«In quel tempo, Gesù disse ai
suoi discepoli: Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il
momento…» (Mc 13, 33-37).
L’avvento
è il tempo liturgico che ci prepara al natale. È l’attesa di Gesù che deve
venire.
A noi,
quando parlano di attesa, di arrivo, capita che la prima cosa cui pensiamo sia l’autobus,
o il treno, o l’aereo: siamo lì, aspettiamo il mezzo di trasporto che ci viene
a prelevare: quello arriva, noi saliamo su, ci sediamo tranquilli, ci leggiamo
il giornale o sonnecchiamo fino all’arrivo. Nessun problema per quest’attesa;
nessun problema per questo arrivo. È un’occasione per lasciarci cullare tranquillamente,
senza problemi, dalla vita.
Ma l’Avvento
non è questo. Nei vangeli non è mai così: la venuta di Dio è sempre sconvolgente,
destabilizzante: è sempre un’avventura! Quando Dio viene, Lui chiama a qualcosa
di impossibile. Impossibile perché puntualmente, quando arriva il momento dell’arrivo,
dobbiamo ancora farlo, dobbiamo ancora partire.
Dio
viene e passa, ma non viene mai come noi ce l’aspettiamo o come noi vorremmo. A
fatica lo riconosciamo, non ha un volto qualunque, ma ha un “portamento” che
non conosciamo, che non sappiamo, che non ci aspettiamo.
Saremo
particolarmente all’erta per riconoscerlo? Avremo il coraggio di tenere costantemente
la porta aperta per accoglierlo?
Non
conosciamo l’ora, il momento; praticamente non conosciamo quando è “tempo”: però
qui Marco usa la parola kairos (Mc 13,33): non conosciamo cioè quando
sarà il tempo propizio, il tempo favorevole, ben diverso dal chronos, che è il tempo dell’orologio:
quello passa e basta: passa comunque, sia che siamo pronti o no. Natale verrà e
questo è certo: sarà il 25 di dicembre. Ma per noi sarà per davvero un Natale “propizio, favorevole, preparato”(kairos), oppure sarà soltanto una festa
del calendario (chronos)? Cristo viene
per davvero: ma noi ci saremo? Saremo in grado di accoglierlo? Sapremo accettare
la sua visita? Sapremo riconoscerlo? Sapremo dirgli: “Ti accoglierò in
qualunque modo tu verrai!”?
Il
vangelo inizia infatti dicendo: “State
attenti, vegliate, vigilate”. Tre verbi che in sostanza sottolineano la
stessa cosa: che non dobbiamo dormire, non dobbiamo addormentarci, dobbiamo essere
svegli e desti.
Il
messaggio è semplice e non ammette dubbi: “non addormentarti, rimani desto,
rimani sveglio”. Perché se dormi, quando ti sveglierai, scoprirai che la realtà
non è quella che tu pensavi, o quella che ti eri faticosamente costruito o
nascosto.
La
gente in genere non vuole verità, non vuole essere svegliata; la gente vuole
dormire.
Quando
facciamo “gli addormentati” diciamo: “È così, non possiamo farci nulla; siamo
dentro al sistema”. Sveglia! Non è vero! Il fatto è che se ci svegliamo, dobbiamo
prendere in mano la nostra vita e riconoscere che il come vivere dipende solo da noi. Oppure quando diciamo: “Tu sei la
mia felicità!” pensando magari che soltanto quando troveremo l’uomo o la donna
giusti saremo veramente felici, svegliamoci, non è vero. Se non siamo felici “dentro”
di noi, non lo saremo mai!
Oppure:
“Io non valgo nulla”. Sveglia, non è vero. Perché il giorno in cui lo scopriremo
sul serio, non potremo più colpevolizzare gli altri e fingere dicendo: “guardate
quanto sono sfortunato!”.
Oppure:
“Io sono buono”. Sveglia, non è vero. Siamo buoni perché non ci conosciamo e
non ci guardiamo dentro. Siamo buoni perché vogliamo ritenerci superiori,
migliori degli altri e poi magari giudicarli. “Nessuno è buono, se non Dio solo”, ha detto Gesù (Mc 10,18).
Oppure:
“Non possiamo farci niente”. Sveglia! Non è vero: è che è difficile mettersi in
gioco in prima persona ed esporsi; è che è più comodo dire così, piuttosto che
sporcarsi le mani.
