“Àlzati,
prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti
avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo” (Mt
2,13-15.19-23).
Oggi,
festa della Santa Famiglia.
Quando pensiamo alla famiglia di Gesù, siamo portati a pensare ad una minuscola
comunità esente da ogni difficoltà e contrarietà. Di essa ci è stata talvolta
tramandata un’immagine paradisiaca, celestiale. Invece era una famiglia come
tante altre; anzi, a ben vedere, una famiglia con più problemi di tante altre:
una madre rimasta incinta non si sa come; un padre che, dopo la nascita del
figlio, scompare (che fine ha fatto Giuseppe nel vangelo?); un figlio molto
difficile da capire, che finisce col diventare sovversivo e rivoluzionario; una
famiglia, che per sfuggire il pericolo di soccombere, è costretta a scappare, a
fuggire dalla propria terra e a rifugiarsi in Egitto. Beh, se non è “anomala”
questa famiglia, non lo è davvero nessuna!
A volte
si vedono famiglie che dal di fuori sembrano il paradiso in terra, la
perfezione concretizzata. Sembra che tutti si amino, che tutti siano felici,
che tutte le cose vadano per il meglio. Sembra!
Invece
quante difficoltà! Quanti problemi covano sotto l’apparenza esteriore. Quanta
pazienza è necessaria per far quadrare il cerchio! Del resto le difficoltà le
avevano anche Gesù, Maria e Giuseppe, nel piccolo paesino di Nazareth: ed essi erano
veramente santi! Perché allora noi, che non siamo proprio dei santi, dovremmo
esserne esenti?
La
famiglia non è il luogo della perfezione assoluta, dei sorrisi paradisiaci, del
“tutto va sempre bene”; la famiglia è, certamente, il luogo dove possiamo
abbeverarci d’amore; ma sempre di amore umano si tratta; il quale, come
sappiamo, è quello che è, parziale, limitato, mai perfetto, perché legato alla
fragilità umana; anche se è tremendamente bello, intenso, importante, che solo
quando non c’è più, se ne capisce il valore.
Purtroppo
anche se molte famiglie si ritrovano a vivere insieme, anche se siedono sempre
attorno allo stesso tavolo, non sono “famiglia”: c’è infatti la famiglia-autogrill
in cui uno mangia e poi scappa; c’è la famiglia-caserma, in cui uno ordina, uno
comanda, e gli altri devono obbedire; c’è la famiglia-albergo in cui
tutto è perfetto, ordinato, ma dove non c’è vita, non si ride e non si scherza insieme, non
ci si racconta e non ci si ascolta; c’è la famiglia-tv dove il
padre guarda la partita o il telegiornale e tutti gli altri devono stare in silenzio.
Nella
nostra società ci sono molte tipologie di case, molte abitazioni: c’è la
casa al mare, in montagna, all’estero; c’è una “seconda casa” che è il pub,
l’osteria, la piazza, dove quasi sempre non c’è nessuno che ci ascolta, nessuno
con cui ridere, con cui piangere, con cui mostrarsi per quello che si è. Tante
case, tante stanze, tanti locali diversi, tante scelte di vita, ma di “famiglie” vere, ce ne sono ben poche. Molto poche!
Perché non
basta che due individui si mettano insieme, vivano sotto lo stesso tetto, per
essere una “famiglia”. Ci vogliono soprattutto due genitori esperti, maturi, un
padre e una madre consapevoli di affrontare un ruolo estremamente importante.
Ora, se
per i bambini c’è la scuola materna, elementare, media, superiore,
l’università; se per andare in auto c’è l’autoscuola, se per fare un qualsiasi
lavoro (anche l’operatore ecologico o l’assistente domiciliare) ci sono corsi
di formazione specializzati, per chi vuol formare una famiglia, per essere
genitori responsabili, in grado di educare, non esiste purtroppo nessuna
scuola. Eppure ci sarebbe anche per loro una grande necessità di andare a
scuola! Ma chi può insegnare loro? Da chi possono imparare?
Eppure
una famiglia esemplare, una famiglia che può insegnare a tutti, una famiglia
autentica maestra, c’è: è quella che festeggiamo oggi; è quella che, con l’esempio,
ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà, con il comportamento ci ha
indicato quei principi fondamentali che ciascun genitore dovrebbe praticare e
trasmettere ai propri figli: l’amore, la pazienza, l’umiltà, la sopportazione,
la preghiera.
Tutti i genitori, papà e mamme, sono chiamati ad
imparare a questa scuola. Perché una famiglia che non trova in sé stessa entusiasmo,
amore, sopportazione, rispetto reciproco, momenti di crescita spirituale, è
destinata ad appiattirsi, a rinsecchirsi, ad esaurirsi e, prima o poi, a
perdere ogni linfa vitale, a morire. In tale
contesto, il vangelo di oggi ci presenta i primi giorni della vita terrena di
Gesù.
La
storia del piccolo Gesù ci ripropone un po’ quello che, in qualche modo, è il
“destino” di ogni bambino. Ogni bambino ha un suo “Erode”: per crescere deve
soffrire, superare difficoltà, conflitti, umiliazioni. Ogni bambino deve, in
qualche modo, fuggire dalla propria abitazione, da quello che lui è, dalla
profondità del suo essere, ed emigrare, diventare adulto, diventare un altro. E
tutto questo per salvarsi, per affermarsi. Ogni bambino, fortunatamente, ha una
forza interna, la forza del suo voler vivere ad ogni costo, che è più grande di
tutte le forze contrarie, avverse e che gli permette di tornare sempre nella
“sua casa”, nella terra promessa.
Soffocare,
uccidere il bambino che è in noi, è la più grande tragedia della vita, è la vera
strage degli innocenti: perché egli è quella parte di noi che sa stupirsi; che
sa amare pienamente, completamente, sinceramente, che si dà senza trattenere
niente; è la parte di noi che sente, che ascolta, che vive tutto con intensità,
che nel bisogno sa chiedere aiuto, che non si sopravvaluta, che conosce i
propri limiti; ma è anche quella parte di noi che è felice, che danza, che
canta, che ride, che gioca, che si sporca, che si butta per terra, che se ne
frega di cosa dice la gente.
È così
bello lasciarsi andare! Perché è la vita che è bella! Dobbiamo soltanto vincere
la paura del nostro “Erode”: che però, a ben guardare, è lui che ci teme di
più!
La festa
di oggi infatti è anche la paura di Erode per un bambino: che cosa può fargli
un bambino? Eppure Erode è terrorizzato da quel bambino, ha paura a lasciargli
spazio, ha paura che cresca, che prenda forza; ha paura di non saperlo più
controllare. E non sa che quello che lui condanna e cerca di uccidere è,
invece, la sua stessa salvezza, è il suo Salvatore.
La
strage degli innocenti si compie pertanto ogni volta che noi lasciamo morire,
che ci dimentichiamo delle urla, delle violenze, del pianto, della tristezza
del “nostro” bambino: ed altri innocenti (che non c’entrano niente) saranno
costretti a subire la nostra collera, il nostro disagio, la nostra rabbia. E
saranno proprio i nostri figli, i nostri amici, le persone che amiamo, quelli
di cui diciamo: “Con loro sarà diverso!” (e non lo sarà!), che subiranno tutta
la nostra collera, il nostro dolore e il nostro disagio, perpetuando una catena
senza fine.
Guardare
quel nostro “bambino”, è tornare a guardare oltre le nostre deformità, a quando
i mali e i condizionamenti subiti, non avevano ancora segnato il nostro
vissuto. È tornare a vederci come siamo usciti dalle mani di Dio. È poterci
vedere nella nostra unicità, nella nostra bellezza, nel nostro esistere per un
motivo ben preciso. È vedere che veniamo dall’alto, da Dio. È vedere che c’è
una parte di noi che nessun Erode potrà mai distruggere. È trovare la forza, un
punto d’appoggio, per ripartire.
Perché solo
rialzandoci dalle miserie della vita, potremo vederci come Dio ci ha pensato,
prima che il nostro volto si sfigurasse: solo allora potremo vedere la nostra
infinita bellezza, la nostra grandezza e preziosità, e ci sarà chiaro che siamo
angeli, che siamo figli di Dio. Chi riesce a vedere il bambino che egli era,
riesce a capire finalmente cosa vuol dire che Dio si è fatto carne, uomo, in
lui, in noi, in tutti: e lo vede concretamente! Amen.
“Maria,
essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si
trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era
uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in
segreto” (Mt 1,18-24).
Per
Giuseppe non fu sicuramente una notte facile quella! Lui i suoi progetti li
aveva, eccome. Progetti modesti, da giovane artigiano: la bottega andava bene,
merito della sua bravura e della sua affabilità con i clienti. Certo, non era
una gran piazza, Nazareth, ma col tempo, chissà, avrebbe potuto ingrandirsi e,
addirittura, trasferirsi nella vicina Sefforis. Da lì a poco avrebbe preso in
casa la sua promessa sposa Maria, che tutti gli invidiavano per la bellezza e
la modestia innata. Insomma, per Giuseppe, il pensiero di una famiglia con
quella ragazza che gli aveva rapito il cuore, era fonte di gioia incontenibile.
