«Gesù si recò in una città
chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un
morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era
con lei». (Lc 7,11-17).
Contare
su un Dio misericordioso è il tema ricorrente in quest’anno giubilare della “misericordia”;
un tema che il vangelo di oggi affronta in un meraviglioso contesto,con il
quale Luca, in esclusiva assoluta, ci racconta la risurrezione da morte di un
ragazzo, fatta da Gesù, mentre veniva portato fuori dalle mura della città per
essere sepolto.
Il
vangelo è apparentemente semplice: c’è una donna della cittadina di Nain, vedova,
cui improvvisamente viene a mancare l’unico figlio. Arriva Gesù e nella sua
misericordia le riporta in vita il giovane.
Un
miracolo come tanti altri: anzi, neppure tanto originale, visto che già nell’Antico
Testamento, quindi molto tempo prima di lui, Elia (1Re 17,17-24) ed Eliseo (2Re
4,32-37), compirono ciascuno un miracolo analogo. C’è da dire però che tra l’operato
dei due profeti e quello di Gesù, c’è una differenza sostanziale: poiché i
profeti agivano come “intermediari di Dio”: essi non agivano in virtù della
loro forza, del loro potere, ma era Dio che agiva per mezzo loro, per cui dovettero
pregare Jahweh molto intensamente, perché lui operasse il miracolo; Gesù al
contrario non è intermediario di nessuno, egli è Dio e se vuole operare
miracoli, non deve pregare nessuno;Egli opera e guarisce in forza della sua
stessa forza. Inoltre, un’altra differenza importantissima sta nelle
motivazioni dei miracoli: mentre il testo dell’Antico Testamento ha lo scopo di
evidenziare la “potenza” di Dio, il testo di Luca vuole invece sottolineare la sua
“misericordia”, la misericordia di Gesù, del “Signore”, come egli appunto lo
chiama qui per la prima volta.
Siamo
nel capitolo settimo del suo vangelo: Gesù, in tale contesto, è particolarmente
impegnato a dimostrare a tutti la straordinarietà della sua missione: è di poco
prima infatti la guarigione del servo del centurione che “stava” per morire; qui
resuscita addirittura un bambino già morto. Opere straordinarie che inducono la
gente a vedere in lui l’inviato di Dio, quel “messia”, che tutti aspettavano da
tempo immemorabile. Tant’è che il Battista stesso, come sappiamo dal seguito
del vangelo di oggi, venuto a conoscenza di “tutte queste cose”, manda due suoi
discepoli a chiedere direttamente a Gesù: “Sei
tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Lc 7,19). E Gesù
risponde appunto: “Andate e riferite a
Giovanni ciò che avete visto e udito” (Lc 7,22). Le azioni, i fatti, più
che le tante parole, sono determinanti per giudicare una persona.
Ma
entriamo nel vangelo propostoci oggi dalla Liturgia. “Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i
discepoli e una grande folla” (Lc 7,11).
Dobbiamo
riconoscere che Luca è un artista. Gli bastano pochi tratti per dare profondità
e senso al quadro che si accinge a dipingere. Egli attira immediatamente la
nostra attenzione su due situazioni opposte, precisamente su due “processioni”,
che si incrociano alla porta della cittadina di Nain: mentre il primo corteo, al
seguito di Gesù, è quello della “vita” che si appresta ad entrare, l’altro,
quello che sta uscendo dalla città per accompagnare la vedova alla sepoltura
del figlio, è la processione della “morte”. Il contrasto tra Gesù-Vita e
popolo-morte, fa dunque qui da premessa. Ma fermiamoci un momento sul
simbolismo, sul significato che possiamo dare a questo testo di Luca, magari
tenendo d’occhio le tante situazioni analoghe della nostra società contemporanea.
Anche
oggi non è raro veder portare dei giovani alla sepoltura. O per malattia che
stronca inesorabilmente senza contare gli anni, o per sempre più irragionevoli
morti giunte improvvise per incidenti o disgrazie, oppure cercate nella follia
della droga o addirittura nel suicidio.
Nessuno
si abitua a questi drammi. Ogni morte di un giovane, per qualunque motivo,
scuote la coscienza di tutti. Giovinezza vuol dire pienezza di vita,
possibilità di utopie e sogni, di fantasie, di meraviglie da costruire: di vocazioni
tutte da spendere.
Si
nota nei funerali dei giovani una partecipazione che difficilmente si ha per
altre età.
E su
tutti cala una tristezza che sconfina nella disperazione. Difficile dire parole
in quella circostanza. Mai come in questi momenti la vita viene esaltata.
Un
corteo funebre esce dunque dalla città: un fatto che fa pensare ad una analogia
piuttosto interessante, che porta ad alcune considerazioni: la città rappresenta
la figura materna; dalle sue mura, dal suo grembo, esce un bambino morto.
La
madre cioè non è riuscita a farlo crescere, non ha voluto renderlo autonomo,
non ha voluto che camminasse sulle sue gambe, che uscisse dalla sua influenza iperprotettiva.