Oppure:
“Quando avrò ottenuto quella cosa, allora finalmente sarò felice”. Sveglia, non
è così. Se pensiamo che siano le cose o le persone a farci felici, non saremo
mai felici. La felicità non è un fine ma la conseguenza di una vita soddisfacente,
significativa, realizzata, piena d’amore.
Il
Natale è questo: prenderci cura della nostra dimensione interiore, di
ciò che siamo, di ciò che abbiamo dentro.
Perché,
immersi nella vita di tutti i giorni, rischiamo di perderci. Ci alziamo, facciamo
colazione, portiamo i figli a scuola, andiamo a lavorare, lavoriamo sodo tutto
il giorno; riprendiamo i figli e torniamo a casa. A casa poi si apre un’altra
giornata: laviamo, stiriamo, sistemiamo, facciamo la spesa, prepariamo da
mangiare, telefoniamo ai nostri “vecchi”, controlliamo i compiti dei figli,
ecc. E poi: paghiamo le tasse, controlliamo il conto corrente, ci interessiamo
dei problemi condominiali, stiamo attenti che non ci “imbroglino” con le
bollette, con i conti della spesa ecc. La vita sembra una corsa, una guerra, un
fare fare, ecc. E questo ogni giorno. E se non stiamo attenti, ci addormentiamo,
dall’essere passiamo al fare: e quando vendiamo l’essere per il fare, per il
materiale... allora il sonno è profondo.
Quando per interesse non guardiamo in faccia nessuno... allora è sonno
profondo. Quando le persone possono essere spostate, trattate, usate, come
pacchi-oggetto (chiamiamole pure ristrutturazioni di società!), senza tener
conto che sono esseri umani... allora è sonno profondo. Quando non ci interessa
nulla della natura e inquiniamo, sporchiamo, distruggiamo, credendo che tutto
il mondo sia nostro o che “non è niente” e neppure ci accorgiamo che anche
quella è vita al pari della mia... allora è sonno profondo. Quando per divertirci,
per trovare complicità, “sparliamo” della gente, magari senza sapere... è sonno
profondo. Quando il lavoro viene prima dei figli e della moglie o quando i
lavori di casa vengono prima delle carezze, dei baci, del ridere, dello
scherzare e della complicità... è sonno profondo. Quando una regola viene
applicata perché è una regola e non si tiene conto della sofferenza, dei bisogni,
della diversità, del dolore che si arreca all’altro... allora è sonno profondo.
Quando ci stordiamo davanti alla tv, al computer, allo smartphone, con mille chat
e mille parole, pur di non entrare in contatto con noi stessi, con ciò che abbiamo
dentro, con le nostre paure... allora è sonno profondo. Quando per sicurezza,
per non andare in crisi, per non crearci problemi, evitiamo di farci certe
domande, o evitiamo certe verità per non metterci in confusione... allora è
sonno profondo.
Dal
sonno profondo o ci si sveglia o si muore. Terribile è vivere una vita
dormendo.
Svegliarsi significa accettare di vedere quella
realtà che prima non vedevamo (o non volevamo vedere). Svegliarsi è accettare
che la verità che credevamo di vedere, non è la verità: svegliarsi non è mai piacevole,
ma è vivere la Vita.
Amen.
«Quando il Figlio dell’uomo
verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua
gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni
dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore
alla sua destra e le capre alla sinistra» (Mt 25,31-46).
La
parabola di oggi, conosciuta come “Il
giudizio finale” viene vista sempre negativamente, in un modo tragico: Dio giudice
esigente e fiscale che controlla tutto, che annota tutte le nostre azioni in un
grande libro dei conti e che, alla fine della nostra vita, tira le somme: se le
azioni cattive superano quelle buone, castigo eterno. Se, invece, risulta il
contrario, premio eterno.
Un
tempo la Chiesa metteva in risalto questa idea di Dio, giudice intransigente: “iudex ergo cum sedebit, quidquid latet
apparebit”: quando il Giudice prenderà posto nel giorno dell’ira (“dies irae”), tutto ciò che abbiamo
tenuto nascosto verrà reso pubblico…”. Non abbiamo scampo: un’idea molto
diffusa, che portava a dipingere nelle Chiese un grande occhio di Dio
all’interno di un triangolo, che era la Trinità: “l’occhio di Dio ti controlla,
vede e sa tutto, stai attento!”.
Ma un
Dio così non è esattamente il Dio evangelico, il Dio che Gesù ci ha insegnato
ad amare e a pregare. Non dobbiamo fermarci a certe interpretazioni, talvolta
sono fuorvianti.