Improvvisamente
però, i progetti di Giuseppe vengono frantumati da un impensabile intervento di
Dio: l’inattesa e impensabile gravidanza di Maria, della quale lui non è
responsabile, lo getta nell’angoscia. Ma come: Maria? Proprio lei? Come è
potuto succedere? Lui è l'unico a sapere che quel figlio non è frutto del suo
seme. L'unico, insieme a Maria. Ed ora, cosa fare?
Non è il
tempo della rabbia, questo, né del piangersi addosso; è il tempo di agire. Consegnarla
alle autorità, abbandonandola al suo destino? Lui sa bene che il destino delle
donne adultere è la pubblica lapidazione. No, non può fare questo.
La notte
sopraggiunta alla tragica notizia, deve essere stata quindi terribile per il povero
Giuseppe: l’ansia che lo tiene sveglio, il rigirarsi continuamente nel
pagliericcio, le orribili visioni del domani che continuano a gettarlo nella
disperazione più cupa. Ha sempre davanti agli occhi il volto sorridente di
Maria: non riesce a capacitarsi, a credere alla realtà, non vuole arrendersi
all'evidenza. Il suo orgoglio di maschio è sicuramente ferito, ma la tenerezza
e le lacrime dell’innamorato hanno ben presto la meglio.
Il suo
cuore improvvisamente si placa quando decide di seguire una soluzione
alternativa: al rabbino avrebbe detto che si è stancato di Maria, che non l’ama
più e che quindi scioglieva il contratto matrimoniale. Maria ne sarebbe uscita
con l'onore compromesso, certo, ma avrebbe avuto la vita salva. Ecco, sì, questa
è una buona idea. Perché Lui amava immensamente la sua giovane promessa sposa.
Il
racconto potrebbe anche concludersi qui e noi potremmo già identificarci nella
nostra vita personale con tutti i sogni infranti da un imprevisto, da una
malattia, da un incidente, da una ingiustizia patita, dalle tante contrarietà che
ci hanno ingiustamente frenato nelle nostre legittime aspirazioni. Parlo
ovviamente non dei piccoli sogni legati a cose materiali, ma penso ai grandi
progetti di vita, alla realizzazione di un futuro familiare e professionale
dignitoso e stabile. Anche nel nostro cammino di fede possiamo a volte
sperimentare impedimenti e disagi, quando pensiamo che Dio si sia allontanato
da noi, e percepiamo la chiesa non come rifugio, ma come un ostacolo, con il
risultato che quanto credevamo importante e fondamentale, ci sfugge e muore.
La
storia di Giuseppe raccontata da Matteo, però, non finisce qui: non termina
nemmeno con il suo proposito di agire nei confronti di Maria con bontà e rettitudine.
Dopo il
dormiveglia tormentato dai dubbi e dall’angoscia, finalmente il sonno arriva:
lo prende sul fare del mattino. Ed è lì che succede: un angelo, materializzatosi
improvvisamente nel sonno, gli parla di una missione da compiere, di un figlio
che avrebbe salvato il mondo, che lui, Giuseppe, non deve preoccuparsi di nulla,
perché questa è la volontà dell’Altissimo. Un sogno strano, dolce, quasi vero.
Maria era sua, era la sua sposa, ma Dio dall’eternità si era innamorato di lei,
e aveva scelto il suo grembo verginale per la nascita del Verbo, suo Figlio.
Nel
sogno Giuseppe tace: è stupito, attonito, senza parole. Poi si sveglia, sereno.
I pensieri bui sono lontani, fuggiti con le tenebre: ora Giuseppe ha riacquistato
tutta la sua forza e il suo entusiasmo: se Maria ha accettato di prestare il
grembo a Dio, lui, Giuseppe, può anche fargli da padre a quel Dio che sarebbe
nato.
Un nuovo
progetto prende forma in Lui proprio dalle rovine del precedente, ormai irreparabilmente
distrutto: Dio lo vuole coinvolgere in una storia che è decisamente superiore
alle sue umane possibilità, una storia che vede come protagonista Maria, la sua
giovane sposa:
Dio vuole
entrare nella storia umana, servendosi della loro collaborazione.
Matteo,
ottimo conoscitore dell’animo umano, ci fa notare che Giuseppe è “giusto”: cioè
irreprensibile, autentico, onesto, un uomo pieno di dignità, non vendicativo;
uno che non giudica secondo le apparenze; che pur ferito come marito, capisce
che Dio, per assumere le sembianze umane, ha scelto Maria, e nella generosità
del suo cuore, lascia prevalere la tenerezza e l’amore per quella sposa che
deve condividere con Lui. È “giusto” perché, mettendosi dalla parte di Dio, si
oppone alla follia dominante e al giudizio di morte della gente. Giuseppe è
“giusto”, come potremmo esserlo tutti noi, se solo sapessimo amare come lui, e
permettessimo umilmente a Dio di disporre di noi secondo la sua volontà.
Cerchiamo
allora di imitarlo: mettiamo da parte la nostra voglia di apparire, coltiviamo
seriamente in noi quelle virtù che devono essere sempre i nostri valori
fondamentali: la mitezza, la bontà, la pazienza, la carità; impariamo a vivere
la chiamata di Dio con il massimo impegno nell’umiltà, nel nascondimento: del
resto, Dio conosce già perfettamente il nostro intimo e tutto quanto ci
riguarda, e non gli serve una campagna pubblicitaria per quel poco che
facciamo; il protagonismo ad ogni costo lasciamolo agli uomini del mondo:
uomini che purtroppo oggi sono sempre più arroganti e ipocriti, gente che urla
soltanto, per imporre il nulla che è in loro.
Di
quanti Giuseppe avrebbe bisogno oggi la società! In politica, negli uffici, in
famiglia, nei rapporti di coppia, nelle comunità religiose: uomini e donne
“giusti”, sui quali Dio può veramente contare, dei quali può fidarsi in tutto,
per realizzare nel mondo i suoi progetti di salvezza!
Ma non
basta. Per far nascere Dio in noi, dobbiamo essere anche dei “sognatori”, gente
che in questo mondo disincantato e cinico, ha il coraggio di credere ancora
negli ideali, nelle promesse di Dio. Come Giuseppe, dobbiamo avere il coraggio
del sogno, di piegare la nostra volontà a quella di Dio che ci chiede di collaborare
al Suo progetto divino di salvare il mondo: un progetto che, dopo il suo
ritorno al Padre, egli ha affidato alla sua Chiesa; un progetto divino che pertanto
ci vede tutti responsabilmente coinvolti, consapevoli che se non sappiamo più
sognare il nostro inserimento in Dio, se non inseguiamo gli ideali che Lui ci
ha lasciato nel Vangelo, se non li ascoltiamo, se non li dimostriamo al mondo
con la nostra vita, finiamo per soffocare lo Spirito di Dio in noi, continuando
a vivere da parassiti, servi inutili, tralci infruttuosi, destinati ad essere
recisi e bruciati.
Viviamo allora
anche noi l’imminente Natale con la stessa fede di Giuseppe: viviamolo coinvolti
come lui, nella sorpresa di un Dio perdutamente innamorato di noi, che non ci
vuole inerti spettatori, pusillanimi e rinunciatari, ma discepoli innamorati in
continua tensione verso il compimento della Sua volontà.
Questo è
il mio cordiale e sincero augurio a tutti voi. Buon Natale.
Amen.
“Sei
tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2-11).
Oggi, la
Parola ci fa incontrare ancora una volta Giovanni: questa volta però è un uomo
ben diverso dall’esaltato e scontroso urlatore del deserto: è in carcere e sa
che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia covata nei suoi
confronti da una isterica cortigiana che manovrava la debolezza di un
re-fantoccio.
Giovanni
ha vissuto tutta la sua vita di predicatore scomodo solo per preparare la
strada al Messia, senza alcun riguardo verso coloro che vivevano nel peccato e
nel vizio; e quando lo ha finalmente riconosciuto, il Messia, nascosto tra la
folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare, lo ha accolto schernendosi,
riconoscendo in lui il “potente” che dopo di lui avrebbe battezzato non con
l’acqua ma con lo Spirito santo e fuoco; in cuor suo però era rimasto stupito, confuso
per l'atteggiamento riservato e umile, con cui si era presentato colui che
doveva essere il Salvatore del mondo.
Ora,
nella solitudine del carcere, Giovanni è perplesso; pensa, è dubbioso. Le
notizie che i suoi inviati gli riportano non fanno che accrescere le sue perplessità,
lasciandolo costernato: il Messia non si sta comportando come un condottiero,
un capo del popolo, non incita con veemenza la gente, non è rivoluzionario né
tantomeno catastrofico, non annuncia l’imminente giudizio di Dio, non minaccia
la sua vendetta con il fuoco divorante. Gesù, al contrario, continuando nel suo
profilo basso, semplice, suadente: offre perdono incondizionato a tutti,
rimette le colpe, non minaccia né attua vendette, dice che quel “fuoco divorante”
Lui lo vuole accendere, certo, ma partendo dall'amore, non dal terrore. È insomma
un Messia troppo dissimile da quello che Giovanni e Israele si aspettavano, è un
personaggio completamente fuori schema, fuori da ogni loro sospirata previsione.
