«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Ad una settimana dalla risurrezione, dobbiamo deciderci di abbandonare il sepolcro e tutto ciò che ci parla di morte. Come Maria e le donne, che per annunciare la risurrezione di Gesù, hanno dovuto abbandonare in fretta il luogo della sua sepoltura; hanno dovuto superare il loro dolore, la consapevolezza della loro impotenza di fronte al violento incalzare degli eventi che hanno decretato la morte del loro Maestro. Come gli apostoli che hanno dovuto smettere di pensare alla morte, per guardare al Risorto e convertire il loro cuore. Ecco, così anche noi, con la stessa determinazione, dobbiamo abbandonare i nostri "sepolcri", quelle tombe di morte che rinchiudono i nostri cuori: quelle tombe che purtroppo ci sono così tanto care, così curate, così vezzeggiate. È questo il presupposto, fratelli, è questo il punto di partenza della nostra nuova vita di cristiani, risorti con Cristo. Piangere sulla tomba di Gesù morto, e fermarsi lì, non facciamo certo un piacere a Gesù: non è il sepolcro che va amato, fratelli; ma è Cristo il risorto, che va amato, è il Cristo vincitore sulla morte! È a lui che dobbiamo guardare, a lui dobbiamo pensare, in lui dobbiamo credere, come hanno fatto Pietro e Giovanni nel trovare soltanto un lenzuolo svuotato, afflosciato.
Ed oggi, ecco la conferma di quella risurrezione: «Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore». Oggi, radunati nel cenacolo, I discepoli hanno ritrovato finalmente il loro maestro. Vivo. Una gioia incontenibile.
Ma Tommaso non era con loro. «Tommaso, abbiamo visto il Signore! È vivo!» Tommaso indietreggia: «No, se non lo vedo, se non vedo le sue ferite io non crederò!». Ha ragione, il buon Tommaso. Lui, il santo “tosto”, il santo “tutto d’un pezzo”, il santo degli “impiccioni”, dei “ficcanaso”, non si lascia coinvolgere tanto facilmente: non capisce, non sa farsene una ragione, soffre terribilmente in silenzio, ma per nostra fortuna, resta al tuo posto. Senza sentirsi migliore, senza considerarsi più obiettivo e più intelligente degli altri, resta lì, umilmente e basta. E ha fatto bene.
Otto giorni dopo, infatti, il Maestro torna apposta per lui. Eccolo qui, dunque, il Risorto. Leggero, splendido, sereno. Sorride, emana una forza travolgente. Gli altri lo riconoscono e vibrano. Tommaso, ancora titubante, lo guarda: la gola secca, senza riuscire a spiccicare una parola. Viene verso di lui ora, il Signore; gli mostra le mani, trafitte. «Tommaso, so che hai molto sofferto. Anch'io ho molto sofferto: guarda qui». E Tommaso allora crolla, cede. La rabbia, il dolore, la paura, lo smarrimento si sciolgono come neve al sole. Si butta in ginocchio ora, e bacia quelle ferite: la tensione di tutti quei giorni improvvisamente si tramuta in un pianto liberatorio: e piange, Tommaso, e insieme ride felice: «Mio Signore! Mio Dio!». Riviviamo la scena, fratelli, immaginando di essere anche noi lì presenti! La stessa commozione assalirebbe anche noi; noi, gli increduli di duemila anni dopo, ai quali lo stesso sentimento di Tommaso ancora oggi riesce a serrare la gola, a far riempire di lacrime gli occhi. Del resto, come è possibile rimanere impassibili e indifferenti, meditando queste righe del vangelo? Poche righe, è vero, ma assolutamente determinanti per la nostra fede, per la nostra vita spirituale. L’assenza di Tommaso, quella volta, è stata veramente salutare, soprattutto per noi: per noi discepoli “che non abbiamo visto”, che facciamo ancora tanta fatica a metabolizzare completamente il messaggio della risurrezione; per noi, gli incoerenti della Chiesa di oggi.