La
parabola inizia dicendo: “Quando il
Figlio dell’Uomo verrà”: Gesù, quando parla di sé, usa sempre questo
termine: “Il Figlio dell’Uomo”. Un titolo che pochissimi autori sacri attribuiscono
a Gesù: ed è strano, singolare, visto che Lui si identifica sempre in questo
modo!
Cosa
vuol dire Figlio dell’Uomo? Il Figlio dell’Uomo è l’uomo che ha realizzato in
sé il progetto di Dio, è la persona che accoglie lo Spirito di Dio e lo vive
nella propria vita: esattamente come ha fatto Gesù. Chiunque può essere Figlio
dell’Uomo: anzi, tutti dobbiamo esserlo. Tutti dobbiamo accogliere il piano, il
progetto di Dio su di noi, che è esattamente il motivo per cui siamo nati ed
esistiamo.
Che Dio
abbia un progetto su ciascuno di noi sta a significare che la nostra esistenza di
creature insignificanti, è invece importantissima, ha un senso profondo: vuol
dire che non siamo qui per caso, ma siamo qui per uno scopo, un motivo ben
preciso. Ed è questo motivo che noi dobbiamo recuperare, il senso della nostra
vocazione. C’è un destino, una chiamata, una missione che ci chiama. È questo
motivo che ci nobilita e ci rende irresistibili. Le persone che sono tristi,
depresse, senza vitalità o voglia di vivere, lo sono perché non hanno motivi
validi, forti, ragionevoli per vivere. Non ci rendiamo conto che la nostra vita
è una piccola tessera di un mosaico meraviglioso, grandioso, imponente: l’essere
a somiglianza di Dio.
Dunque:
il Figlio dell’uomo “verrà nella sua
gloria” con tutti gli angeli, e siederà sul suo trono, davanti a tutti i
popoli radunati.
Quando
noi pensiamo agli angeli, pensiamo subito ad una creatura con le ali. Ma l’angelo
(“ànghelos”, annunciatore) non ha niente a che vedere con questo. Angelo è
solamente tutto ciò (persone, incontri, fatti, eventi, situazioni, sogni,
incidenti, sorprese, ecc.) che Dio ci manda per consentirci di andare avanti e
seguire la Sua chiamata.
Abbiamo
mai incontrato un angelo? No, se pensiamo all’essere angelico con le ali.
Abbiamo
mai incontrato un angelo? Sì, tantissime volte, se sappiamo riconoscerlo:
perché “angelo” sono tutti quelli che vogliono aiutarci a diventare migliori. Noi
viviamo nella paura, nel terrore di scegliere, di osare, di metterci in gioco,
di guardarci dentro, non sfruttiamo le nostre potenzialità, la nostra riserva
di amore, di bontà, di doti, di generosità, di simpatia, di vitalità che abbiamo
dentro. Viviamo sempre sulla difensiva, non sfruttiamo il patrimonio che Dio ci
ha dato. Allora arriva un angelo che ci mostra che possiamo essere migliori:
possiamo osare, scegliere, smettere di vivere così e volare in alto.
Chi ci
ama non vede ciò che siamo ma ci mostra ciò che possiamo essere. L’angelo è
questo. Quindi gli angeli con i quali il Figlio dell’uomo verrà, sono
semplicemente tutti quelli che vivono realizzando con la vita il progetto che Dio
ha su di loro.
“Allora il re dirà a quelli che
stanno alla sua destra: venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il
regno preparato per voi fino dalla creazione del mondo”.
Noi,
dicevo, ci siamo fatti l’idea strampalata di un Dio “guardone” che sta
continuamente a spiarci, per annotare tutto ciò che ci riguarda nel suo
Librone. Ma Gesù non ha bisogno di libri per separare gli uni dagli altri, i
buoni dai cattivi. Gesù lo vede immediatamente! E da cosa lo vede? Dai fatti
concreti: se cioè siamo riusciti a vivere la Vita, oppure no. Se cioè ci siamo
immessi, ci siamo realizzati nel suo progetto originale: che tutti gli uomini cioè
avessero la sua stessa condizione divina, rispecchiassero la sua stessa immagine,
somigliassero fedelmente a lui.