Del
resto Dio spiazza sempre tutti: anche quelle persone che, come Giovanni, vivono
la radicalità della fede, rischiando di costruirsi un Dio a propria immagine e
somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni si aspetta, è una venuta plateale,
una irruzione nella storia con un frastuono assordante, accompagnata da schiere
di angeli trionfanti. Gesù, invece, è solo; ci svela il volto di un Dio
riservato, quasi nascosto: evidente, certo, ma pieno di ogni tenerezza e
sensibilità, in ogni caso mai in maniera banale.
Gesù
praticamente ci svela un Dio che divide il mondo in chi ama, o cerca di amare,
o almeno si lascia amare, e chi no, in chi cioè gli volta le spalle. L'amore è
una possibilità immensa, è l'unica cosa che ci lega tutti. Non i risultati, non
gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare, nella
fragilità di ciò che siamo o che ci impegniamo di essere.
Ma noi,
dal canto nostro, siamo certi di Dio? Riprendiamo allora in mano il Vangelo e
chiediamo a Dio, nella preghiera, di condurci sempre per mano nella nostra autenticità.
Siamo sempre pieni di dubbi? Consoliamoci, non siamo i soli: anche il più
grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi.
“Andate
e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…” replica Gesù ai discepoli che il
Battista aveva inviato per informarsi sulla sua identità; non dà loro una
risposta esauriente. Devono trarla da soli. La fede non richiede l’evidenza, non
necessita di “prove certe”, Dio non è il risultato di un teorema scientifico,
con buona pace di quei simpaticoni, che pretendono di vedere l’anima nelle
radiografie! Ci vengono offerti degli indizi, solo deboli indizi che lasciano
intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, siamo noi
che dobbiamo trovarlo, accantonando le nostre ideologie, prendendo coscienza e
conoscenza di noi stessi e del Dio che abita in noi.
“Guardati
intorno, Giovanni”, è in pratica l’incoraggiamento di Gesù a suo cugino, dopo
avergli elencato i grandi segni messianici profetizzati al popolo da Isaia.
Ecco, questo è il punto: per riconoscere
i segni della presenza di Dio, dobbiamo anche noi “guardarci intorno”: renderci
conto di quante persone nel mondo hanno incontrato Dio, e continuano ad
incontrarlo: magari gente disperata, che trovandolo, ha dato un senso alla loro
vita, convertendo il proprio cuore; persone straziate dal dolore, arrabbiate
con Dio, che hanno imparato grazie a Lui, a perdonare; persone accecate
dall'invidia o dalla cupidigia che con Lui hanno messo le ali, trasformandosi
in gioia, in bontà, in amore quotidiano, in donazione di sé stessi! Dobbiamo
guardare anche noi, come Giovanni, quelli che sono i segni della vittoria
silenziosa del Messia, la forza dirompente del Vangelo
sulle persone che cambiano, che guariscono, che scoprono Dio, potendo così ammirare,
nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto, gesti di totale gratuità, vite
consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in deserti di
solitudine e di egoismo.
Dobbiamo
guardare e riconoscere in questi segni la presenza del Regno di Dio.
Purtroppo
spesso non li vediamo, non ce ne rendiamo conto, non li vogliamo vedere, non li
possiamo vedere, perché il problema tragico del nostro tempo è proprio quella cecità
interiore che impedisce di vedere, di toccare con mano la presenza di Dio,
nascosta, silenziosa, ma decisamente reale e concreta, in tutto ciò che ci
circonda.
Quante
sfumature della natura i nostri occhi, ispessiti dall’egoismo, non riescono a
cogliere! Meraviglie che ci lasciano indifferenti, che non ci colpiscono, non
ci stupiscono! Se la folgorante luce di Cristo non ci illumina l’anima e il
cuore, nulla purtroppo di ciò che vediamo potrà mai estasiarci. Senza di Lui rimaniamo
solo tanti ciechi famelici. Qualunque cosa guardiamo, la sviliamo, la insudiciamo;
la osserviamo, ma solo per desiderarla, per prenderla, per possederla. Guardiamo,
scrutiamo, ma non “vediamo”!
“I ciechi riacquistano la vista”:
chi invece incontra Dio, vede,
ammira, apprezza e gusta tutto, senza pretendere di possedere nulla. Si sazia e
si disseta con ciò che ammira, senza calpestare niente e nessuno; entra nei
cuori e nei volti dei fratelli, come un raggio di sole che penetra nelle case
attraverso i vetri: lo fa gradualmente, con rispetto, con dolcezza. Entra e non
si impadronisce di nulla, non sporca, non crea disordine, non rovina nulla.
Entra ed esce delicatamente, senza alterare o sconvolgere nulla.
Prepararsi
al Natale significa, allora, modificare il nostro sguardo, far constatare ai
tanti distratti, a noi ovviamente per primi, che il Regno avanza, è presente,
che tutti possiamo renderlo presente, contribuire a realizzarlo. Impariamo
tutti a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dalla
nostra indifferenza, dal nostro dolore, per accorgerci della presenza e della salvezza
di Dio, che si attua continuamente nelle nostre soffocate città.
In
questa manciata di giorni che mancano al Natale, diventiamo anche noi segno di
speranza per quanti a Natale si sentono abbandonati, soli, dimenticati! Pochi
giorni per assicurare chi non sa se Dio c'è, e si chiede se anche il Nazareno,
in fondo, non sia che un grande inganno, che Dio c'è, che è amore: diciamo loro
come Dio abbia cambiato la nostra vita, come ci abbia soccorso nel dolore e
nelle prove della vita. Perché Dio c’è veramente! Ecco, sia questa la nostra
prospettiva, in un mondo che si dibatte tra problemi irrisolti, ipotesi
strampalate, dubbi laceranti, dilaganti incertezze. Domandiamoci, come singoli
credenti e come Chiesa, se siamo la risposta vivente alle domande profonde e
incalzanti di tante persone che si dibattono nel buio; domandiamoci se siamo
veramente quella risposta, che si trasforma in offerta di solidarietà, in atteggiamento
di ascolto, in annuncio di speranza... Amen.
“Rallegrati,
piena di grazia: il Signore è con te” (Lc 1,26-38)
Un
angelo, un messaggero di Dio, si presenta in una casupola, meglio una grotta,
situata tra le montagne della sperduta Galilea, abitata da un’umile e povera
ragazza. E proprio qui la Parola di Dio, pur incomprensibile e inspiegabile,
trova da parte della fanciulla la massima accoglienza.
Dio
aveva già inviato il suo portavoce in una precedente occasione: nella religiosissima
Giudea, nella civilissima e celebre Gerusalemme; e lo aveva mandato da un
sacerdote del Tempio, Zaccaria, un “giusto”, un addetto alle cerimonie
sacrificali, uno che era in costante contatto col “divino”. Solo che quel
giusto, quel sacerdote, non gli aveva creduto, gli aveva argomentato che il
messaggio recapitatogli, vista la situazione, non poteva essere altro che una “fandonia”.
Un sacerdote che non crede, però, non ha nulla da dire al popolo: dice magari
tante parole, racconta un sacco di cose, ma non trasmette nulla, non è un
portavoce (pro-feta) di Dio. Per questo, Dio lo ha reso muto. Eppure, ciò che
Dio attraverso il suo angelo gli proponeva, non doveva poi suonargli tanto
strano, visto che lui era uno che conosceva molto bene la Bibbia: tante altre
volte, infatti, Dio aveva fatto nascere figli da donne sterili: per esempio
Sara, prima di avere Isacco, era sterile; Rebecca prima di avere Esaù e
Giacobbe era sterile; i loro mariti erano Abramo e Isacco, personaggi
famosissimi. Anche la madre di Sansone era sterile; anche Anna, Michal, la
donna Shunammita, ecc. Perché non poteva succedere anche a sua moglie Elisabetta?
Zaccaria insomma era un sant’uomo, uno che sapeva tutto di Dio, ma che, in
pratica, non “aveva” Dio. E a volte il troppo nasconde proprio l'insufficienza: uno
cerca di sapere tutto, proprio perché non “possiede” ciò che cerca: e non
“possiede” perché cerca con la mente ciò che invece va cercato con il cuore e
con l’anima.
