giovedì 21 febbraio 2019

24 Febbraio 2019 – VII Domenica del Tempo Ordinario


“A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male”.
(Lc 6,27-38).

Siamo ancora nel “Discorso della pianura” di Luca: è l’importante discorso programmatico di Gesù sulle “beatitudini”, collocato da Luca appunto in quel “luogo pianeggiante” scelto da Gesù per parlare alla folla, una volta disceso dal monte su cui si era ritirato a pregare.
Nel brano di oggi, che segue immediatamente quello di domenica scorsa, Gesù si spinge oltre, ponendo a quanti vogliono seguirlo, delle condizioni ancor più impegnative e difficili da praticare: amare, benedire, pregare, porgere l’altra faccia, donare, fare del bene a tutti, essere misericordiosi, perdonare, non giudicare, non condannare, ed altri verbi simili, richiedono effettivamente un comportamento “superiore”, un comportamento che, per la nostra mentalità tiepida ed egoistica, deve essere supportato da una dedizione cieca e assoluta, un eroismo, una particolare vocazione alla santità, un livello notevolmente avanzato, in quell’ascesi mistica che si specchia soltanto in Dio, sorgente di amore, bontà e tenerezza.
Ma non è questo il pensiero di Gesù: per lui sono azioni alla portata di tutti, indispensabili anche per chi sceglie di vivere semplicemente da buon cristiano, per quanti decidono di seguire gli insegnamenti del Signore, conducendo una vita normale.
Per questo le proposte del vangelo di oggi ci mettono in crisi profonda, perché nonostante ci suonino come un imperativo categorico, finiamo per leggerle e rileggerle senza viverle!
Abbiamo come l’impressione che siano dirette ad altri, forse più capaci, più buoni, più cristiani di noi. Per noi sono condizioni troppo difficili: ci vuole infatti una autentica padronanza di sé per arrivare ad amare i nemici, a benedire coloro che ci maledicono, a porgere l’altra guancia, a non riprenderci con gli interessi quello che ci è stato tolto…
Tuttavia, a guardar bene non è tanto la nostra incapacità ad accostarci con amore al nemico, a chi ci fa del male; noi entriamo in crisi perché ci sentiamo colpevoli, sul banco degli imputati, in quanto ci rendiamo conto di essere degli ingrati approfittatori non volendo usare verso il nostro prossimo quella stessa condotta amorevole che Dio usa continuamente con noi.
In pratica le parole di Gesù di oggi propongono esattamente la visione fedele di come Dio si è comportato e continua a comportarsi con noi.
Ed è proprio così: a noi sembra assurdo amare i nemici, eppure Lui ha continuato a rincorrerci quando Gli abbiamo girato le spalle; ha continuato a bussare alle nostre barriere, a tapparsi le orecchie alle nostre maledizioni, a sorridere ai nostri maltrattamenti, ad attendere pazientemente che sfogassimo la nostra rabbia sbattendogli la porta in faccia.
Non l’abbiamo mai trovato sordo alle nostre richieste, anzi, lui è stato ed è sempre pronto a donarci in abbondanza perdono, amore, accoglienza e comprensione.
È la storia di questa sua comprensione ad oltranza che ci sconcerta, ci confonde; e, mentre ammiriamo il Suo volto misericordioso, mentre ci rendiamo conto dell’amore con cui ci insegue, dobbiamo tornare in noi, dobbiamo tornare ad essere Sua immagine, a fare tutto quello che ci dice. Non possiamo infatti rimanere insensibili a tanto amore!

Allora capiamo che quella che prima ci sembrava un’assurda imposizione, è semplicemente la risposta logica e obbligata di quanti come noi hanno già beneficiato di tanto amore, di tanta pazienza e misericordia.
E a questo punto la nostra storia personale cambierà; scopriremo finalmente la nostra vera vocazione di “guariti”, di persone cioè, che hanno recuperato gratuitamente, nel perdono e nell’amore di Dio, la loro forza, la loro dignità interiore. E così, guariti dalle nostre miserie, dalle nostre inimicizie, diventeremo a nostra volta “guaritori” della miseria e dell’inimicizia dei nostri fratelli.
C’è però chi soffoca ancora nelle paure. Paura di soffrire. Paura di pagare di persona. Paura di non essere ricompensato, capito, gratificato a dovere. Paura – in realtà - di andare oltre tutti i parametri, le aspettative, dettate dal suo piccolo “ego”. È un passaggio piuttosto frequente anche per noi. E solo se scendiamo in profondità, possiamo andare oltre.
Perché solo se ascoltiamo con grande umiltà la Parola di Dio, solo accogliendo nel nostro cuore la forza dello Spirito, ci sentiremo rassicurati, capiremo di non aver nulla da temere.
Impariamo allora a chiedere perdono al nostro prossimo da subito, in casa, nel lavoro, nella vita sociale, in parrocchia; e se subiamo un torto, sappiamo di avere in mano una grande occasione: di poter cioè disorientare con la bontà coloro che non sono buoni con noi; di poter spiazzare con la mitezza i violenti; di poter fermare con la pazienza gli arroganti.
Allora capiremo perché S. Francesco sia arrivato a chiamare perfetta letizia il momento dell’offesa e della provocazione.
Sì, perché è l’offesa che ci offre la possibilità di amare senza alcuna ricompensa, senza nulla ricevere in cambio (“se amate solo quelli che vi amano, che merito ne avete?”); è l’offesa che ci offre l’occasione di perdonare come Dio ci perdona. E questo ci darà una grande gioia.
“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”.
Allora capiremo finalmente cosa significa diventare una cosa sola con Lui. Amen.