Ma Gesù ci ama troppo per lasciarci in preda ai dubbi, al dolore, alle incertezze; egli, il Vivente, rassicura in maniera inoppugnabile, attraverso l’incredulità di Tommaso, la nostra incredulità, con lo stesso amore di allora. E lo fa per tutti: sia per gli entusiasti, gli innamorati folli, che lanciano eroicamente il loro cuore ad di là di qualunque ostacolo, che aderiscono senza esitazione alcuna a Cristo, come per quelli come noi, i più deboli, per quelli che hanno sperimentato sulla propria pelle il fallimento della loro vita di fede; per quelli che si sentono scandalizzati dall'incoerenza della Chiesa, per quelli che sono stati feriti dalla spada del pregiudizio e della calunnia; per i crocifissi e gli oltraggiati di oggi: e per tutti Tommaso è l’invito a non farsi sopraffare dalla fragilità di una fede distratta, ma a fissare coraggiosamente lo sguardo sullo splendore del Risorto; è l’invito a restare sempre più legati, fedelmente e convintamente, al grande sogno del Maestro che è la Chiesa: anzi a contribuire noi stessi alla sua conversione, partendo dalla nostra personale conversione.
L'atteggiamento di Gesù verso Tommaso e gli altri discepoli, come appare evidente, è un atteggiamento straordinario di amicizia, di perdono, di amore: un perdono per tutti, che è iniziato già sulla croce, quando tra i tormenti ha gridato: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (o che si fanno tra loro!). Si, fratelli: Gesù Cristo è il perdono stesso di Dio fatto persona!
Ma torniamo al testo. In Giovanni leggiamo: «La sera di quello stesso giorno (della Resurrezione), il primo dopo il Sabato, Gesù venne, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi». In un altro Evangelista leggiamo: «Pace tra voi», come se Gesù volesse sedare una accalorata discussione. E di cosa mai potevano discutere gli Apostoli tra di loro, radunati nel Cenacolo dopo la morte di Gesù, avendo sentito che Gesù era risorto? Forse, dopo essersi ripresi dallo smarrimento dei primi giorni, nel rivivere ed analizzare i momenti più convulsi del dramma che aveva tragicamente distrutto ogni loro prospettiva per il domani, saranno sicuramente volate parole grosse, delle accuse reciproche, dei rinfacciamenti impietosi. Sappiamo infatti che i dodici non erano un “cuore solo e un'anima sola”: ognuno di loro aveva il suo carattere, ognuno la pensava a modo suo, ognuno considerava l'altro come un possibile concorrente... Eppure Gesù in tutta la sua predicazione, ma soprattutto nell'ultima cena, aveva sempre insistito su un punto: “Io voglio che vi vogliate bene; che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi; voglio che stiate insieme superando tutti i vostri singoli interessi...”.
Nonostante ciò Gesù, arrivando da loro dopo la risurrezione, si limita a dire con grande dolcezza: “Pace a voi!, pace tra voi!”. Invece di reagire, invece di perdere la pazienza con tanti zucconi, invece di essere lui stesso a rinfacciare, giustamente, le magagne di ciascuno, dice soltanto: “Pace tra voi”! E Gesù ne aveva di motivi da “rinfacciare”, eccome! Poteva per esempio “rinfacciare” a Pietro il fatto di aver sfoderato la spada, contro le sue raccomandazioni; poteva rinfacciargli il rinnegamento davanti alle portinaie, nonostante glielo avesse predetto per filo e per segno, e lui, gradasso, avesse spergiurato che lui, no, non lo avrebbe mai tradito...
Poteva “rinfacciare” ai tre che erano vicini a Lui nell'Orto degli Ulivi di essersela data a gambe levate, appena avevano visto la mala parata! E proprio uno di loro, Giacomo, aveva chiesto apertamente di potersi sedere alla sua destra nel Regno; e alla domanda di Gesù: “Potrai bere questo calice?” aveva risposto immediatamente: “Sì!”; salvo poi, al dunque, scappare e rendersi anche lui latitante come gli altri. E Giovanni? Che dire di quel Giovanni, il prediletto di Gesù, che lo aveva sì seguito sul calvario insieme a Maria, ma che, durante la cena, pur avendo perfettamente capito chi fosse il traditore, non è intervenuto immediatamente per fermare Giuda, senza neppure informare gli altri perché almeno loro lo facessero? Anche Giovanni aveva le sue colpe: evidentemente, forse con un po’ di egoismo, aveva scelto la parte che gli era più congeniale, quella più “soft”, quella cioè di stare accanto a Gesù, piuttosto che adottare un comportamento deciso, coraggioso, di rottura, esponendosi in prima persona pur di fermare il traditore e scongiurare in qualche modo la crocifissione: eppure Gesù non rimprovera neppure lui.