Dunque:
dopo aver fallito il primo tentativo (con Zaccaria), l’angelo Gabriele ci
riprova. Ma questa volta fa tutto in maniera completamente diversa. Prima era
andato nella Giudea, terra santa e fedele a Dio, protagonista della storia
della salvezza; ora va in Galilea, regione del nord, dove la popolazione si è
mescolata con i pagani; una regione marchiata dal profeta Isaia come “Terra
pagana”. Giuseppe Flavio, storico del tempo, aggiunge che i galilei
erano persone litigiose, piantagrane; erano i poveri, i diseredati del tempo,
i braccianti dell’epoca, sfruttati dai latifondisti della Giudea, e per questo
continuamente in ebollizione, in rivoluzione. Al punto da far esclamare
Natanaele: “Cosa può venire mai di buono da Nazaret?” (Gv 1,46). Erano insomma considerati degli incivili, abitavano in case per la maggior parte ricavate in
caverne, nelle grotte; gente che era meglio lasciar perdere.
In stridente contrasto
con le pietre preziose, con la sontuosità e lo splendore del tempio, questa
volta l’angelo entra in una misera casupola, in parte ricavata dalla roccia,
con delle mura fatiscenti. Prima da un uomo e adesso da una ragazza, da una
donna: cosa riprovevole, una bestemmia, un’eresia. La nascita di una donna
infatti era considerata una disgrazia, una punizione lanciata da Dio contro
determinati peccati; la nascita di una bambina veniva vista come un fastidio. Le donne
non avevano nessun diritto, erano impure, e per giustificare questo si chiamava
in causa la Bibbia. Quindi, che Dio si potesse rivolgere ad una donna era
totalmente impensabile, fuori da ogni ragionamento.
Ma ciò
che è assurdo per gli uomini non lo è affatto per Dio! Dio non guarda ciò che
guarda l’uomo. Cosa fa allora l’angelo Gabriele?
«Nel
sesto mese...». I numeri per la Bibbia hanno sempre un valore ben definito.
Per esempio nella creazione, Dio ha lavorato per sei giorni: il settimo l’ha
riservato a sé stesso: dopo i sei giorni è arrivato quindi il giorno
di Dio, un evento divino, un incontro con Dio. Per cui quando Luca scrive
qui “nel sesto mese” lascia già capire che più tardi arriverà qualcosa
di soprannaturale, di divino.
E da chi
va Gabriele? Da una donna, promessa sposa, che si chiama Maria. Luca inserisce
volutamente il nome; ora, per noi, “Maria” è un nome soave; ma di certo non lo
era a quel tempo: nella Bibbia esiste una sola Maria, la sorella di Mosè; una
donna molto ambiziosa, che aveva cercato di fare le scarpe al fratello Mosè.
Per questo Dio la maledisse con la lebbra (la lebbra era la maledizione di
Dio). Dopo quella Maria nessuna più si chiamerà con quel nome fino alla madre
di Gesù. Perché? Perché era un nome maledetto, oggetto di maledizione. Nessuno
di noi metterebbe nome a suo figlio “Giuda”, un nome che si collega ad un
traditore. Così era per Maria.
Quando
l’angelo entra le dice: «Ti saluto o piena di grazia»: “Kecaritwmnj”, “riempita di grazia”; non si
riferisce alla bravura di Maria, ai suoi meriti, al fatto che nessuna donna era
brava quanto lei. No! Si riferisce all’azione di Dio. Lei è niente
(Galilea, Nazareth, donna, Maria, ecc.) eppure Dio, di sua iniziativa, gratuitamente
la riempie, la colma. Questa è la grandezza di Maria: Maria è grande non perché
era santa o perfetta (come viene descritta in certe litanie) ma perché è la
prima ad accogliere senza pretese l’amore gratuito di Dio.
Mentre
Zaccaria e i sacerdoti del Tempio volevano conquistarsi l’amore di Dio
con le preghiere, i riti e la santità, Maria non fa nient’altro che dirgli:
“Sì”. Perché l’amore di Dio è immeritato, è sempre gratuito.
L’angelo
poi le dice: «Concepirai un figlio, lo darai alla luce, e lo chiamerai Gesù».
Ma le donne ebree non potevano mai mettere il nome ai figli: erano sempre e
solo i padri che lo facevano! Questa volta però sta succedendo veramente
qualcosa di straordinario: Dio rompe completamente con ogni tradizione
precedente, inizia un nuovo corso, qualcosa di completamente nuovo.
È Dio infatti
che si manifesta come il totalmente nuovo: nessuno lo può controllare,
nessuno può chiedergli spiegazioni, rassicurazioni, perché nessuno conosce
questo “nuovo”. Qual è allora l’unica cosa da dire? La stessa di Maria:
“Non so dove, non so come, non so perché, non so quando, ma mi fido di te”.
Tutto qui.
E Maria
risponde all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo!». Zaccaria era
stato incredulo, Maria no. Lei vuole soltanto sapere il come, come avverrà
tutto questo. In passato qualcuno, appellandosi proprio a questa frase,
affermava che Maria avesse fatto voto di verginità. Ma questa cosa è
impossibile per il mondo ebraico. Noi invece sappiamo perché Maria ha delle
perplessità: perché era nella prima fase del suo matrimonio: era cioè
fidanzata, già sposata, ma non ancora convivente: oltretutto risultare incinta
in quel periodo, significava condanna e morte sicura.
E
l’angelo spiega: «Lo Spirito Santo scenderà su di te». Emblematica
questa frase; Luca mette qui in parallelo la discesa dello Spirito Santo su
Maria, con la discesa dello Spirito Santo sulla prima chiesa. E chi è presente
ora, come anche allora? Sempre Maria (At 1,14)!
Per il
vangelo, dunque, Maria è la donna dello Spirito, è colei che vive, dall’inizio
alla fine, guidata sempre dallo Spirito. Lui la guida e lei lo segue.
«Sono
la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». I “servi del
Signore”, nella Bibbia, sono quelli che hanno obbedito ai comandi di Dio e
che lo hanno seguito. Maria è l’ultima serva del Signore. È colei che
chiude un tempo: dopo di lei nessuno sarà più “servo”, ma soltanto “figlio”.
Maria quindi affida all’angelo il
suo “Sì” da riferire a Dio; anche se non sa esattamente a cosa dice sì; il suo
è un sì totalmente nuovo, totalmente diverso da ciò che lei poteva pensare e
capire. Ma apre comunque il suo cuore, offre la sua piena disponibilità. Perché
Lei si fida di Dio. È per questo che apre un tempo nuovo, un nuovo corso
storico: il tempo della fiducia. “Mi fido di te”. Essere uomini e donne
“dello Spirito”, vuol dire appunto fidarsi di Dio: significa rispondere
ad ogni sua chiamata con un “Sì” pieno e generoso.
Al contrario noi ci chiudiamo
ermeticamente, recalcitriamo, dubitiamo, non ci fidiamo: siamo diffidenti
perché guardiamo solo a noi stessi e non a Lui. Non vorremmo avere problemi: ma
i problemi li troviamo, e numerosi anche, se continuiamo ad assecondare il
nostro egoismo, se ascoltiamo solo noi stessi. Per questo dobbiamo rinforzare la
nostra fede. Perché solo una fede sincera, disinteressata, umile, potrà far
sgorgare, dal profondo del cuore, il nostro “si” a Dio: “Sì, Signore, mi fido
di te!”. Sull’esempio di Maria. Amen.
“Vegliate,
perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà” (Mt 24,37-44).
Dio
arriva quando meno ce lo aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o
crediamo di cercarlo, e magari stoltamente convinti di averlo trovato, ci
adagiamo senza fare più nulla, lasciando che la vita continui a scorrerci addosso,
con i suoi desideri, le sue delusioni, le sue scoperte, le sue paure, i suoi
entusiasmi e i suoi fallimenti.
Per questo
abbiamo bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, per guardare dove stiamo
andando, di trovare un filo conduttore che dia un senso a tutte le nostre
vicende.
Con l'avvento,
tempo di silenzio, di meditazione e di revisione interiore, un nuovo anno
liturgico si apre davanti a noi, portandoci al grande appuntamento col Dio in
noi: il Natale.
Non il
Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso: uno
stravolgimento del vero Natale, una fiera insopportabile della bontà posticcia e
fasulla, che ha ridotto il Natale di Gesù ad una festa di compleanno, priva di
qualunque espressione d’amore per il festeggiato.
Non è
questo il nostro Natale: perché noi abbiamo necessità di incontrare solo quel
Dio, che ogni anno cerca di rinascere bambino nei nostri cuori, diventando nuovamente
accessibile, incontrabile, con il suo volto sorridente, ben riconoscibile e
invitante.
Da oggi
iniziamo a leggere Matteo, il pubblicano peccatore divenuto discepolo di Gesù: il
suo vangelo, ci accompagnerà e ci incoraggerà sull'impervia strada della nostra
conversione.
Il brano
di oggi, tipicamente escatologico, non è facilmente comprensibile, e rischia di
essere letto in chiave sbagliata.