giovedì 14 febbraio 2019

17 Febbraio 2019 – VI Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente… Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio…” (Lc 6,17.20-27).

Al mattino, dopo una notte passata sul monte a pregare, Gesù chiama intorno a sé i discepoli che erano con lui, e ne sceglie dodici, ai quali dà il nome di apostoli. Insieme ad essi poi discende dal monte e viene subito circondato da una grande folla, sopraggiunta dal nord, dalle città di Tiro e Sidone, e dal sud, dalla Giudea e dalla città di Gerusalemme: una moltitudine di persone sofferenti, malate, bisognose di aiuto, affamate.
Di fronte a tanto dolore, Gesù prova una grande pietà: e alzando gli occhi al cielo, inizia a parlare, indicando il percorso preferenziale per entrare a far parte del suo Regno.
Gesù come Mosè: è a lui che Luca sicuramente pensa nel descrivere questa scena: come l’antico liberatore e legislatore di Israele, sceso dal Sinai, consegna al suo popolo la legge, i dieci comandamenti, così anche Gesù, liberatore e consolatore dell’umanità, scende da un monte e consegna a quella folla di “poveri” la “sua” nuova legge, la legge delle beatitudini: “Beati voi poveri…, Beati voi affamati…, Beati voi che piangete…, perché vostro è il regno di Dio”.
“Povero”, in greco “ptòkos”, termine che traduce l’ebraico “ani”, non vuol dire come in italiano, essere sprovvisto di beni materiali; ma indica uno che è “piegato” in sé stesso, sottomesso, afflitto, provato, uno che ha perso ogni entusiasmo, un rinunciatario, uno che non ha più voglia di reagire alla sua situazione.
Tutta quella gente che circonda Gesù, è “povera”, vulnerabile, debole, è il popolo degli “anawim”, gli umiliati dalla vita, che sono accorsi in massa da Lui per ascoltare le sue parole di vita, convinti di poter finalmente “guarire” anche solo ascoltandolo, toccandolo.
Gesù li capisce, riconosce la loro dignità di persone sofferenti, li conforta; e lancia un avviso singolare per tutti gli “anawim” della terra; in pratica, con le sue beatitudini, egli rivaluta la loro situazione, tragica agli occhi del mondo, dicendo: “Nessuno potrà mai trovare la vera felicità, la beatitudine, la pace, la serenità del cuore se non è “povero” come voi: se cioè non vive come voi l’amarezza del pianto; se non prova e non accetta umilmente il dolore dell’emarginazione, la rassegnazione per essere stati privati di soluzioni straordinarie e vitali”.
Una prospettiva, questa di Gesù, decisamente incomprensibile per la mentalità del mondo, malata di egocentrismo, di quel “superomismo”, che nulla chiede, tutto pretende, e con la forza e l’astuzia tutto ottiene; che non cede mai alle disavventure, non si inchina al destino, non si abbassa a niente e a nessuno: una mentalità “vincente”, lontana anni luce dallo spirito delle beatitudini. 
Ma attenzione: il senso delle beatitudini non è: “Si è felici soltanto se si piange, se si soffre, se si è poveri derelitti” ma “si è felici solo se si è in grado di partecipare alla Vita di Dio, di vivere sempre la vita come suo dono, qualunque essa sia, nei suoi momenti esaltanti e in quelli di estremo dolore”.
Per fare ciò, ovviamente, il nostro cuore deve essere sempre aperto, sensibile, in sintonia con lo Spirito che ci inabita; perché se questo sincronismo si interrompe, se il nostro cuore diventa di pietra, se non proviamo più emozioni, se non sappiamo piangere, se non accogliamo positivamente le nostre sofferenze, ci sarà impossibile capire il senso della vita, viverla: ed è allora che diventeremo infelici, insoddisfatti, incattiviti. È allora che ci chiuderemo nel nostro rancore, ignorando e rifiutando Dio.
“Elohim”, in ebraico, è uno dei nomi di Dio: ma “Elohim” è anche l’uomo che diventa “divino”, che si “divinizza”, che fa di tutto per ridiventare immagine di Dio, capolavoro del creatore, come ci dice la Genesi all’inizio della Bibbia. “Elohim” allora è il nostro marchio, il soffio divino di Dio, di quando eravamo ancora creta, ciò che siamo in profondità, nella nostra essenza, nella nostra anima.