In
particolare cos’hanno fatto questi “benedetti” per raggiungere questo traguardo
e ottenere “il regno”? Nulla di eccezionale: sono stati costanti e fedeli nel
compiere alcune semplici azioni: hanno dato da mangiare agli affamati e da bere
agli assetati; hanno accolto i forestieri, gli “altri”; hanno vestito gli
“ignudi”: hanno preso, cioè, le difese dei peccatori, degli indifesi, dei
vulnerabili, di quanti erano esposti alla pubblica discriminazione, alla
vergogna, alla derisione; hanno curato i malati, non solo quelli corporali, ma
soprattutto quelli spirituali; hanno infine visitato i carcerati, portando loro
conforto.
In una
parola “benedette” sono tutte quelle persone che in vita si sono prodigate verso
i più deboli, sono state attente ai bisogni degli altri, dei propri fratelli, riconoscendo
in loro Gesù stesso.
È Gesù
stesso che lo conferma: “Ogni volta che
avete fatto questo ad uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Attenzione:
qui Gesù non dice: “Quando ami uno, lo
fai per me” ma “quando ami uno, ami
me”. Punto. Molte persone invece sono ancora convinte che devono amare gli
altri, il prossimo, perché lo ha comandato Gesù”. Ma se amiamo gli altri per “dovere”, senza alcuna convinzione,
senza sentimento, senza trasporto, ma solo per costrizione, perché Dio ce l’ordina,
forse che questo è “amare”? L’amore non si comanda: si sente. Non si fanno le
cose “per carità cristiana”; si fanno perché nascono dal cuore. Amare uno,
perché così ci è stato comandato, è svilente: “Non ti amo, ma lo faccio perché
me lo ordinano!”. Per Gesù è impensabile. Le cose non si fanno per Dio, ma con Dio e soprattutto come
Dio.
I
Santi hanno fatto così: Un giorno chiesero a Madre Teresa: “Perché lo fa?”. Si
aspettavano come risposta: “Per Dio”. E invece lei sorridendo disse: “Per amore”. “Cioè per Dio”, ripresero. “No, per amore. Perché la sua sofferenza
tocca il mio cuore”. E concluse: “Non
so mai se chi dice di amare Dio, lo ami davvero. Ma so che chi ama l’uomo, lo
sappia o no, ama Dio”.
Un
giorno stava curando delicatamente le piaghe ripugnanti di un lebbroso. Lavorava
e sorrideva, chiacchierando con il malato, come fosse la cosa più naturale del
mondo. Ad un certo punto gli chiese: “Tu
credi in Dio?”. Il pover’uomo la guardò intensamente negli occhi e poi le
disse, sorridendo: “Sì, adesso credo in Dio!!!”. Un’altra volta ancora un
giornalista che la vedeva tutta dedita a curare un lebbroso le disse: “Madre,
io non lo farei neanche per un milione di dollari”. E lei: “Io neppure!”. E lui continuò: “Ma neanche se me lo comandasse Dio
in persona!”. E lei: “Io neppure”.
Certe cose si fanno per amore... e basta.
“Via, lontano da me maledetti”: è la condanna del Figlio dell’uomo
per gli altri, per chi non ha dispensato amore. Prima aveva detto: “Venite, benedetti dal Padre mio”. Qui,
invece, non ripete: “Maledetti dal padre mio”, ma solo: “Maledetti”. Infatti, non da Dio sono maledetti, ma da loro stessi!
Se uno non fa crescere l’amore che c’è in lui, se non diventa più maturo e
adulto, lui stesso si condanna a morire. E chi è morto non può dare vita. Non è
una sentenza del re che li condanna, sono essi stessi che si sono condannati da
soli.
Un’ultima
cosa ci sottolinea ancora questo vangelo: che dobbiamo avere un cuore attento per
“vedere”. Dobbiamo cioè essere sempre
attenti, sempre vigili: “Quando mai ti
abbiamo visto nudo, affamato, malato...?”. Non ce ne rendiamo conto, perché
siamo distratti e, non sia mai, a volte volutamente sbadati.
Molti
dicono: “Io non faccio male a nessuno!”. Può essere, ma non basta! Dicono così soltanto
perché non vedono, non si rendono conto che vicino a loro c’è chi ha bisogno di
amore, di comprensione, di condivisione. Quando uno è troppo preso da se
stesso, dai suoi bisogni, non è più in grado di vedere quelli degli altri: è troppo
assorbito dalla tensione, dall’assillo dei suoi bisogni personali.