Gesù,
come al solito, è straordinario; si spiega cioè riferendosi agli eventi antichi:
al tempo di Noè, per esempio, tutti, buoni e cattivi, vivevano nella
superficialità: mangiavano, bevevano, si sposavano e facevano figli ma non si
accorgevano di nulla, non pensavano a nulla. Tutti vivevano nelle loro illusioni,
tutti si guardavano bene dall’accorgersi di ciò che succedeva intorno a loro, dall’aprire
gli occhi sul futuro, perché aprirli avrebbe richiesto un cambiamento radicale
della loro condotta. Così venne il diluvio e travolse tutti. “Tenetevi
pronti” è dunque il suo invito conclusivo, vegliate, state allerta,
pronti, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. In quel
giorno, infatti, uno sarà preso, l'altro lasciato; uno incontrerà Dio, l'altro
no; uno sarà salvato, l'altro abbandonato a sé stesso. Dio è discreto, modesto,
non impone la sua presenza, ma la sua venuta finale è improvvisa,
imprevedibile, tremenda. Un chiaro riferimento, ovviamente, all’“eskaton”,
alle realtà ultime, al ritorno finale e glorioso di Dio.
A noi però
è chiesto, nel frattempo, di prepararci a fare memoria anche di un’altra
venuta, meno traumatica e decisamente più consolante, quella di Cristo
redentore che, assumendo le nostre sembianze umane, è venuto per riscattare
l’umanità dal peccato.
La
Chiesa dedica a questo evento quattro settimane: un “tempo favorevole” in cui spalancare
il nostro cuore, aprire gli occhi, e lasciar esplodere il desiderio di incontrare
Dio. Come?
Le vie
sono tante, basta convinzione e buona volontà: da umili principianti, per
esempio, cerchiamo di avvicinarci a Lui, ritagliandoci magari uno spazio
quotidiano per la preghiera, per la meditazione della Parola; oppure prima di
iniziare il lavoro o durante la giornata, facciamo una piccola deviazione per
entrare in una chiesa e salutare Gesù Eucaristia; ancora: cerchiamo di aiutare,
secondo le nostre possibilità, qualche nostro fratello più sfortunato di noi, con
un gesto di solidarietà, una buona parola e così via. Sono piccole cose che, se
vissute bene, ci aiuteranno sicuramente a sintonizzare la nostra anima col divino,
preparandoci ad accogliere più degnamente l’Emmanuele, il Dio con noi.
Purtroppo
in questo periodo veniamo sempre più bombardati da una assillante pubblicità in
vista del Natale, che ne
stravolge il suo messaggio religioso; immagini di
un buonismo fasullo, che esaltano puramente l’aspetto gaudente di una festività
senz’anima, ostentato con superficialità e stupidità.
Evitiamo allora che il Dio dei
poveri, il Dio che viene per gli emarginati di ogni tempo, il Dio che a Natale
non nasce nel sontuoso Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme,
continui ad essere sostituito da questo mondo con un buonismo sdolcinato e ipocrita.
Se gli anziani soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita, non
hanno anch’essi un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il
nostro essere cristiani, la nostra vita, il nostro esempio, il nostro annuncio
di pace divina, sono ancora confusi, ambigui, travolti anch’essi da una inutile
corsa al divertimento, alla spensieratezza, al benessere materiale.
Cerchiamo
nei prossimi giorni di attesa che sono davanti a noi, di non farci travolgere
da questo diluvio di parole e di immagini virtuali. Non lasciamoci fuorviare
dalla mentalità edonistica del mondo, che è riuscito a banalizzare la festa sconvolgente
di Dio che irrompe nella storia umana per salvarci da morte sicura.
Dobbiamo essere consapevoli di questo
dramma che purtroppo si consuma ogni anno: da un lato Dio che si offre e si fa
presente, dall’altro un’umanità assente, disinteressata, ignorante, che gli
volta le spalle, che non si accorge di nulla: figli di Dio, che non vogliono vederlo.
Purtroppo Cristo può nascere
mille volte a Betlemme, ma se non nasce dentro di noi è come se non fosse mai
nato.
Per noi
credenti, la solennità del Natale deve essere pertanto un pugno nello stomaco,
una provocazione, un evento che ci obbliga a schierarci decisamente con Dio
che, nella sua comprensione, nella sua dolcezza di Bambino, ci invita alla conversione.
In
queste quattro settimane in Chiesa, nella tradizionale corona d’Avvento, viene
accesa una nuova candela a settimana: quattro domeniche, quattro candele: per indicare
un cammino di luce durante il quale siamo invitati a fare maggior chiarezza nella
nostra vita, a far entrare in noi ogni giorno sempre più la luce di Dio, perché
possa illuminare i nostri instabili passi.
Quattro candele
che acquistano un significato solo se rappresentano un reale avanzamento,
ancorché minimo, nel nostro cammino spirituale, se esprimono veramente la luce
che rischiara il nostro buio opprimente, che illumina le nostre paure e le
vince; se ci illuminano con la luce del Sole, di Dio, che ci dice: “Non abbiate
paura, con me nessun buio vi potrà mai ostacolare. Non lasciatevi prendere
dallo sconforto, dal pessimismo, dallo scoraggiamento, io sono con voi!”.
Ecco: a
questo deve servirci l’Avvento: a riprenderci la nostra dignità di cristiani,
per prepararci ad accogliere Colui che vuole abitare in noi, nella nostra “anima”,
quel soffio divino del Padre, che “anima” la nostra vita.
Perché
questo è tempo di riflessione, di cambiamento, di metamorfosi; un tempo vitale
per poterci trasformare da inguardabili bruchi vermiformi, in leggiadre farfalle
che si librano in alto, attratte dalla luce del Sole eterno. Amen.
“In
verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,35-43)
La festa
di oggi, Gesù Cristo re dell’Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede,
una sfida alla nostra fragile contemporaneità, al nostro cristianesimo miope,
fatto di piccoli progetti.
Dire che
Cristo è re dell’universo, significa che Lui avrà l’ultima parola sulla storia,
su ogni storia, anche sulla nostra breve storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla
falsa evidenza della sconfitta di Dio in questo mondo; dire che Cristo è re,
significa credere invece che il mondo, nonostante tutto, non sta precipitando
nel caos, ma nell’abbraccio tenerissimo e amoroso del Padre. Dire che Cristo è
re, significa creare spazi di testimonianza nel Regno, là dove stiamo vivendo
la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi dimostrativi, per dire a quanti
hanno il cuore e la mente smarriti, “ecco, Dio vi ama”.
Cristo è
un re fuori dagli schemi. Anzi: la regalità di Gesù è una regalità che va
contro ogni nostra visione di un Re, per di più Dio; perché questo Dio Re è,
agli occhi del mondo, il più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di
ogni fragilità: un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un
re che necessita di un cartello per essere identificato. Non un Dio trionfante,
non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, messo alla gogna, sfigurato, piagato,
sconfitto.
Una
sconfitta, però, solo apparente, perché in realtà è la più esaltante vittoria
dell’amore, un impensabile dono di sé per la salvezza del mondo.
Un Dio
sconfitto per amore, un Dio che, contro ogni logica umana, manifesta la sua
grandezza nel dono di sé stesso e nel perdono. Lui si è messo completamente in
gioco, consegnandosi al mondo: non in maniera nascosta, non misteriosamente, ma
in modo evidente, provocatoriamente evidente! Appeso ad una croce, ha giocato
il tutto per tutto per piegare la durezza di cuore dell’uomo.
Gesù, è
venuto a dirci di Dio, a raccontarci il suo amore, la sua vicinanza, la sua
misericordia. Lui, figlio del Padre, ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E nonostante
ciò, gli uomini ancora rispondono: “No, grazie! Non ci serve un Dio così! Preferiamo
un Dio più lontano, magari scostante ed egoista, ma un po’ credulone, che
quando serve lo possiamo facilmente convincere con le nostre chiacchiere e tenercelo
buono con poco”.
Anche noi,
forse, preferiamo farci un Dio simile, un Dio che soddisfi di più le nostre
voglie, che ci assomigli di più nelle nostre fragilità umane, che non ci
costringa ad una conversione impegnativa, che non ci chieda una adesione
esclusiva, ma che si accontenti ogni tanto di qualche piccola attenzione; sicuramente
preferiamo un Dio che non condanni le nostre infedeltà, ma semplicemente un Dio
che le ignori, permettendoci di campare come meglio ci aggrada!
La
chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell’inquietante affermazione
della folla a Gesù: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Frase
che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: perché tutti
concordano nel ritenere un segno di debolezza salvare gli altri.
Il
potente, così come lo pensa il mondo, è colui che salva sé stesso, che può
permettersi di pensare solo a sé stesso, che ne ha i mezzi per farlo, senza
bisogno degli altri.
In quest’ottica,
Dio è un Dio con cui anche noi non possiamo misurarci: è il più potente dei
potenti, Colui che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno! È un Dio
che è per noi solo la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati
desideri, è ciò che ammiriamo nell’uomo potente, riuscito, ricco e sicuro; un
Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo,
di corromperlo.
Ma il
nostro Dio sulla croce, non salva sé stesso, non pensa a sé stesso, al
contrario pensa a noi, salva noi, ciascuno di noi! Perché è un Dio che si
auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendo il suo cuore misericordioso al
mondo, a me, a tutti.