E gli altri Apostoli? Sono tutti fuggiti di nascosto, senza avvisare nessuno, senza neppur tentare di organizzare alla meglio quella parte di popolo che amava Gesù, e che sarebbe sicuramente insorta a Suo favore. Quegli apostoli che invece di reagire, hanno preferito starsene al sicuro, e guardare da lontano gli eventi: né più né meno di come hanno imparato a fare oggi tanti “discepoli” della sua Chiesa, tanti che promettono, promettono solennemente, con grandi celebrazioni e giuramenti, ma che poi alla prima difficoltà, con magistrale faccia tosta, non mantengono la parola, si rimangiano tutto!
Purtroppo la storia della Chiesa si ripete nei tempi; per alcuni versi è sempre uguale. Gesù del resto ci ha messo in guardia anche su questo: «I figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della Luce»: mentre cioè i figli della Luce dormono o, meglio, vivono in “attesa” di non si sa che cosa, tranquilli e sicuri di sé, gli “altri” si danno da fare; e quando verrà il giorno della fioritura si domanderanno: “Ma come! Noi abbiamo seminato solo il grano, perché è cresciuta anche la zizzania?”.
Eh sì, fratelli miei: spesso noi cristiani facciamo la figura di quelli che non si accorgono di nulla! Dormiamo, soprassediamo, aspettiamo l’iniziativa degli altri; nel frattempo il nemico semina la zizzania del male, delle offese, dei litigi, insinua dubbi, getta fango sui nostri principi, sulla nostra fede; con il risultato che arriviamo a chiudere la stalla quando i buoi sono già fuggiti!
Ma torniamo ancora una volta al vangelo: Gesù dunque, arrivando nel Cenacolo, avrebbe avuto mille motivi per fare un sacco di rimproveri a tutti, ma invece che fa? Dice: «Pace a voi, pace tra voi». Gesù non rinfaccia niente! Non lo fece allora e continua a non farlo oggi: Gesù (fortunatamente per noi) non rinfaccia mai niente! Egli sa che ciascuno di noi ha un grande bisogno di sentirsi amato, perdonato, di sentirsi incoraggiato: egli ci conosce profondamente, sa tutto di noi: egli conosce di noi cose che nessun altro può e potrà mai conoscere: cose che soltanto noi e Lui conosciamo. E lui, nonostante tutto, ci ama veramente; continua ad amarci, sempre!
Capite l’importanza di questo atteggiamento? Per noi, fratelli, essere certi del suo perdono, del suo amore, è vitale; perché in tal caso vengono a cadere tutte le nostre scuse, le nostre attenuanti, di qualunque natura esse siano: come quelle di riconoscerci realmente colpevoli, di ammettere le nostre responsabilità, le nostre debolezze, i nostri peccati (oggi molto fuori moda!), di non ricambiare l’amore viscerale di Dio. Ma è soprattutto fondamentale, perché in questo modo la sincera consapevolezza del nostro peccato si fonde nel cuore di Gesù, viene superata, vinta dalla certezza del suo costante perdono. Ecco, fratelli: questo sentimento, questo convincimento, deve essere alla base della nostra religiosità; in particolare in questi tempi di “modernità”, in cui la società del consumismo ha eliminato completamente ogni concetto di peccato contro Dio; oggi il “peccato” morale non esiste più; è stato sostituito dal surrogato di “colpa”, legata alla trasgressione di leggi umane, la cui gestione è affidata soltanto alla giustizia umana, spesso parziale e corruttibile. Noi cristiani invece siamo sintonizzati su un altro livello; sappiamo bene che qualunque cosa facciamo contro il nostro prossimo, chiunque esso sia, lo facciamo anche contro Dio: «Quello che hai fatto a tuo fratello lo hai fatto a me». E parlando ai suoi discepoli, insiste dicendo: “Continuate ad amare i peccatori, a dir loro che il perdono di Dio è grande; perdonate anche voi come ho perdonato io. A voi affido questo incarico, difficilissimo per un uomo: quello di perdonare; ecco, quello che voi stentate a fare, io vi chiedo di farlo per conto di Dio!”.