Ci
vuole un cuore libero, aperto, generoso, per vedere i bisognosi, i sofferenti,
gli abbandonati. Altrimenti rischiamo di fare come i condannati del vangelo: “Non
ti abbiamo visto? Ma quando mai! Impossibile!”. Eppure è successo: nella nostra
insensibilità, nella nostra cecità, non ci siamo neppure accorti che Gesù è
passato vicino a noi, nella persona dei fratelli bisognosi.
Non
concentriamoci troppo su noi stessi, altrimenti il nostro cuore non sarà più in
grado di percepire il bisogno d’amore dei sofferenti. Amen.
«Avverrà come a un uomo che,
partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno
diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di
ciascuno; poi partì» (Mt 25,14-30).
La
parabola di oggi è molto semplice: c’è un padrone che deve compiere un lungo viaggio,
e secondo l’usanza del tempo, affida il suo patrimonio ai servi più fidati. Cosa
succede allora?
Ciascuno
riceve in consegna un patrimonio che non gli appartiene, che non è suo e sa
quindi che dovrà riconsegnarglielo. C’è inoltre una diversità: non tutti hanno
lo stesso patrimonio. Ciascuno, dice il vangelo, ha secondo la propria
capacità. Hanno cioè talenti diversi perché sono diversi, ognuno ha il massimo
di ciò che può avere.
Ciascuno
nella vita ha il suo talento. Il talento è la possibilità che uno ha, il
patrimonio che uno incarna con la sua vita, che uno ha dentro di se, che Dio ha
riposto nel suo cuore. È un patrimonio enorme fatto di doti, doni, sensibilità,
talenti, capacità, emozioni, ideali, amore, fiducia, libertà, voglia di vivere.
La grande domanda è: “Chi sono io?”, nel senso: “Qual è il mio patrimonio?”. La
gente passa tutta la vita a voler essere questo o quello, quell’uomo o quella
donna. Vorrebbe avere i soldi di quello, la bellezza di quell’altro, la
conoscenza e la brillantezza di quell’altro ancora. Così invece di guardare a chi
è, insegue cose che non sono proprie e che pertanto sono irraggiungibili.
Qual è
il nostro talento? Qual è la nostra essenza? Qual è la nostra peculiarità?
Perché
quello che ha un talento lo nasconde? Perché si confronta con gli altri. Se noi
ci confrontiamo con gli altri, è chiaro che non siamo contenti di quello che siamo,
di quello che abbiamo. Per cui troveremo che gli altri hanno sempre di più, che
sono più fortunati, che magari se noi fossimo stati al loro posto. Ma è così
solo perché invece di guardare a cos’abbiamo, continuiamo ad invidiare quello
che hanno gli altri.
Cosa
dà il padrone ai tre servi? Dà dei talenti. Il talento non era una moneta
corrente perché denotava una cifra enorme. Era solamente una unità di misura.
Sarebbe come dire una tonnellata di euro: non si può girare con una tonnellata
di euro, semplicemente perché nessuno potrebbe portarla. Un talento, infatti, corrispondeva
a 60 mine, a 6000 dracme, a 6000 denari (la dracma era parificata infatti ad un
denaro, che era la paga giornaliera più alta di un lavoratore). Quindi con un
talento, una famiglia, poteva vivere all’incirca 30 anni.
Allora:
ciascuno ha molto. Ma se noi guardiamo a quello che hanno gli altri, se ci
confrontiamo, troveremo sempre che ci manca qualcosa. Se invece guardiamo a noi
stessi, troveremo che siamo ricchi, pieni e abbondanti.
La
gente non è povera di doti, talenti o vitalità: è che vuole sempre quello che
non ha. È che invece di sviluppare ciò che ha, invidia quello che gli altri
hanno già sviluppato. La gente vorrebbe avere a basso prezzo, senza impegno,
con grande facilità, quello che gli altri hanno invece conquistato con grandi
sacrifici, osando e mettendosi completamente in gioco.
Allora:
solo se guardiamo a noi stessi, a quello che abbiamo, potremo essere
soddisfatti e felici. Dobbiamo ricordarci, inoltre, che nessuno di quei servi è
proprietario di ciò che ha. Tutto gli è stato dato in consegna: quindi avere
più talenti comporta solo maggiori responsabilità, maggior impegno, non un
maggiore arricchimento personale, visto che poi tutto dovrà essere riconsegnato
al padrone.
Bene:
cosa succede a questo punto? I primi due investono il loro patrimonio e lo
fanno crescere, moltiplicare. Il terzo, invece, fa una buca e nasconde il suo denaro.