I due
ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono l’immagine del nostro essere discepoli.
Sono due
malfattori, due uomini giustiziati secondo le leggi di quel tempo. Quello che
subiscono non è ingiusto, come al contrario lo è per Gesù: sono due malfattori,
hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, che
hanno mancato il bersaglio della loro vita (“peccato” in ebraico vuol
dire proprio “mancare il bersaglio”). Sanno di aver sbagliato. Il primo dei
due non lo ammette e non può ricevere il perdono, il secondo si.
Il primo
infatti sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa’ che accada quanto ti
chiedo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; egli,
cioè, concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente un suddito; ma a
certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, la sua salvezza in
extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la
sua vita, tenta puerilmente il colpo, se va va. La sua richiesta non è
amorevole: trasuda piccineria ed egoismo. Un po’ come il comportamento di tanti
nei confronti della fede. “Cosa ci guadagno se credo?”
L’altro
ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì
che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza, la sua, che è conseguenza
delle sue scelte; mentre quella di Dio è innocente e pura. Sente e percepisce
la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo
pentimento e chiede amore, misericordia, salvezza.
Ecco: questa
è l’icona del vero discepolo: di colui cioè che capisce che il volto di Dio è
compassione, tenerezza, amore e perdono.
Nella
nostra sofferenza umana, dobbiamo anche noi riconoscere: “davvero quest’uomo è
il Figlio di Dio! Questo è il nostro Dio, questo è il Re che vogliamo!”
Allora,
se finora abbiamo vissuto disinteressandoci di Dio, da oggi
dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo approfittati degli altri, da oggi
dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo disinteressati delle nostre infedeltà, da
oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo inveito contro Dio per ciò che ci
succede, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo vissuto nella paura e
nella difensiva, da oggi dobbiamo cambiare. Perché solo cambiando possiamo
immetterci sull’unica via che ci conduce a Dio, sulla via che ci permette di
unirci a Lui, nel suo amore. Amen.
“Mentre
alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi,
Gesù disse: Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata
pietra su pietra che non sarà distrutta” (Lc 21,5-19).
Leggendo
il vangelo di oggi, tre passaggi mi hanno particolarmente colpito: le
considerazioni che ne ho tratto, probabilmente non corrispondono alla usuale
interpretazione che viene data al testo, ma voglio comunque condividerle,
sperando che diventino motivo di meditazione anche per voi.
Primo
passaggio: “alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di
doni votivi…” (21,5).
Sono
parole che non si adattano solo al Tempio; forse sono ancor più riferibili ai “frequentatori
del Tempio”, cioè a tutti noi cristiani; basta guardarci attorno! Quanti (forse
io per primo) si atteggiano per quelli che non sono; quante volte amiamo
esibire in pubblico le nostre “pietre preziose” spirituali, le nostre pratiche
religiose, le nostre “buone” opere, la nostra messa, i nostri rosari, le nostre
elemosine, ostentando in esse una fede e una carità che forse in realtà non
abbiamo; quante volte ci accontentiamo di una pietà ridotta a portare al collo costosi
ornamenti esteriori, come corone del rosario, preziosi crocifissi d’oro e
medaglie sacre, piuttosto che consumare in umiltà e sincerità, nel segreto del
nostro cuore, il nostro intimo rapporto con Dio!
Per
molti, l’essere cristiani “praticanti”, purtroppo, si esaurisce qui: ma, dice
Gesù, tutto quello che vedete, tutto quello che è esteriore, tutto quello che è
esibizione e amor proprio, tutto verrà distrutto; tutto si rivelerà un nulla,
senza alcun valore.
Secondo
passaggio: “Badate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno nel mio nome.
Non andate dietro a loro!” (21,8).
Dobbiamo
veramente stare molto attenti: oggi purtroppo siamo costretti a convivere con
tantissimi pseudo profeti (conferenzieri, studiosi, preti, frati, teologi
moderni, medium, guaritori, ciarlatani vari ecc.); con gente che pur di
consolidare il proprio prestigio, pur di avere un “ritorno” mondano, applausi,
gloria mediatica, è pronta, vendendosi l’anima, a promuovere la sapienza
venefica di satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza
melliflua, affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e
dispensatrice dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, mirando esclusivamente
all’auto affermazione.
Terzo
passaggio: Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e
dagli amici…; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un
capello del vostro capo andrà perduto (21,16-18).
Capiterà
che saremo traditi e abbandonati da tutti, ma noi non saremo mai soli. Dio
continuerà sempre a starci vicino, pronto a venire in nostro aiuto, anche se lo
rinneghiamo, anche se non lo vogliamo. Può succedere qualunque terremoto,
qualunque disgrazia: quello che ci deve tranquillizzare è la certezza di avere
ogni momento Gesù al nostro fianco. Con Lui vicino non potrà mai succederci alcunché
di “male”.
Allora, se
siamo convinti di ciò, perché preoccuparci tanto? Perché vivere continuamente
nell’ansia, nell’angoscia?
L’angoscia,
lo sappiamo, è un male tremendo, mortale: è la sensazione di poter cadere ogni
istante in un baratro profondo, vittime del male, senza che nessuno possa
aiutarci.
È un
terrore costante che ci priva di qualunque certezza; è quel sentimento che ci
mette di fronte alla nostra impotenza, ai nostri limiti, che ci fa temere un
crollo improvviso e totale di tutto ciò che ci circonda.
È un
sentimento oggi molto diffuso nella nostra società moderna: noi tutti, in
qualche modo, viviamo nell’angoscia: siamo angosciati per il nostro domani, per
la possibilità di perdere il lavoro, per non riuscire ad arrivare a fine mese.
Siamo tutti ossessionati dalle malattie, dalle disgrazie, dalla possibilità di
nuove guerre, dal mostro del terrorismo islamico, dalla possibilità di
inondazioni o di calamità naturali. E come se non bastasse, in fondo in fondo,
quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte: la
drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti
nostro malgrado ad abbandonare, a perdere, a separarci da tutto ciò che siamo,
da tutto ciò che abbiamo, da tutto ciò che amiamo.
Cosa
dobbiamo fare, allora, per combattere questa sensazione velenosa? Quale via
dobbiamo seguire per ridurre questa sensazione che ci paralizza, che ci rende
invalidi?
Per
prima cosa dobbiamo portare luce nel nostro buio, non dobbiamo aver paura,
cioè, di scoprirci, di mettere tutto il nostro intimo alla luce del Sole
divino. Perché più abbiamo cose da nascondere, più le teniamo segrete, più ci
sentiamo in colpa per quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, o abbiamo
fatto e non avremmo dovuto fare.
Gesù nel
vangelo dice: “Non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato e di
segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre
ditelo nella luce e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti»
(Mt 10,26ss).
Molte
persone sono particolarmente angosciate dal doversi guardare dentro, dalla
paura di scoprire nel loro animo, emozioni di odio, di rabbia, di vergogna;
temono di essere sopraffatti da sensi di colpa e di inferiorità, da
umiliazioni, da ferite. Ma non è così.
Più
abbiamo zone buie dentro di noi, più nascondiamo in noi ombre e mostri, più
vivremo nell’angoscia; più faremo luce e verità dentro di noi, meno sarà la
nostra ansia, meno saremo assaliti dall’inquietudine.
Superata
questa nostra difficile situazione, dobbiamo vivere nel presente, nella realtà.
Se
iniziamo a pensare a quello che potrebbe succedere, a come potrebbero andare le
cose, al fatto che c’è sempre il peggio che incombe, al disastro che ci
potrebbe succedere, allora è davvero la fine.
Per
questo dobbiamo vivere con i piedi per terra, stare a contatto con la realtà,
convinti che il più forte antidoto all’angoscia è la fiducia in Dio. Sì, perché
aver fiducia in Lui significa percepire, sentire che Lui è con noi, che ci
accompagna, che non ci abbandona mai.
La fede
vera, la fiducia in Dio, sono l’esatto opposto dell’angoscia: Lui c’è, Lui ci
accompagna, Lui vuole il nostro bene, Lui ci sostiene, Lui ci dà e ci darà
sempre forza e coraggio.
E questo
ci deve bastare.
Ma per arrivare
a tanto, dobbiamo soprattutto pregare. Pregare sul serio, umilmente, nella
solitudine del nostro cuore.
Del
resto, cos’ha fatto Gesù nei suoi momenti di profonda angoscia? Era nel
Getsemani e la prospettiva che aveva davanti era una morte terribile: ebbene,
Lui ha pregato intensamente, affidando al Padre tutta la sua angoscia, la sua
paura; ha avuto bisogno di sentirlo vicino, di sentire che Lui c’era anche in
quel momento terribile. E quando l’ha sentito vicino, ha ritrovato la forza e a
serenità per proseguire con dignità e fermezza nella sua missione redentrice.