Ecco, questa è la nostra fede, fratelli, e da questa fede dobbiamo trarre le nostre certezze, quelle fondamentali, quelle che devono sorreggere la nostra vita; dobbiamo credere sempre, ciecamente, con tutto il cuore. Certo, questo atteggiamento non è automatico, non lo si può pretendere da nessuno, magari condizionandolo al fatto che oggi viviamo in un contesto tradizionalmente cristiano, pieno di Chiese e celebrazioni. Non basta dire “io credo, io ho conosciuto il Signore, io sono stato salvato da lui, ecc.” per ottenere che anche gli altri credano come noi. E nemmeno possiamo pretendere di convincere gli altri sbandierando ai quattro venti quel poco che facciamo, osannandoci da soli, magari facendolo in funzione della loro ammirazione e approvazione. Agli occhi degli altri possiamo anche sembrare delle persone di fede autentica, granitica, persone con una vita profondamente coerente. Ma è davvero così? È così che siamo realmente, fratelli? Facciamo attenzione però, perché con Dio non possiamo bluffare! Noi sappiamo bene invece, fratelli miei, che non sempre quello che appare è tutto bello, facile, gradevole, coerente! Spesso dubbi atroci assalgono anche noi; spesso tutto ci sta per crollare addosso, tutto viene messo in discussione. Tanto da doverci chiedere onestamente: “Ma quello che faccio è volontà di Dio, oppure è soltanto una mia scelta di vita: “mia” e non “di Dio”? Non è che a volte il mio desiderio di “apparire” compromette tragicamente, il mio “essere” reale?
Quante volte infatti, fratelli miei, siamo portati a contrabbandare per volontà di Dio quello che invece siamo solo noi a volerlo, quello che fa comodo soltanto a noi! A chi non è capitato? A chi non continua a capitare?
Allora prendiamo in mano la nostra vita, fratelli. Impariamo da Tommaso l’umile e sincera adesione al Risorto. Tocchiamo anche noi le Sue ferite, segno indelebile della Sua passione, del Suo sacrificio cruento per noi: siano esse sicurezza, forza, vitalità, conforto. Siamo disponibili anche noi, come Tommaso, a metterci continuamente in gioco, a radicare nell’amore del Suo cuore trafitto le nostre certezze, a rinforzare in esso la nostra troppo debole fede.
Non esibiamo false certezze, fratelli; non temiamo di dimostrare la nostra debolezza, la nostra insicurezza, la nostra vulnerabilità: evitiamo l’arroganza e la presunzione del mondo, dimostriamo invece di essere dei discepoli che si pongono ancora tante domande, che devono fare i conti ogni giorno con dubbi ed errori. E soprattutto nutriamo sempre tanta, tanta fiducia in Lui: certi che nel momento del bisogno, egli continuerà a mostrarsi a ciascuno di noi, invitandoci a toccare quei terribili e indelebili segni del Suo amore infinito per l’umanità. Siamone certi: Egli continuerà a rivelarsi, a tutti singolarmente, e lo farà nei tempi e nei modi più opportuni: come solo Lui sa fare. Amen.
Otto giorni dopo, infatti, il Maestro torna apposta per lui. Eccolo qui, dunque, il Risorto. Leggero, splendido, sereno. Sorride, emana una forza travolgente. Gli altri lo riconoscono e vibrano. Tommaso, ancora titubante, lo guarda: la gola secca, senza riuscire a spiccicare una parola. Viene verso di lui ora, il Signore; gli mostra le mani, trafitte. «Tommaso, so che hai molto sofferto. Anch'io ho molto sofferto: guarda qui». E Tommaso allora crolla, cede. La rabbia, il dolore, la paura, lo smarrimento si sciolgono come neve al sole. Si butta in ginocchio ora, e bacia quelle ferite: la tensione di tutti quei giorni improvvisamente si tramuta in un pianto liberatorio: e piange, Tommaso, e insieme ride felice: «Mio Signore! Mio Dio!». Riviviamo la scena, fratelli, immaginando di essere anche noi lì presenti! La stessa commozione assalirebbe anche noi; noi, gli increduli di duemila anni dopo, ai quali lo stesso sentimento di Tommaso ancora oggi riesce a serrare la gola, a far riempire di lacrime gli occhi. Del resto, come è possibile rimanere impassibili e indifferenti, meditando queste righe del vangelo? Poche righe, è vero, ma assolutamente determinanti per la nostra fede, per la nostra vita spirituale. L’assenza di Tommaso, quella volta, è stata veramente salutare, soprattutto per noi: per noi discepoli “che non abbiamo visto”, che facciamo ancora tanta fatica a metabolizzare completamente il messaggio della risurrezione; per noi, gli incoerenti della Chiesa di oggi.