L’uomo, creatura di Dio, è un amalgama di terra e di Spirito: scopo della vita è di spogliarsi della sua fragilità di creatura provvisoria, per raggiungere nuovamente la sua immortale dignità divina originaria.
Invece cosa ha fatto Adamo? Ha tradito il suo compito, il suo essere, il suo nome, la sua missione; ha voluto essere immediatamente Dio, “da subito”, magicamente. Ha voluto saltare il cammino doloroso e faticoso della vita: ma questo non si può fare, dice la Bibbia, non è possibile. Perché l’uomo che vuole evitare il suo cammino evolutivo, fatto di passione, di sofferenze, di lotte, di dolore, irrimediabilmente “si perde” nel peccato, nella superbia, nella ribellione, nell’egoismo: si condanna cioè ad una vita squallida, ad un cammino di morte, di sangue, di alienazione.
Lo stato di felicità eterna, di autentica beatitudine, è commisurato al grado di adesione alla volontà di Dio, con cui l’uomo conduce la sua vita su questa terra.
Solo se antepone questa sua unione col divino, davanti a tutto e a tutti, il suo sarà un cammino di felicità, di beatitudine, una costante condivisione già su questa terra della bontà e dell’amore del Padre.
Purtroppo noi moderni nutriamo altre aspirazioni più immediate: facciamo dipendere la nostra felicità esclusivamente dal raggiungimento egoistico dei molteplici traguardi che ci poniamo: “Quando avrò ottenuto quella cosa, quando avrò raggiunto quell’obiettivo, quando sarò ricco, allora sicuramente sarò felice!”.
Ci illudiamo che la felicità consista nella ricchezza, nel benessere, nel potere: e pur di raggiungere questi status symbols, spendiamo tutto, il meglio di noi stessi, il nostro cuore, la nostra anima, ipotechiamo le cose più belle della vita, sacrifichiamo tempo, famiglia, amicizie, relazioni, intimità.
Solo che una volta raggiunto il nostro sogno, ci attende un’amara sorpresa: non ci basta più, c’è dell’altro; davanti a noi si impone un nuovo traguardo, ancor più attraente, più indispensabile, più importante: e la corsa riparte, nell’affanno, nella frustrazione di continui fallimenti, obbligandoci ad un vivere alienante che non approderà mai ad alcun porto sicuro e definitivo.
Purtroppo siamo schiavi del consumismo: consumiamo non solo le cose ma anche le emozioni. Abbiamo bisogno di emozioni sempre più forti, intense, perché ormai siamo completamente insensibili, corazzati, mascherati, impossibilitati a percepire la bellezza di quelle emozioni spirituali, sicuramente meno forti, meno violente, ma che lasciano un segno indelebile, permanente, duraturo, di beatitudine interiore.
Tutti abbiamo dentro di noi, due realtà che operano in modo contrastante: quella dell’uomo materiale e quella dell’uomo spirituale. Per il primo la felicità è raggiungere, possedere, conquistare, correre, avere; per l’uomo delle beatitudini la felicità è fermarsi, gustare, percepire, condividere, vivere. Per il primo, la vita è un insieme di rette: è andare sempre avanti, raggiungere, conquistare nuovi, innumerevoli traguardi. Per il secondo la vita è una spirale concentrica: ritorna continuamente in sé stesso per attingere lo Spirito e metterlo a disposizione degli altri.
Felicità, beatitudine, in ebraico è “ascèr”, che significa “progredire, continuare, ripetere”: la gioia che proviamo nel vivere quaggiù lo spirito delle beatitudini, non deve essere pertanto un punto di arrivo, ma una spinta a proseguire, ad andare sempre avanti per quella strada maestra segnata da Gesù; strada che ci porterà al traguardo finale della felicità eterna, la “beatitudine” totale nell’Amore del Padre. Amen.


giovedì 7 febbraio 2019

10 Febbraio 2019 – V Domenica del Tempo Ordinario


“Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano” (Lc 5,1-11).