Questo è
stato il grande esempio lasciatoci da Gesù: seguiamolo anche noi, e vivremo sicuramente
nella tranquillità di sapere che il Padre è al nostro fianco. Amen.
“Che
poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando
dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è
dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”. (Lc 20,27-38)
Quest’affermazione
perentoria di Gesù ci dà la possibilità, oggi, di affrontare uno dei misteri
del fine vita: la risurrezione dei morti. L’occasione è una discussione di Gesù
con i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l’ala
aristocratica e conservatrice di Israele e che consideravano la dottrina della
resurrezione dei morti, sviluppatasi lentamente nella riflessione del popolo e
definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, un’inutile
aggiunta alla dottrina di Mosè.
Così,
incrociando la negata teoria della resurrezione con la consuetudine del
Levirato (la discendenza era così importante che un fratello doveva dare un
figlio alla cognata vedova!) essi pongono a Gesù un caso paradossale: la famosa
storia della vedova “ammazza mariti”!).
Gesù
come al solito pone la riflessione su un piano diverso, invita gli ascoltatori
ad alzare lo sguardo da una visione che proietta oltre la morte le ansie e le
attese di questa vita terrena.
È una
nuova dimensione quella che Gesù propone dopo la morte, una pienezza iniziata e
mai conclusa, che non annienta gli affetti, ma che contraddice la visione
attuale della reincarnazione, poiché è una visione che ci spinge ad avere
fiducia in un Dio dinamico e vivo.
Il mondo
è diviso in due “eoni”, due secoli: quello presente e quello futuro. Nel primo
gli uomini “prendono” moglie, ma prendere significa possesso e il possesso
genera soltanto morte.
Il secondo,
quello futuro, è invece sotto il segno del dono, della vita, non ci si sposa
più e non si muore più. Il matrimonio dà la vita a chi poi muore; la
risurrezione invece dà a chi è morto una vita nuova, una vita in Dio, ormai
libera dalla morte e dal generare.
“Dio è
Dio dei vivi, perché tutti vivono in lui”. Pertanto chi in questo secolo
abbandonando le leggi di questo mondo, decide di vivere con Dio, la sua morte
si trasformerà in vita, una vita che non avrà mai fine: questa è la certezza
che ci deve far guardare ora al nostro futuro ultimo con serena fiducia.
A questo
punto però una domanda si impone, alla quale dobbiamo darci una risposta: ma
noi, personalmente, viviamo con Dio?
Capirlo
è abbastanza semplice: viviamo con il Dio dei vivi se per noi la fede in lui è costante
ricerca, non stanca abitudine; è doloroso e irrequieto desiderio, non noioso
dovere; è slancio e preghiera, non rito e superstizione.
Crediamo
in un Dio vivo se accogliamo la Parola Viva che ci interroga, ci scuote, ma che
ci dona anche risposte. Crediamo nel Dio dei vivi se ascoltiamo quanti ci
parlano di lui, quanti amano Lui, quanti già vivono per Lui: nel mare infinito
di cattiverie, di sopraffazioni, di intolleranze, di ogni genere di violenze,
in cui quotidianamente i media ci sommergono, è infatti veramente emozionante
vedere riproposte delle storie fatte di luce: una Chiesa che aiuta i disperati
di ogni parte del mondo, preti che donano speranza ai carcerati, frati poveri che
aiutano i poveri, suore che si consumano per gli scarti umani, missionari che
promuovono dignità alle persone, aiutandole ad uscire dalla miseria e dalla
schiavitù del male. È la gente che crede nel Dio dei
vivi, che lavora e soffre perché tutti abbiano vita. Schiere di testimoni che
ci hanno preceduto, e di tanti che vivono il nostro oggi.
Ecco: Dio è vivo in noi, se ci
lasciamo sedurre come Pietro, incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo,
per i quali, dopo il suo incontro, nulla è stato più come prima.
Saremo altrettanto vivi anche noi,
se impareremo ad andare con fermezza dietro a Lui; se non ci lasceremo
ingannare dalle sirene che ci promettono felicità momentanee, se sapremo
perdonare, se capiremo che questa vita ha un valore soprannaturale tutto da
scoprire, quel “di più” che è nascosto nelle pieghe della nostra storia.
Questa
deve essere la nostra convinzione, questa deve essere la nostra Fede: una fede
che diventa possibilità di vivere e produrre bontà, di condividere con gli
altri l’attesa di quella vita meravigliosa senza fine, in Lui, nel suo Amore.
Diversamente
la nostra non è vita, è sprecare l’esistenza! Per essere Suoi discepoli “dinamici”,
dobbiamo andare sempre avanti, nonostante la fatica, nonostante le paure,
nonostante le nostre tante debolezze, miserie, incongruenze, certi che Lui sarà
sempre lì con noi, pronto a condividere i nostri problemi.
“Dio non
è il Signore dei morti, ma dei vivi; tutti devono vivere per lui e con lui”: neppure
la morte potrà mai spezzare questa realtà, questo legame d’amicizia, di amore, di
speranza.
Dio non
si sottrarrà mai a questo rapporto, perché lui ci ama veramente.
Avere
fede nella resurrezione, significa appoggiarsi alla fedeltà del suo amore, alla
Sua fedeltà. Perché Dio è Fedele, sempre. Lui è la mano che ci tiene forte, che
non ci lascia, che non ci abbandonerà mai.
Poi, che
c’importa conoscere con esattezza in cosa consista la “resurrezione dei morti”?
L’importante è sapere con certezza che Lui è Vita, è Amicizia, è Amore; e che
se ora viviamo “con” Lui, continueremo, risorti, a vivere eternamente “in” Lui.
Amen.
“Gesù
entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di
nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma
non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura” (Lc
19,1-10).
Gesù sta
andando verso Gerusalemme. Gerico si trova ad una trentina di chilometri da
Gerusalemme, lungo una grande via di comunicazione. Proprio per la sua
posizione la città costituiva un punto strategico per l’amministrazione romana;
era quindi piuttosto facile imbattersi in funzionari imperiali, uomini dell’esercito
ed esattori delle tasse. Era una località molto frequentata e affollata.
Ed è qui
che Zaccheo incontra Gesù. O è Gesù che “incontra” Zaccheo?
Ma poi
chi è questo Zaccheo? È un pubblicano: i pubblicani erano quelli che avevano
avuto in esclusiva dai Romani l’appalto per la riscossione dei tributi, delle
tasse: un lavoro ingrato, maledetto e odiato dagli ebrei, dal quale però i
pubblicani traevano grossi guadagni personali.
Il
termine pubblicano era infatti sinonimo di “immorale”; dare del “pubblicano” a
qualcuno era come dargli del falso, del ladro, del traditore. E Zaccheo non
solo è un pubblicano ma è il capo dei pubblicani: è il più ladro dei ladri. E
tutti lo sanno! È insomma un poco di buono, un infedele, un venduto a Roma, un
collaborazionista, un peccatore. Uno che aveva accumulato ingenti ricchezze,
defraudando la povera gente.
Il nome
Zaccheo però vuol dire “giusto, puro”. Certo nessuno lo vedeva così; ma Gesù
sì. Anche se uno al di fuori sembra a tutti un poco di buono, un figlio di “buona
donna”, anche se sembra un pervertito o quant’altro, Dio vede la sua piccola
parte pura e giusta, la sua bontà, la sua “verginità”. Per Lui il valore e la
dignità di noi uomini, di sue creature, per quanto ci accada nella vita, non
viene mai meno.
Zaccheo
dunque “cerca di vedere”. Ora, “cercare di vedere” lascia intuire un desiderio:
c’è un’insoddisfazione dentro di lui, c’è un tormento, una inquietudine, una
irrequietezza; egli cerca di trovare qualcos’altro; quello che ha, per quanto
sia, non gli basta più. Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta, perché
la felicità non sta nelle cose ma nei valori morali. Le cose sono solo uno
strumento per raggiungere quei valori che danno piena serenità e appagamento.
Per
questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” qualcos’altro.
Per questo decide di fare qualcosa di diverso nella sua vita: abbandonerà il
banco delle imposte per andare a “vedere” Gesù. Ed è meraviglioso perché
Zaccheo, così facendo, dimostra di aver capito che solo Colui che vuole
incontrare può dargli pace e serenità.
Zaccheo
è piccolo: “piccolo” non tanto di statura, ma della percezione interiore che
egli ha di se stesso. Anche se in realtà è “più”, anche se è “superiore” agli
altri, egli si sente comunque “inferiore”, si sente incapace, completamente
privo di una ricchezza “diversa”, si sente come menomato. Il suo vero problema
è quello di sentirsi addosso tutto il peso della sua inferiorità spirituale.
Finora
cos’ha fatto? Poiché si sentiva il più piccolo (inconsciamente) ha voluto
diventare il più grande (capo dei pubblicani). Pensava che una volta diventato
il più ricco, il più potente, sarebbe stato anche il più ammirato, il più
amato: ma non è stato così!