La
differenza è tutta qui: i primi due vivono osando, giocandosi, mettendosi in
gioco, rischiando, provandoci. Il secondo, invece, ha paura e la paura lo
blocca. Tutto dipende dal comportamento dei personaggi.
In
pratica questo vangelo ci dice: “Vivete e realizzatevi, moltiplicate i doni che
avete ricevuto, ciò che siete (il patrimonio)”. I talenti rappresentano
pertanto la nostra vita: perché non la mettiamo a frutto? Perché non la viviamo?
Cosa aspettiamo a vivere? Cosa aspettiamo a scendere in campo? Alcune persone passano
l’esistenza da “panchinari”: ci sono, ma non hanno mai il coraggio di entrare
in gioco, di fare quelle scelte che diano uno scopo, una direzione alla loro
vita, che la trasformino, che le facciano prendere “colore”, intensità. La loro
scelta? Di non scegliere mai: il partner? il primo che trovano; gli amici? quelli
che incontrano; gli hobby? quello che fanno tutti; le idee? quelle che hanno
tutti. Non si chiedono mai: “Ma a me cosa sta bene? Cosa voglio? Cosa fa per me?”.
E così sciupano la vita, la guardano passare invano. Avevano la possibilità di
viverla e invece si sono lasciati vivere: il treno passa, ci salgono su, e si lasciano
trasportare. Non hanno il coraggio di scendere e di fare a piedi, da soli, la loro
strada, di andare avanti con le loro gambe. Si dicono: “Ma noi non siamo fermi,
progrediamo, andiamo avanti!” e non capiscono che si illudono da soli, perché è
il treno che va avanti, che viaggia: loro vanno semplicemente dove va lui”.
Alcune
persone, come fa quell’uomo, nascondono la loro esistenza sottoterra, cercano
di essere invisibili, di passare inosservati e muoiono senza vivere.
Solo
la persona che rischia è veramente libera. La vita è il dono che Dio ci fa: se
la viviamo è il nostro dono che restituiamo a Dio. Ma se non la viviamo, se ci
nascondiamo, se sotterriamo ciò che possiamo essere, se permettiamo alla paura
di vincerci, allora vanifichiamo il dono che Dio ci ha dato in consegna.
La vita
ci restituisce sempre quello che noi le abbiamo dato. Il padrone ritorna, e
regola i conti con i servi: il risultato dipende da come uno si è comportato
con la propria vita. Il primo e il secondo hanno vissuto “giocandosi” e ricevono
in conseguenza del loro impegno; e non sono ricompensati perché hanno effettivamente
guadagnato, ma perché hanno provato, perché hanno avuto fiducia, perché hanno
osato, perché si sono lanciati. Il terzo, al contrario, ha avuto paura. È la
paura infatti che lo ha immobilizzato, che gli ha impedito di mettersi in
gioco.
Lui ha
avuto paura: non voleva essere criticato, non voleva fare errori, non voleva
sbagliare, non voleva essere giudicato. Voleva avere tutto sotto controllo, voleva
essere sicuro, ma facendo così ha perso ogni possibilità.
Certo,
se avesse rischiato, vissuto, avrebbe potuto perdere il suo talento, avrebbe
potuto sbagliarsi e perdere tutto, avrebbe potuto esser giudicato o criticato
per ciò che faceva o diceva; nessuno gli avrebbe potuto garantire un esito
felice. Ma se non si rischia si muore: perché è la paura che ci fa morire, non
gli imprevisti della vita.
La
vita è così: un patrimonio da far fruttificare, da realizzare, da far fiorire. La
vita, in modi diversi, in momenti diversi, offre a tutti la possibilità di
cambiare. Tutti noi abbiamo avuto delle occasioni che ci hanno portato in una
certa direzione. Tutti noi abbiamo incontrato delle persone che ci hanno fatto respirare
un’altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni di
qua; provaci, ce la puoi fare!”. Tutti noi abbiamo vissuto delle situazioni
(morte di un amico, di un caro parente; un momento difficile di vita; una
sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci hanno suggerito insistentemente
di cambiare rotta, di vivere diversamente. E noi come abbiamo reagito di fronte
a tali inviti? Nulla, abbiamo rinviato: ma a forza di rinunciare, di posticipare,
di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriverà un bel giorno
in cui non potremo più fare “domani”. Sarà troppo tardi. E ognuno raccoglierà
ciò che ha seminato. “Hai preferito vivere così? Questo è il tuo raccolto!”. Allora
sarà inutile arrabbiarci: perché avremo esattamente ciò che abbiamo voluto. Amen.
