giovedì 31 agosto 2017

3 Settembre 2017 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,21-27).
Gesù oggi, per la prima volta, annuncia ai discepoli la sua morte. La sua missione è di cambiare il mondo, di cambiare la religione del suo tempo, di dare al mondo un volto nuovo: ma per fare tutto questo deve andare a Gerusalemme, centro del mondo; deve andare là, anche se conosce perfettamente la situazione che l’attende, anche se sa che il clima in cui deve operare sarà molto diverso rispetto a quello della Galilea, dove attualmente svolge la sua predicazione. Gesù sa che a Gerusalemme il potere religioso è in mano a scribi e farisei, e per loro Lui è un sovversivo, un anarchico, un trasgressivo, uno che deve essere eliminato ad ogni costo.
Così, quando Gesù anticipa ai suoi la possibilità di uno scontro frontale decisivo, duro, mortale, con i suoi nemici, Pietro reagisce e con la sua solita irruenza gli grida: “Signore, questo non ti accadrà mai!”.
E qui decade Pietro, il “beato” di poco prima. Come mai? Guardiamo meglio: Gesù ha deciso di raggiungere la sua destinazione, Gerusalemme. Deve compiere la sua missione: e Pietro che fa? lo “trae in disparte”, lo distoglie, cerca di sviarlo, di chiudergli la strada; in altre parole lo “tenta”; gli dice: “No, non fare così!”. E glielo dice con forza, con rabbia, gridando, come si fa quando si rimprovera uno che sbaglia e che non vuol capire il proprio errore: il verbo greco “epi-timao” significa proprio questo. Praticamente Pietro gli si para davanti, lo affronta, vuol decidere lui la vita di Gesù, vuol dirgli cosa deve o non deve fare; in pratica gli urla in faccia: “Tu non capisci, ti sbagli, non puoi fare così!”. E Gesù: “No, amico, tu sei satana. Vai indietro e non ti permettere di intralciare la mia strada”. Gesù infatti usa qui nei confronti di Pietro le stesse parole con cui aveva cacciato satana, il tentatore del deserto: “Vattene, satana(Mt 4,10). E quel Pietro che poco prima era il discepolo guida, che era il “beato, perché ispirato dal Padre”, qui, improvvisamente, diventa il demonio, il diavolo, satana, il tentatore. 
Esattamente come siamo noi quando ci ostiniamo, quando ci mettiamo contro, quando testardamente facciamo resistenza al piano di Dio. Siamo anche noi altrettanti “satana”.
Ma chi è esattamente questo Satana? Satana nella Bibbia non è mai un nemico di Dio; lo è però continuamente nei confronti dell’uomo. È un ostacolo forte nella strada che l’uomo deve percorrere per andare a Dio: “satana” (l’avversario), oppure il “diavolo” (colui che divide), è un’entità che separa, che spezza, che sconquassa l’uomo: ma attenzione: non è un’entità esterna, separata dall’uomo, autonoma, divisa da noi; non è un’entità altra da noi. Satana, il diavolo, è in noi, siamo noi stessi, è la proiezione della nostra volontà deviata, la nostra “mala manus”!
Certo, il male c’è, la perversione e il diabolico esistono! Sarebbe sciocco negarlo: ma sono realtà che non nascono spontaneamente, di loro iniziativa, autonomamente: esistono perché noi le vogliamo; sono il prodotto del nostro cuore, siamo noi quando non ci evolviamo nell’Amore divino, quando nel nostro cuore non lasciamo spazio a Dio, e veniamo dominati dal buio, dalle tenebre, dall’ignoto; quando i nostri impulsi prendono il sopravvento; quando la rabbia e l’odio ristagnano nell’anima e ci dominano.
Certo, è più semplice per noi pensare all’esistenza di una entità esterna, personalizzata, chiamata “demonio”, su cui scaricare la colpa di tutto ciò che ci capita di male, di tutto quello che non capiamo, di quello che nella nostra vita non riusciamo a spiegarci: è sicuramente molto più comodo che accettare la realtà, che cioè tutti noi, e solo noi, possiamo essere i “satana”, gli artefici del male. 
Dopo dunque aver ridimensionato la figura del povero Pietro, Gesù prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Un invito perentorio, categorico, le cui parole meritano di essere approfondite. 