Allora
reagisce ancora, e trova dentro di sé la forza per riscattarsi, per ribellarsi
da una situazione che ormai lo soffocava.
Mettiamoci
nei suoi panni: tutti lo conosco, tutti sanno chi è. È uno degli uomini più
famosi, più conosciuti, più temuti della città: e che fa? sale su di un
sicomoro, cosa molto poco elegante per uno come lui, e lo fa semplicemente per
veder passare un “predicatore”. Ci vuole coraggio! Sa che tutti lo vedranno (e
infatti tutti lo vedono), che lo derideranno, lo segneranno a dito, ma lui ha
il coraggio di farlo comunque, vincendo il timore di essere “chiacchierato”
dalla gente. Nella vita è necessario infatti vincere la paura del giudizio
degli altri per trovare la propria strada sicura.
E Gesù
che fa? Gesù non gli fa nessuna predica, non lo vuole convertire né cambiare.
Gesù
semplicemente lo chiama, per nome. Per tutti gli altri egli era “il capo dei
pubblicani”, “il ricco”, ma per Gesù è soltanto Zaccheo. Chiamare per nome una
persona vuol dire dargli dignità, dargli un volto. In pratica Gesù gli dice: “Io
credo in te Zaccheo; io vedo che in te c’è qualcosa di buono. Per gli altri sei
solo un farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti gli altri. E tutti
gli uomini, nella profondità del loro cuore, hanno sempre un angolo nascosto
con un po’ d’amore”. E gli fa una proposta, secca, veloce, efficace: “Scendi
subito” (Gesù è sempre diretto e lapidario, con chi gli chiede qualcosa: “alzati;
taci; esci; mettiti nel mezzo; vai dai sacerdoti; apriti; vieni fuori”; ecc..).
Per
guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono proprio quelle che non
vogliamo fare, e per questo serve un ordine preciso, perentorio. Zaccheo si crede
chissà chi, si atteggia “a sapientone” e normalmente si mette sul piedistallo
con tutti: “Smettila e scendi giù – gli dice Gesù - sei un uomo come tutti gli
altri”. E se non obbedirà, Zaccheo non potrà guarire; ciò che si deve fare, va
fatto. Punto. Altrimenti non si può proseguire.
Ma egli
ha già capito tutto: la sua vita non è vita; e per questo scende. Ha scelto
finalmente la via dell’amore.
Ma l’amore
è condivisione. L’amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare
il meglio di sé, che possano esprimersi, che possano fiorire, che possano
essere al massimo di sé. L’amore non è dare ma darsi. E
Zaccheo si dà, dando tutto ciò che ha.
Tutti possono amare, anche se non
hanno nulla o se sono poveri. Per l’amore basta avere un cuore. Ci si converte
all’amore non perché l’ha fatto qualche santo, o perché qualcuno ci dice che
bisogna fare così, che è importante. Ci si converte perché ci si rende conto
che continuare a vivere senza dare e ricevere amore, non è vivere, ma morire.
Dio ci cerca: è lui che prende l’iniziativa,
che ci ama senza giudicarci. Cerchiamo allora sul serio colui che ci cerca.
Smettiamola di giocare a rimpiattino con Dio, lasciamoci raggiungere!
Dio non ci ama per il fatto che
siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni.
Gesù non chiede: dona
continuamente, senza condizioni. Se Egli avesse detto: “Zaccheo, so che sei un
ladro: se restituisci il quadruplo di ciò che hai rubato, vengo a casa tua”,
credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull’albero!
Dio ci perdona prima ancora del
nostro pentimento: è il suo perdono che ci converte.
Ecco: chi vuole seguire Gesù si
faccia avanti, scenda dall’albero, si schieri. Non importa chi siamo veramente,
né quanta strada abbiamo fatto o che errori portiamo nel cuore. Non importa se
guardiamo il passaggio del Maestro per semplice curiosità. Non importa nulla;
perché una cosa è certa: oggi, ora, in questo istante, Lui vuole entrare in
casa nostra. Amen!
“Due
uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il
fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non
sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo
pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello
che possiedo” (Lc 18,9-14).
La
parabola di oggi ci propone due personaggi, un fariseo e un pubblicano; due
uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il
fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono:
fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano
all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità,
si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati
dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo
sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù?
Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a
tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra
come molto spesso siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad
essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi c'è
l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici degli occupanti Romani;
erano considerati dei traditori, dei collaborazionisti, e per questo erano cordialmente
odiati dagli ebrei.
Entrambi
questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale
si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella
preghiera, che i due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del
fariseo è lunga, piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al
contrario di quella del pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il
fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé” in silenzio. La cosa era normale
per un ebreo, ma Luca lo interpreta come un segno di superbia: in greco questa forma
verbale significa letteralmente “egli prega sé stesso”. Nella sua
preghiera egli ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla
comune gentaglia: la sua preghiera altro non è che un panegirico di sé stesso.
Dapprima mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto,
un disonesto, non è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi,
non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa:
digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge,
che limitava il digiuno a pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime,
cioè la decima parte del raccolto e di quanto possedeva che veniva devoluta al
tempio e ai poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua
preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla.
Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Il “pubblicano”,
invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Egli era la personificazione
della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i
miseri, i deboli; era coinvolto in traffici di denaro “sporco”. Faceva un
mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un
povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse
o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi
sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va
giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché? Scendiamo nei
particolari.
Il fariseo inizia molto bene la
preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione dell'uomo è infatti quella di
ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo
di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie per ogni cosa, faremmo della
nostra vita una “liturgia”, una preghiera continua, un'eucaristia. Poi però il
fariseo, nel mettersi a confronto con gli altri, sbaglia tutto, cade
completamente in basso.
Egli non risulta gradito a Dio
perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi dietro a quelle
poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con sé stesso, si mente,
si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare non sia vero, ma
perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella meno importante. Gli
ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche lui, come e forse
più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Purtroppo, c'è sempre qualcuno
che, pensando di essere perfetto, “scaglia per primo la pietra”; sempre! C'è
sempre qualcuno che, non vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a
causa del buio pesto che vi regna, si permette di giudicare gli altri, di
credersi qualcuno, di non essere come loro. Molte persone hanno rimosso così
bene qualunque imperfezione dalla loro coscienza, da sentirsi completamente
“puliti”, immacolati: ecco perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti
di essere ottimi cristiani; quando invece non sono che dei miseri farisei.
Nella sua preghiera il
pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la verità: “Abbi pietà di
me peccatore”. Questa è la realtà: e gli dispiace sinceramente. Per questo
chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per le sue
zone oscure, per le ferite, per il male procurato agli altri, per i suoi
peccati e per i suoi errori. Egli riconosce che la sua situazione è
compromessa, non mente a sé stesso, non si inganna. Sa di aver bisogno di Dio;
ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che
lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa”
della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che
è Dio. Per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e
pacificato.
Di
fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far
passare qualunque menzogna per verità; possiamo fingere sulla nostra
preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo
mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi
ci vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi
non valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra falsa “verità”,
nudi e spogli.
È dalla
“verità” che sgorga la preghiera vera: quella verità che, senza menzogne, senza
false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli altri vedono solo il nostro
contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere: vedono la nostra
scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in chiesa, fare carità,
fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma che brava persona!
Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma essi non possono vederci dentro,
noi lo sappiamo, per questo nascondiamo loro la cruda realtà, ciò che è
imperfetto, doloroso, negativo, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i
nostri lati oscuri. Riusciamo a nasconderli così bene anche a noi stessi, che
addirittura ce ne dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in
cantina, in soffitta. Non li vediamo più e quindi ci convinciamo che non esistano
più. Non li vediamo più e quindi pensiamo di essere migliori degli altri: più
bravi, più giusti, più umani, più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci
conosce dentro, alla perfezione. E Lui non possiamo ingannarlo.
Ecco perché
la preghiera non deve essere formale, esteriore; deve invece essere intima,
sincera, onesta, vera: pregare è aprire a Dio tutte le stanze della nostra
vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Lui spanda
la sua luce sui nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò
che grida, che urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci
ripugna anche solo ascoltarlo; su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su
tutto ciò che non vorremmo confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare;
su tutto ciò che ci nascondiamo per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò
che abbiamo nascosto in cantina a marcire ma che Lui vuole liberare e far
rifiorire. Perché Egli non teme nulla. Noi abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha
vinto il mondo. Lui non teme le nostre nefandezze e ci ama comunque, in tutto
il nostro squallore. Lui può andare ovunque noi ci rifiutiamo di andare:
“pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di
entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove
noi ci nascondiamo.
Dobbiamo
convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro
orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci
appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre
manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel
calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo
piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro
di noi.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà, dobbiamo distruggere le nostre illusioni, le
nostre convinzioni di perfezione, di essere bravi, virtuosi, impeccabili: solo
così potremo far spazio all’amore di Dio. Perché noi, a ben guardare la realtà,
assomigliamo un po' tutti al fariseo. Amen.