Tra i due è nata una relazione di esclusiva simbiosi: la madre, evidentemente, non
disponeva di una sua vita propria, era il figlio che costituiva tutta la “sua”
vita. Ma se è il figlio a dar vita alla madre, egli automaticamente perde la sua
di vita, e non avendo più una vita, muore.
Ma
perché questo figlio avrebbe “dato la sua vita” alla madre? Perché si sarebbe
“spersonalizzato” fino a questo punto? Ce lo dice il testo: era“Figlio unico di madre vedova” (Lc 7,11).
C’è da dire che essere “vedova” a quei tempi, significava trovarsi in una
condizione veramente miserevole: una vedova, in Israele, non aveva alcun diritto,
alcun riconoscimento civile, non poteva neppure lavorare per guadagnarsi da
vivere. L’unico quindi che può difendere quella madre è suo figlio; l’unico che
le può dare dignità, l’unico che può darle valore e sostentamento. Quel figlio
è “tutto” per lei: le fa da marito, da compagno, da amico; le da sicurezza,
giustizia, protezione: tutti quei riconoscimenti che nessun altro può darle.
Per
cui quel figlio è “tutto” per la madre: egli non ha una vita “sua”, vive solo per
lei.
E per
questo muore. Muore perché invece di ricevere vita dalla madre, è lui che deve
darla a lei. E senza vita non si può che morire dentro. Nessun figlio può dare
la vita ad un genitore. Sono i genitori che danno la vita ai figli, non il
contrario!
Qui
però notiamo anche una nota particolare: “Molta
gente della città era con lei” (Lc 7,11).
È una
nota molto interessante. Perché quell’essere
con lei non indica soltanto una presenza fisica ma anche un “andare” con
lei, un pensare cioè come lei, un condividere il suo comportamento, ritenerlo
giusto, doveroso, sacrosanto.
Avranno
sicuramente raccomandato al figlio: “Guarda che tu sei tutto ciò che tua madre può
avere, sei il bastone della sua vecchiaia; il suo sostentamento: tua madre vive
solo per te; se tu non fossi nato, lei sarebbe sicuramente morta”.
In
pratica vediamo che l’ambiente circostante non fa altro che sottolineare,
approvare in pieno il comportamento della madre e, conseguentemente quello del figlio,
a condizione che lui la assecondi, a condizione cioè che lui viva per la madre,
che rinunci alla sua vita per lei.
È
evidente che se tutto il suo vicinato si comporta in questo modo, per il figlio
diventa difficile, anzi impossibile, ribellarsi a questa mentalità.
Ma a questo
punto arriva Gesù. E osserviamo attentamente quello che fa.
“Vedendola ne ebbe compassione”
(Lc 7,12). Egli
vede la madre e prova compassione per lei. Non prova compassione per il figlio
morto, ma per la madre. È la madre che ha bisogno di amore, di compassione, di
aiuto, di una cura energica; è lei che deve “guarire”. Per cui, da questo
momento, tutto ciò che Gesù fa, lo fa per lei, per la madre, non per il figlio.
I suoi gesti, le sue parole, sono esclusivamente per lei. Che il figlio risorga,
dipende da lei: infatti egli “risorgerà” solo se la madre cambierà radicalmente
mentalità, se farà in se stessa delle modifiche sostanziali, dei cambiamenti,
delle trasformazioni radicali.
Prima
di tutto, dunque, Gesù “vede”: i suoi
sentimenti, la sua misericordia, la sua tenerezza, il suo sentimento d’amore, gli
nascono dentro proprio perché “vede”. Ma vede non perché ha gli occhi, ma
perché lungo la strada si lascia “toccare”, si lascia “colpire”, si lascia
coinvolgere da ciò che lo circonda. Gesù non guarda soltanto, Egli “vede” e “sente”.
È attento, un osservatore consapevole.
Noi
spesso guardiamo, ma non vediamo: l’immagine si ferma sulla nostra retina ma
non arriva nel nostro cuore. Non abbiamo cioè motivazioni per agire, emozioni
che ci mettano in movimento. E per questo non facciamo nulla.
Gesù invece
non ha paura di essere “scombussolato dentro”, di lasciare che quello che vede
lo “commuova” profondamente. Gesù non “rimuove” l’emozione. La sua forza è nel
suo sentire, nei sentimenti che egli vive. È questo che poi lo porta ad agire.
Luca evidenzia
in altri due passi lo stretto legame che esiste tra “vedere” (orao) e “avere compassione” (splanchnizomai): lo fa nella parabola
del buon Samaritano che vede il ferito abbandonato per strada e ne ha pietà (Lc
10,33), e in quella del padre misericordioso che vede da lontano il figliol
prodigo ed è mosso a compassione (Lc 15,20).
Anche
questi due brani sono riportati esclusivamente da Luca, che ci rende la vera
immagine del Dio misericordioso, preso da passione per l’uomo, suo figlio
ferito, perduto, morto.