«Il regno dei cieli sarà simile
a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo.
Cinque di esse erano stolte e cinque sagge…» (Mt 25,1-13).
La
parabola di oggi è un po’ singolare, perché i suoi protagonisti,
indistintamente, fanno tutti una brutta figura. La fa lo sposo perché, giunto
alle nozze con un ritardo inammissibile, respinge quelle vergini che si
presentano con la lampada spenta, poiché nel frattempo l’olio si era esaurito: “Non
vi conosco!” dichiara loro; ma perché ricorrere ad una bugia, dal momento che le
conosceva perfettamente visto che lui stesso le aveva invitate? Fanno ovviamente
brutta figura le vergini che si sono trovate senza una scorta d’olio,
dimostrando di essere delle sprovvedute, poco lungimiranti. Ma la fanno
ugualmente anche le sagge che rifiutano sdegnosamente di dare alle amiche un
po’ del loro olio: perché non condividere infatti qualche goccia d’olio con le
altre, visto che lo sposo era finalmente arrivato? Lo fanno perché sono invidiose,
cattive d’animo, oppure perché l’olio che hanno è incedibile, strettamente
personale, per cui anche volendo, non possono cederlo ad altri? Un olio “particolare”,
unico, personalissimo che, o ce l’hai di tuo, altrimenti nessuno può dartene?
“Andate dai venditori e compratevelo”, è la loro risposta. Ma che risposta è? Perché
sono così scostanti? Come possono quelle poverette trovare un venditore d’olio
nel cuore della notte? Si burlano di loro, oppure fanno così perché non possono
dare ciò che “non si può” dare?
Insomma,
questa è una parabola con tanti interrogativi, in cui nessuno sembra comportarsi
in maniera corretta.
Ovviamente,
per capirla, dobbiamo prima di tutto capire il significato di queste immagini così
lontane da noi, dalla nostra cultura, facendo esse riferimento agli usi
matrimoniali del mondo ebraico.
Attualizzando
comunque la parabola, appare chiaro che lo sposo è Gesù; mentre le vergini, sia
le prudenti che le stolte, siamo noi. E allora viene spontaneo chiederci: perché
Gesù risponde in maniera così aspra e tremenda: “Non vi conosco”? E cos’è quest’olio
così importante da condizionare il nostro ingresso alle sue nozze?
Matteo,
parlando delle vergini stolte che si sono dimenticate di prendere l’olio, le
chiama “morai”: un termine che letteralmente
significa “matte, pazze, stolte”; oppure, in senso più blando, “sbadate,
stupide, sciocche, senza testa, insipide”.
Per meglio
comprendere la portata della loro stupidità, dobbiamo sapere che la “lampada” in
questione altro non era che un recipiente fissato su un bastone nel quale ardevano
stracci intrisi d’olio. È chiaro che per continuare a bruciare e a far luce,
gli stracci dovevano essere continuamente imbevuti: non disponendo di una scorta
d’olio le lampade si sarebbero ben presto spente cessando di fare luce.
Stupidità,
dunque: significativo è infatti che sempre Matteo usi questo stesso termine di stolto, matto, pazzo, per indicare
un’altra situazione altrettanto ovvia: quella dell’uomo che ha costruito la sua
casa sulla sabbia (Mt 7,26): solo un
pazzo infatti poteva fare una cosa tanto assurda: il primo temporale, la prima
pioggia torrenziale avrebbe spazzato via la sabbia, e la casa sarebbe crollata.
In
entrambi i casi gli stolti sono identificati
con quelle persone che ascoltano sì la parola di Dio, ascoltano il messaggio di
Gesù, lo accolgono, ma poi non lo mettono in pratica, lo lasciano lettera morta,
se ne disinteressano totalmente. Sono quelle persone che vivono alla giornata
senza angustiarsi di nulla, senza troppi pensieri, senza porsi alcun problema.