Ma Gesù ci ama troppo per lasciarci in preda ai dubbi, al dolore, alle incertezze; egli, il Vivente, rassicura in maniera inoppugnabile, attraverso l’incredulità di Tommaso, la nostra incredulità, con lo stesso amore di allora. E lo fa per tutti: sia per gli entusiasti, gli innamorati folli, che lanciano eroicamente il loro cuore ad di là di qualunque ostacolo, che aderiscono senza esitazione alcuna a Cristo, come per quelli come noi, i più deboli, per quelli che hanno sperimentato sulla propria pelle il fallimento della loro vita di fede; per quelli che si sentono scandalizzati dall'incoerenza della Chiesa, per quelli che sono stati feriti dalla spada del pregiudizio e della calunnia; per i crocifissi e gli oltraggiati di oggi: e per tutti Tommaso è l’invito a non farsi sopraffare dalla fragilità di una fede distratta, ma a fissare coraggiosamente lo sguardo sullo splendore del Risorto; è l’invito a restare sempre più legati, fedelmente e convintamente, al grande sogno del Maestro che è la Chiesa: anzi a contribuire noi stessi alla sua conversione, partendo dalla nostra personale conversione.
L'atteggiamento di Gesù verso Tommaso e gli altri discepoli, come appare evidente, è un atteggiamento straordinario di amicizia, di perdono, di amore: un perdono per tutti, che è iniziato già sulla croce, quando tra i tormenti ha gridato: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (o che si fanno tra loro!). Si, fratelli: Gesù Cristo è il perdono stesso di Dio fatto persona!
Ma torniamo al testo. In Giovanni leggiamo: «La sera di quello stesso giorno (della Resurrezione), il primo dopo il Sabato, Gesù venne, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi». In un altro Evangelista leggiamo: «Pace tra voi», come se Gesù volesse sedare una accalorata discussione. E di cosa mai potevano discutere gli Apostoli tra di loro, radunati nel Cenacolo dopo la morte di Gesù, avendo sentito che Gesù era risorto? Forse, dopo essersi ripresi dallo smarrimento dei primi giorni, nel rivivere ed analizzare i momenti più convulsi del dramma che aveva tragicamente distrutto ogni loro prospettiva per il domani, saranno sicuramente volate parole grosse, delle accuse reciproche, dei rinfacciamenti impietosi. Sappiamo infatti che i dodici non erano un “cuore solo e un'anima sola”: ognuno di loro aveva il suo carattere, ognuno la pensava a modo suo, ognuno considerava l'altro come un possibile concorrente... Eppure Gesù in tutta la sua predicazione, ma soprattutto nell'ultima cena, aveva sempre insistito su un punto: “Io voglio che vi vogliate bene; che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi; voglio che stiate insieme superando tutti i vostri singoli interessi...”.
Nonostante ciò Gesù, arrivando da loro dopo la risurrezione, si limita a dire con grande dolcezza: “Pace a voi!, pace tra voi!”. Invece di reagire, invece di perdere la pazienza con tanti zucconi, invece di essere lui stesso a rinfacciare, giustamente, le magagne di ciascuno, dice soltanto: “Pace tra voi”! E Gesù ne aveva di motivi da “rinfacciare”, eccome! Poteva per esempio “rinfacciare” a Pietro il fatto di aver sfoderato la spada, contro le sue raccomandazioni; poteva rinfacciargli il rinnegamento davanti alle portinaie, nonostante glielo avesse predetto per filo e per segno, e lui, gradasso, avesse spergiurato che lui, no, non lo avrebbe mai tradito...