Con la
vedova di Nain come si comporta Gesù? Vediamolo nei particolari:
1) “Non piangere”. È l’invito che rivolge
alla madre in lacrime, oppressa dal dolore. Ella piange per la separazione dal
figlio. Ma forse il suo pianto è anche una richiesta di aiuto: è un chiedere
qualcosa, un po’ come fanno i bambini, che improvvisamente le è stato tolto e
che nessuno può più restituirle. Ma allora, il suo è un pianto di una donna o
di una bambina?
Non è
che questa vedova piange per la sua attuale condizione: “Che ne sarà di me? Chi
penserà a me? Come farò senza di lui? Lui era tutto, tutta la mia vita: e ora?”.
Forse non sono lacrime di un addio, ma lacrime di collera per l’impossibilità
di continuare a tenere il figlio legato a sé.
In pratica
Gesù le dice: “Smettila di piangere, non fare la bambina! Smettila di pensare,
attraverso lui, soltanto alla tua persona. Tu non puoi dipendere esclusivamente
da lui!”.
2) “Toccò la bara”: bisogna toccare ciò che
è morto, ciò che non può più esistere, ciò che non è più vitale. Bisogna
toccare, cioè mettere mano, a tutti quei comportamenti che ci distruggono, che
ci imprigionano, che si soffocano, che ci ingabbiano. Anche se non è bello.
Facendo
questo, Gesù entra là dove la vedova non vuole entrare: deve cioè imparare che questo
“suo” figlio non è suo, e che quindi deve andare nella vita con le sue gambe.
3) “Ragazzo, dico a te, alzati”; al figlio in
pratica dice: “svegliati, devi imparare un nuovo comportamento , c’è un
passaggio che devi fare. Non puoi fare come prima: perché fare come prima vuol
dire morire. Esci dalla tua illusione: tu vivi in funzione di tua madre, sei
ancora legato a lei. “Alzati”,
corrisponde a: “Levati in piedi” (era disteso), cammina con le tue gambe,
smettila di farti portare dagli altri, cioè smettila di farti dire dagli altri
(madre e ambiente) cosa sei, cosa devi fare, come devi comportarti, cosa devi
pensare, cosa è giusto e cosa no, ecc. Diventa grande, prendi in mano la tua
vita, muoviti sulle tue gambe.
4) “Il morto si mise seduto e cominciò a
parlare”: Ora finalmente parla! Quindi prima non parlava. Ma chi è che lo
zittiva? Chiaramente la madre (c’era solo lei!): “Guarda quanto lavoro per mandarti
a scuola; non vedi i sacrifici che faccio? Non uscire questa sera perché mi
sento sola; quando avrai la mia età, capirai”.
C’erano
sempre i suoi pensieri, i suoi problemi, prima di quelli del figlio. L’attenzione
era tutta su di lei: il figlio non aveva “voce”, non aveva spazio. Tutto veniva
visto in funzione della madre, dei suoi bisogni e delle sue paure.
Ma ora
c’è anche lui: anche lui ha i suoi desideri, le sue passioni, i suoi gusti, i
suoi punti di vista. Ora c’è anche lui, e lei deve capirlo.
5) “Lo restituì a sua madre”: a questo
punto Gesù restituisce alla madre un figlio vivo, non uno morto. Ma perché
questo figlio ora è vivo mentre prima era morto? Cos’è che fa ora di diverso rispetto
a prima? Si è alzato, vuol camminare sulle sue gambe: non è più, cioè, un
bambino “mangiato, ingoiato” da sua madre, ma un piccolo uomo che sta iniziando
a pensare con la sua testa, a scegliere con la sua mente e a vivere in funzione
di sé, dei propri desideri, non di quelli di sua madre.
Questo
figlio che torna alla madre non è più quello di prima: è un altro. La madre non
lo perde (ce l’ha ancora) ma “lo perde”: il rapporto non sarà più quello di
prima.
Così
anche noi se non sappiamo “perdere”, cioè se non lasciamo andare i nostri
figli, li perderemo, finiremo per rovinar loro la vita.
Prendiamo
per esempio Maria, che ha dovuto “perdere Gesù” per “averlo”, per consentirgli
cioè di seguire fino in fondo la sua missione.
Nelle
culture antiche ad un certo momento i ragazzi venivano presi dai padri e
portati nella foresta per confrontarsi con i pericoli e gli animali. Era un’esperienza
difficile, pericolosa e tremenda. Ma perché? Perché essi avevano bisogno di “tirare
fuori” il loro coraggio, il loro ardore, la loro libertà, la loro forza. Una
madre non può bastare per suo figlio: può dargli l’amore (e questo è
tantissimo) ma non può dargli tutto ciò di cui ha bisogno.
C’è un
famoso proverbio che dice: “Ogni mattina in Africa, al sorgere del sole, la
gazzella si sveglia, e sa che dovrà correre più veloce del leone per non
rimanere uccisa. Ogni mattina in Africa, al sorgere del sole, il leone si
sveglia e sa che dovrà correre più veloce della gazzella, o morirà di fame.
Ogni mattina in Africa, non importa che uno sia leone o gazzella, deve comunque
incominciare a correre”. Questo in sintesi è il comando che Gesù rivolge oggi
anche a noi: “Alzatevi; muovetevi, correte e smettetela di piangervi addosso!”.
Amen.