Luca, nel vangelo di oggi, ci racconta la chiamata dei primi quattro discepoli: sono Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, due coppie di fratelli, tutti pescatori.
Il testo però si concentra soprattutto sulla figura di Pietro.
Siamo presso il lago di Genesaret. Ora, nei vangeli, il simbolismo del “lago” viene collegato molto spesso a particolari situazioni di vita : oltre che a fenomeni di tempesta improvvisa, di cambiamento radicale, di rovesciamento della situazione, di scombussolamento, di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), la sua superficie in genere sempre liscia, immobile, tranquilla, rende molto bene anche uno stile di vita monotona, nel nostro caso dei discepoli, che prima di incontrare Gesù conducevano una vita sempre uguale, ogni giorno sempre le stesse cose, senza sussulti, completamente piatta, come talvolta appunto sono le acque del lago.
Un’esistenza insomma, per alcuni aspetti, molto simile alla nostra vita spirituale: non siamo cattivi, non siamo gente di malaffare, anzi qualche volta anche noi permettiamo a Gesù di usare la nostra “barca”. Siamo convinti che stiamo bene così come siamo, che la vita è tutta in quel che facciamo. Pensiamo che il nostro sia l’unico modo di vivere; ma siamo purtroppo ancora molto lontani dall’immaginare quanto, al contrario, sia più esaltante uscire in barca con Lui! Forse abbiamo anche provato, ma abbiamo combinato ben poco, anzi proprio nulla!
Val la pena allora di chiederci: Ma noi, che abbiamo aderito alla chiamata di Gesù, ci impegniamo seriamente “nel gettare le reti”? C'è fuoco, c'è passione nel nostro agire? C'è sole nei nostri occhi, luce ed entusiasmo nel nostro cuore? C'è sufficiente “profondità” in quel che facciamo? “Maestro abbiamo provato tutta la notte e non abbiamo pescato nulla”. Come a dire: “Ci siamo occupati di tantissime cose, abbiamo fatto qualunque esperienza possibile, abbiamo sperimentato infinite tecniche, sondato ogni metro d’acqua, ma ci ritroviamo sempre a mani vuote; quando tiriamo le reti in barca, non troviamo mai nulla”.
La realtà è che se continuiamo a vivere con superficialità, a “pescare” senza impegno, è decisamente difficile riuscire a combinare qualcosa di buono: a quel livello, è addirittura impossibile!
Sulle rive del lago, gli apostoli stanno lavando le reti, afflitti anch’essi dai nostri stessi problemi: ma non appena sentono la voce di Gesù, il loro cuore inizia a vibrare; sentono che le sue parole risvegliano emozioni fino ad allora “morte”, emozioni che infondono nuovo vigore, che fanno rivivere; sentono che Egli indica loro nuove possibilità, che li spinge ad osare nella vita.
Gesù parla a tutti, si fa sentire con la stessa insistenza: ha parlato ai discepoli di allora, parla anche a noi, discepoli di oggi, a quanti nel battesimo egli chiama ad essere suoi fedeli collaboratori.
Ma noi, a differenza dei primi, che facciamo? Il nostro cuore non vibra, non si entusiasma? Sembra proprio di no: continuiamo a rimandare continuamente qualunque iniziativa! Eppure prima o poi dovremo deciderci: la barca è pronta, le reti anche. Non abbiamo più giustificazioni: sciogliamo dunque gli ormeggi e prendiamo il largo. È arrivato anche per noi il momento di rischiare, di osare, di andare. Dobbiamo aver fiducia in Lui. “Ma che ne sarà di noi? Che succederà? Ce la faremo? Soffriremo? E se poi ci sbagliassimo?”. Certo, se ascoltiamo la paura, se preferiamo star sdraiati sul bagnasciuga, non prenderemo mai il largo.
Seguire Gesù non vuol dire conoscere alla lettera tutto ciò che lui ha detto: è sufficiente amarlo e credere fermamente in Lui: non lo seguiamo perché conosciamo perfettamente le Scritture, ma perché ci siamo innamorati di Lui, perché sappiamo che con Lui potremo sicuramente diventare migliori.
Le proposte di Gesù sono sempre mirate, di grande respiro, di larghe e profonde visioni: ci permette sempre di scegliere, purché poi ci mettiamo seriamente in gioco.
Ogni sua chiamata, così come quella descritta nel vangelo di oggi, si articola sempre in due momenti, in due richieste semplici e chiare, ma insieme decise e autoritarie.