Poteva “rinfacciare” ai tre che erano vicini a Lui nell'Orto degli Ulivi di essersela data a gambe levate, appena avevano visto la mala parata! E proprio uno di loro, Giacomo, aveva chiesto apertamente di potersi sedere alla sua destra nel Regno; e alla domanda di Gesù: “Potrai bere questo calice?” aveva risposto immediatamente: “Sì!”; salvo poi, al dunque, scappare e rendersi anche lui latitante come gli altri. E Giovanni? Che dire di quel Giovanni, il prediletto di Gesù, che lo aveva sì seguito sul calvario insieme a Maria, ma che, durante la cena, pur avendo perfettamente capito chi fosse il traditore, non è intervenuto immediatamente per fermare Giuda, senza neppure informare gli altri perché almeno loro lo facessero? Anche Giovanni aveva le sue colpe: evidentemente, forse con un po’ di egoismo, aveva scelto la parte che gli era più congeniale, quella più “soft”, quella cioè di stare accanto a Gesù, piuttosto che adottare un comportamento deciso, coraggioso, di rottura, esponendosi in prima persona pur di fermare il traditore e scongiurare in qualche modo la crocifissione: eppure Gesù non rimprovera neppure lui.
E gli altri Apostoli? Sono tutti fuggiti di nascosto, senza avvisare nessuno, senza neppur tentare di organizzare alla meglio quella parte di popolo che amava Gesù, e che sarebbe sicuramente insorta a Suo favore. Quegli apostoli che invece di reagire, hanno preferito starsene al sicuro, e guardare da lontano gli eventi: né più né meno di come hanno imparato a fare oggi tanti “discepoli” della sua Chiesa, tanti che promettono, promettono solennemente, con grandi celebrazioni e giuramenti, ma che poi alla prima difficoltà, con magistrale faccia tosta, non mantengono la parola, si rimangiano tutto!
Purtroppo la storia della Chiesa si ripete nei tempi; per alcuni versi è sempre uguale. Gesù del resto ci ha messo in guardia anche su questo: «I figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della Luce»: mentre cioè i figli della Luce dormono o, meglio, vivono in “attesa” di non si sa che cosa, tranquilli e sicuri di sé, gli “altri” si danno da fare; e quando verrà il giorno della fioritura si domanderanno: “Ma come! Noi abbiamo seminato solo il grano, perché è cresciuta anche la zizzania?”.
Eh sì, fratelli miei: spesso noi cristiani facciamo la figura di quelli che non si accorgono di nulla! Dormiamo, soprassediamo, aspettiamo l’iniziativa degli altri; nel frattempo il nemico semina la zizzania del male, delle offese, dei litigi, insinua dubbi, getta fango sui nostri principi, sulla nostra fede; con il risultato che arriviamo a chiudere la stalla quando i buoi sono già fuggiti!
Ma torniamo ancora una volta al vangelo: Gesù dunque, arrivando nel Cenacolo, avrebbe avuto mille motivi per fare un sacco di rimproveri a tutti, ma invece che fa? Dice: «Pace a voi, pace tra voi». Gesù non rinfaccia niente! Non lo fece allora e continua a non farlo oggi: Gesù (fortunatamente per noi) non rinfaccia mai niente! Egli sa che ciascuno di noi ha un grande bisogno di sentirsi amato, perdonato, di sentirsi incoraggiato: egli ci conosce profondamente, sa tutto di noi: egli conosce di noi cose che nessun altro può e potrà mai conoscere: cose che soltanto noi e Lui conosciamo. E lui, nonostante tutto, ci ama veramente; continua ad amarci, sempre!