Non si preoccupano minimamente di ciò che è importante nella vita: della
qualità del rapporto di coppia, del sapersi ascoltare, del fare silenzio
dentro, del mettersi in gioco, del cambiare in meglio, del nutrire l’anima, dell’avere
del tempo per sé e per quelli che amano. Vanno avanti come se niente fosse. Poi
si dicono: “Come è potuto capitarmi questo? Com’è possibile?”. Ma cosa
pensavano, che un giorno o l’altro non avrebbero dovuto dare ragione del loro
comportamento? Cosa pensavano che potesse succedere? Così si sono trovati
sprovvisti di olio. Ma cos’è esattamente quest’olio che gli stolti non hanno?
Sono le opere buone. L’ha detto chiaramente Gesù: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini (la lampada
della vostra vita), perché vedano le
vostre opere buone (l’olio che la alimenta) e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16).
Ma in
concreto i vangeli cosa intendono per “opere buone”? Vi ricordate la parabola
del buon samaritano? Non i gesti sacri
del levita che passa e tira via dritto di fronte all’uomo ferito, non le preghiere giornaliere del sacerdote,
ma l’amore del buon samaritano che oltretutto
era considerato un eretico (Lc 10,29-37).
È questo, è l’amore che conta davanti al Signore. Perché “ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46).
È questo
in pratica che significa avere l’olio: un bene concreto, reale, quotidiano,
fatto di gesti, di pensieri, di azioni, di sentimenti. C’è qualcuno che soffre?
Noi vediamo, sentiamo la sua sofferenza, e ci muoviamo subito per aiutarlo. L’amore
è dunque l’unico metro di giudizio usato da Dio; preghiere, riti, meriti,
studi, fama, soldi, conoscenze, non servono a nulla se non sono a servizio dell’amore.
Anche questo Gesù lo dichiara apertamente: “Non
chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli…” (Mt 7,21).
Che tradotto in pratica significa: non basta fare belle prediche, costruire
grandi chiese, grandi cattedrali, tirare in ballo “Dio” continuamente, in ogni cosa,
in ogni discorso, per essere riconosciuti da Lui. Dio, che è Amore, riconosce solo
l’amore che ognuno ha e vive. Il resto non gli interessa. “Non vi conosco”, dice alle vergini stolte, sprovviste di opere
buone, di amore. Perché solo chi possiede amore può entrare alle nozze con Dio,
nel Paradiso, nell’Aldilà.
“Non vi conosco”: ma non è il Signore che non ci
riconosce. Non è una condanna la sua, ma una conseguenza del nostro modo di
vivere. Siamo noi stessi che non ci riconosciamo, perché abbiamo sempre vissuto
in superficie, con banalità: non sappiamo chi siamo; non sappiamo cosa vogliamo
o cosa proviamo; non abbiamo alcun colloquio con noi stessi e,
conseguentemente, ci autoescludiamo dalla vita, dalle sorgenti della vita.
Trovarci
in situazioni simili è molto più facile di quanto si possa pensare. Anzi è un
classico, succede sempre così. Arriviamo ad un certo punto in cui il nostro
cuore è talmente indurito, corazzato, siamo diventati talmente gelidi, da non
essere più in grado di amare, di esprimere alcun sentimento: così, quando il
pianto vorrebbe liberarci, ci dirà: “Non ti conosco”, perché dentro di noi, nel
nostro cuore, non troverà più nulla, solo aridità; quando arriverà la gioia,
dirà: “Non ti conosco”, perché non riusciamo più a gioire, ad abbracciare, a
lasciarci andare con sincerità. Quando arriverà l’amore, dirà: “Non ti conosco”,
perché saremo così aridi, così sterili, da non sapere più cosa significhi innamorarci,
amare veramente qualcuno. Quando arriverà la tenerezza o la compassione diranno:
“Non ti conosco”, perché il nostro cuore sarà talmente indurito, che niente potrà
commuoverci, niente potrà emozionarci: dentro di noi non avvertiremo più alcun
palpito. Ma vivere così è vivere senza vita. La distanza che si è venuta a creare
con l’Amore, è ormai troppo grande, e in tutti noi un punto di non ritorno. C’è
un punto in cui tutto è “troppo tardi”: il tempo a nostra disposizione è
finito, e non avremo più alcuna possibilità di “rivivere” per porvi rimedio. Questa
parabola, allora, deve essere per noi un pressante invito: “Non lasciare che la
tua lampada languisca. Prenditi cura del tuo olio, della tua vita, delle tue
opere buone, perché la “scorta” di cui in quel momento devi disporre, determinerà
la tua salvezza o la tua condanna, la tua beatitudine o la tua disperazione. Fai
molta attenzione, perché potresti cadere improvvisamente nel buio più totale.
Amen.