La prima è: “Prendi il largo”: non ha bisogno di molte spiegazioni. Vuol dire: “esci fuori dalla tua normalità, allontanati dal tuo modello di vita, dal tuo modo di pensare, di agire, lascia tutto ed entra nella Vita vera!”. “Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”. “E se non riesco, se non funziona?”. “È possibile”. Domande e dubbi più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, dobbiamo avere il coraggio di decidere.
Quando il padrone della Vita bussa al nostro cuore, dobbiamo dargli una risposta: nessun altro può sostituirci, nessun altro può farlo al posto nostro.
Molti sono quelli che dicono: “Sarebbe bello, ma non ci riesco, è troppo difficile, va troppo oltre le mie possibilità, non fa per me”. Quando invece sarebbe più onesto ammettere: “Ho paura; non mi va; sto bene così come sto; mi basta; è più comodo non fare nulla; io non sono un eroe!”.
Ma di che stiamo parlando? Che cosa ci basta? Di che cosa ci accontentiamo? Di sprecare il nostro tempo senza far nulla? Di vivacchiare con le solite compagnie, col solito gruppetto di amici che ormai non ci offrono più nulla? “Prendi il largo!”. Ci accontentiamo di frequentare sempre i soliti ambienti, i soliti ritrovi, di ascoltare l’esaltato di turno che straparla di politica, di donne, di sport, di soldi, di lavoro? “Prendi il largo!”.
Non ci capita mai di provare disgusto per le nostre giornate senza senso, di sentire alla sera un profondo desiderio di verità, di assoluto, di scoprire e di conoscere il vero motivo del nostro esistere? “Prendi il largo!”. Non succede mai di sentirci arrabbiati, insofferenti, stanchi di risposte preconfezionate, utilitaristiche, di comodo? “Prendi il largo!” ci ordina la voce suadente e insistente di Dio.
La seconda richiesta è: “Getta le reti!”. Cioè: “Vai dentro; vai fino in fondo; entra dentro il mistero di Dio, il mistero dell’Amore, della Vita”. Non possiamo entrare in contatto con Dio stando in superficie, all’esterno, fuori dall’acqua; dobbiamo vivere immersi nel nostro battesimo. Ci sentiamo figli di Dio? “Certo che sì!”, rispondiamo. Ma che importanza, che valore diamo a questo “si”? Perché a parole non risolveremo mai il nostro problema: una semplice risposta non ci cambia la vita: “Getta le reti!”. Siamo consapevoli di avere nella nostra vita una missione da compiere? Certo! Ma qual è la missione che Dio ci ha assegnato? Dobbiamo scoprirlo! Ma per farlo dobbiamo entrare in noi stessi (introire secum). Come si fa? In un solo modo: “Getta le reti!”. Non c'è altra possibilità.
Quando Pietro si rende conto di come può vivere con Gesù (la rete che tira su è piena, stracolma di pesci!), è preso dal panico, ha paura: “Allontanati da me, sono peccatore”. Cosa vuol dire Pietro con queste parole? Perché allontanare Gesù? Prima di tutto perché non si sente degno: viene assalito dallo sgomento, non si sente adeguato, all’altezza, ha paura per tanta imprevista e imprevedibile fortuna. Poi capisce, e sente il rimorso per aver sprecato a vuoto tanta parte della sua vita. Una delle sensazioni più amare che possiamo vivere è proprio quando, a quaranta, cinquanta, sessant’anni, o quel che è, improvvisamente ci svegliamo, e constatiamo quanto sia inebriante e meraviglioso vivere con Dio e, guardandoci alle spalle, ci rendiamo conto di aver sprecato una vita! “Dio, quanto sono stato stolto! Lo chiamavo vivere quando in realtà vegetavo soltanto”. Abbiamo allora la netta consapevolezza di aver vissuto un grande “bluff”, un tremendo fallimento, un continuo peccato di omissione. “Peccato”, in ebraico, significa infatti “mancare il bersaglio”: nella vita non abbiamo fatto centro, lo stile che avevamo scelto non era quello autentico. Il nostro peccato è stato quello di uscire in mare tutte le notti e non aver mai preso nulla. Abbiamo sprecato il nostro tempo.
“Signore, le tue, sono “parole di vita eterna”: l’abbiamo finalmente capito, l’abbiamo provato. Per questo vogliamo seguirti; per questo vogliamo lasciare tutto, metterci a rischio; vogliamo osare, vogliamo vivere per Te: e finalmente, sulla tua Parola, getteremo le nostre reti. Amen.