Capite l’importanza di questo atteggiamento? Per noi, fratelli, essere certi del suo perdono, del suo amore, è vitale; perché in tal caso vengono a cadere tutte le nostre scuse, le nostre attenuanti, di qualunque natura esse siano: come quelle di riconoscerci realmente colpevoli, di ammettere le nostre responsabilità, le nostre debolezze, i nostri peccati (oggi molto fuori moda!), di non ricambiare l’amore viscerale di Dio. Ma è soprattutto fondamentale, perché in questo modo la sincera consapevolezza del nostro peccato si fonde nel cuore di Gesù, viene superata, vinta dalla certezza del suo costante perdono. Ecco, fratelli: questo sentimento, questo convincimento, deve essere alla base della nostra religiosità; in particolare in questi tempi di “modernità”, in cui la società del consumismo ha eliminato completamente ogni concetto di peccato contro Dio; oggi il “peccato” morale non esiste più; è stato sostituito dal surrogato di “colpa”, legata alla trasgressione di leggi umane, la cui gestione è affidata soltanto alla giustizia umana, spesso parziale e corruttibile. Noi cristiani invece siamo sintonizzati su un altro livello; sappiamo bene che qualunque cosa facciamo contro il nostro prossimo, chiunque esso sia, lo facciamo anche contro Dio: «Quello che hai fatto a tuo fratello lo hai fatto a me». E parlando ai suoi discepoli, insiste dicendo: “Continuate ad amare i peccatori, a dir loro che il perdono di Dio è grande; perdonate anche voi come ho perdonato io. A voi affido questo incarico, difficilissimo per un uomo: quello di perdonare; ecco, quello che voi stentate a fare, io vi chiedo di farlo per conto di Dio!”.
Ecco, questa è la nostra fede, fratelli, e da questa fede dobbiamo trarre le nostre certezze, quelle fondamentali, quelle che devono sorreggere la nostra vita; dobbiamo credere sempre, ciecamente, con tutto il cuore. Certo, questo atteggiamento non è automatico, non lo si può pretendere da nessuno, magari condizionandolo al fatto che oggi viviamo in un contesto tradizionalmente cristiano, pieno di Chiese e celebrazioni. Non basta dire “io credo, io ho conosciuto il Signore, io sono stato salvato da lui, ecc.” per ottenere che anche gli altri credano come noi. E nemmeno possiamo pretendere di convincere gli altri sbandierando ai quattro venti quel poco che facciamo, osannandoci da soli, magari facendolo in funzione della loro ammirazione e approvazione. Agli occhi degli altri possiamo anche sembrare delle persone di fede autentica, granitica, persone con una vita profondamente coerente. Ma è davvero così? È così che siamo realmente, fratelli? Facciamo attenzione però, perché con Dio non possiamo bluffare! Noi sappiamo bene invece, fratelli miei, che non sempre quello che appare è tutto bello, facile, gradevole, coerente! Spesso dubbi atroci assalgono anche noi; spesso tutto ci sta per crollare addosso, tutto viene messo in discussione. Tanto da doverci chiedere onestamente: “Ma quello che faccio è volontà di Dio, oppure è soltanto una mia scelta di vita: “mia” e non “di Dio”? Non è che a volte il mio desiderio di “apparire” compromette tragicamente, il mio “essere” reale?
Quante volte infatti, fratelli miei, siamo portati a contrabbandare per volontà di Dio quello che invece siamo solo noi a volerlo, quello che fa comodo soltanto a noi! A chi non è capitato? A chi non continua a capitare?
Allora prendiamo in mano la nostra vita, fratelli. Impariamo da Tommaso l’umile e sincera adesione al Risorto. Tocchiamo anche noi le Sue ferite, segno indelebile della Sua passione, del Suo sacrificio cruento per noi: siano esse sicurezza, forza, vitalità, conforto. Siamo disponibili anche noi, come Tommaso, a metterci continuamente in gioco, a radicare nell’amore del Suo cuore trafitto le nostre certezze, a rinforzare in esso la nostra troppo debole fede.
Non esibiamo false certezze, fratelli; non temiamo di dimostrare la nostra debolezza, la nostra insicurezza, la nostra vulnerabilità: evitiamo l’arroganza e la presunzione del mondo, dimostriamo invece di essere dei discepoli che si pongono ancora tante domande, che devono fare i conti ogni giorno con dubbi ed errori. E soprattutto nutriamo sempre tanta, tanta fiducia in Lui: certi che nel momento del bisogno, egli continuerà a mostrarsi a ciascuno di noi, invitandoci a toccare quei terribili e indelebili segni del Suo amore infinito per l’umanità. Siamone certi: Egli continuerà a rivelarsi, a tutti singolarmente, e lo farà nei tempi e nei modi più opportuni: come solo Lui sa fare. Amen.