire le Scritture”, insiste lui. E giù a spiegare il senso di quella sofferenza, della Sua sofferenza, della Sua passione e morte, aiutandoli a rileggere gli ultimi eventi in una chiave diversa, più ampia, a leggere il dolore alla luce del grande disegno di Dio. I discepoli del risorto, non possono, non devono fermarsi alla croce, alla morte!
Le parole del vangelo di Luca sono qui taglienti, quasi insostenibili: il problema, il problema vero, non è l’assenza di Dio, il fatto che Dio improvvisamente sia mancato al nostro sguardo, ma la nostra incapacità di riconoscerlo, la nostra tragica miopia. Siamo tutti talmente concentrati su noi stessi, sui nostri problemi, da non essere in grado di riconoscerlo neppure quando ci cammina accanto, quando ci aiuta ad attraversare la strada, ad evitare le buche e i pericoli del percorso. Egli è costantemente con noi; cammina sempre al nostro fianco: e ci spiega pazientemente l’incomprensibile: ossia come Dio abbia accettato di cambiare, di adeguarsi, di abbandonare la rassicurante eternità, la perfetta autosufficienza, l’immobilità beata, per sporcarsi le mani con noi; per questo Egli cammina, per questo si è messo in viaggio, un viaggio lunghissimo: dall’eterno al finito, dall’essere Dio al diventare uomo, dalla perfezione assoluta all’incarnazione. E tutto ciò per amore, soltanto per amore. Dio non è un macigno granitico, immobile e compatto, ma soffre, cambia idea, decide. Ama e, si sa, l’amore è sempre in movimento; e l’amore chiede sempre sofferenza.
Gesù dunque spiega loro le Scritture, apre loro l’intelligenza; e, attraverso la Parola, essi possono finalmente capire cosa è veramente successo...
È un momento di grande tensione, questo: i due ─ pur essendo stati amabilmente insultati ─ ascoltano col fiato sospeso. Non fanno gli offesi, anzi... percepiscono che questo tale li sta aiutando ad interpretare gli eventi, a capirli in profondità. Il cuore di questi tiepidi discepoli finalmente si scalda. Poi il tepore divampa, e diventa fuoco incontenibile.
Lo conosciamo sicuramente anche noi questo fenomeno: la Parola meditata si insinua dentro di noi, ci inquieta, ci apre, ci obbliga alla verità. E più troviamo argomenti contrari a questa verità che avanza, più i nostri incrollabili pregiudizi vacillano, scricchiolano, finché alla fine dobbiamo arrenderci! Il nostro dolore, che paradossalmente ci gratificava, viene spazzato via dalla Parola che ci riscalda e illumina. Allora tutto acquista senso, tutto acquista una nuova dimensione. La nostra vita, riletta alla luce del grande progetto di Dio, assume un valore completamente diverso. È come se Gesù ci dicesse: “Non cercatemi nei fatti straordinari. Non inseguite continuamente ciò che sembra magico e miracoloso, perché non mi trovereste. Cercatemi piuttosto lungo i percorsi quotidiani, nei gesti elementari, nelle piccole cose. Fermiamoci insieme sulle Scritture, figli miei; fidatevi della mia Parola, non di quelle degli uomini... a volte forse non succederà niente, ma a volte sentirete un turbamento profondo, un ardore improvviso che infiammerà il vostro cuore. Ebbene, quel turbamento sono io a crearlo, perché sono io che parlo nel vostro cuore”.
È così che Gesù ci educa; è così che ci insegna a non rivolgere la nostra fede allo stupore dei miracoli, ma al fascino che nasce da ogni parola e da ogni gesto che trasmette un messaggio d’amore. Egli allude proprio a questo quando, alla nostra richiesta di restare con noi, ci mette in condizione di superare ogni tristezza, ogni solitudine, il vuoto, la delusione...
Arrivati intanto al villaggio, Gesù con un sorriso saluta i discepoli. Ma essi, ancora incerti e impauriti, vengono presi nuovamente dal panico: “Come, te ne vai già? Resta con noi, è buio, fermati!”. E il Signore si ferma, resta con loro. Si ferma e resta con noi: Egli non ci abbandona, si ferma eccome! Perché è Lui che vuole “fermarsi”, è Lui che vuole “restare con noi”: è sufficiente che noi glielo chiediamo!
E Gesù entra con loro: al nostro invito, Egli entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati.
E
Gesù entra con loro: al nostro invito, Egli entra con ciascuno di noi:
entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle
nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati. “Mane nobiscum Domine,
quoniam advesperascit, et inclinata est iam dies ─ Rimani con noi Signore, perché si fa sera e il giorno sta
per finire!”. No, Signore, non così, non andartene!
Non lasciarci mai soli, Signore, soprattutto ora, quando il giorno della nostra
vita sta per concludersi!
Ed è qui, all’interno, che avviene il miracolo: durante la cena, allo
spezzar del pane, gli occhi dei due finalmente si aprono, e lo riconoscono! “Ma
egli sparì dalla loro vista”. Ed è qui,
all’interno, che avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane,
gli occhi dei due finalmente si aprono, e lo riconoscono! “Ma
egli sparì dalla loro vista”. Ma il Signore non se ne va: non lo vediamo, ma Lui è sempre qui, non può abbandonarci, non può lasciarci soli, mai! Lo ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Cristo risorto, vivo, continua pazientemente a camminare a fianco di ogni uomo, gli parla con la sua Parola, si dona a lui nell’Eucaristia, lo nutre, lo illumina, lo guida attraverso tutte le Emmaus del mondo, verso quella salvezza che non conosce più “tramonti”, perché illuminata perennemente dalla luce del mattino di Pasqua, l’unica luce che non scomparirà mai. Amen.