Prima di tutto c’è quel “rinneghi se stesso”; letteralmente: “dica di no a se stesso”. Un’espressione che in passato veniva generalmente spiegata con la necessità, per raggiungere la perfezione, di penalizzare se stessi, ignorarsi, spersonalizzarsi, spendersi completamente per gli altri, piuttosto che, più positivamente, coltivare quel personale seme di vita che Dio ha posto in noi: con i risultato che esaudire, ascoltare i bisogni del proprio cuore, promuovere i propri carismi, realizzare i propri sogni, era considerato peccato, un fatto negativo, sicuramente in contrasto con la fedele sequela di Cristo.
Ebbene, niente di tutto ciò: quel rinnegare, quel dire no, va riferito a satana che è in noi, significa, in altre parole, dire “no” a quanto ci divide, ci allontana da Dio; dire “no” a qualunque cosa ci sia d’inciampo sulla strada che abbiamo scelto per seguirlo. E con quanti “no” dobbiamo fare i conti! Con quanti “no” abbiamo dovuto e dobbiamo rispondere ai suggerimenti, alle lusinghe, alle tentazioni del nostro io-satana che ci tormenta in continuazione! 
Questa è la nostra croce: la croce, come dice Gesù, che ognuno deve prendere su di sé. Sì, perché tutti, indistintamente, abbiamo la nostra croce, nessuno escluso. 
Gesù ha avuto la sua di croce, noi abbiamo la nostra. Ma la vera croce di Gesù non è stato tanto il suo patibolo materiale, la morte in croce: questa è stata la “forma” esteriore, gloriosa, di accettarla: ma la sua vera croce, quella che lui ha coraggiosamente portato, è stata quella di essere fedele, lui Dio, alla sua umanità, a se stesso, alla sua missione di uomo-Dio; l’essere cioè fedele al volere del Padre, al Dio che era in lui (Padre, sia fatta la tua volontà).
E questa è anche la nostra croce: l’essere anche noi autentici fedeli al Dio che abbiamo dentro: l’essere fedeli sempre, ogni momento, senza ricorrere a stupidi compromessi; questa è la nostra vera “croce”, una croce pesantissima, poiché è motivo di continui scontri, di dure opposizioni, di rifiuto totale, di odio profondo da parte del mondo. Ci saranno giorni in cui le nostre convinzioni, le nostre scelte, non allineate alle ideologie di massa, ci esporranno alla disapprovazione, allo scherno, al disprezzo, alla commiserazione.
La nostra croce, insomma, come per Gesù, è seguire la volontà del Padre, andare fino in fondo senza mai deflettere, alla nostra vocazione, alla nostra strada, a ciò che Dio-Vita ci chiede singolarmente di vivere. Significa non sottrarci alle inevitabili contrarietà, non cedere alla voce della paura e del compromesso. 
Poi Gesù dice: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La vita non può essere conservata! Non si può rimanere sempre giovani! Non si può vivere per sempre! Non ci si può garantire contro ogni imprevisto! Non esiste un’assicurazione sulla vita che ci preservi da ogni malanno o contrarietà! Chi vive così, non vive, perché tutto il suo esistere è concentrato a conservare un qualcosa, piuttosto che a sfruttarlo, svilupparlo, goderlo. 
Prima o poi la vita finirà per tutti! È illusione pensare di conservarla! Allora spendiamola, giocamola, investiamola per qualcosa di elevato, di nobile, di meritorio, per qualcosa che sia utile, che sia significativo. Solo così sentiremo che la nostra esistenza ha un senso, il “suo” senso. Che ha prodotto cioè quei frutti per cui ci era stata donata. Altrimenti abbiamo fallito: la nostra vita è stata una vita insulsa, banale, sprecata.
Ironicamente Gesù commenta: “Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”. Questo è il punto. Ci sono persone che spendono la propria vita per conquistare l’intero mondo, e ci riescono anche, ma non sono felici, non possono esserlo. Perché ciò che dà vera felicità è la Vita della propria anima. Se l’anima (la parte di noi spirituale, divina) vive, si sviluppa, cresce, dà frutto, allora noi viviamo in pace con tutti, siamo soddisfatti, felici, sereni; altrimenti no. Possiamo avere i figli più dotati del mondo, ma se non abbiamo trasmesso loro la nostra anima, la comprensione, la presenza costante, la tenerezza, l’amore e il timore di Dio, il meglio della nostra vita spirituale, alla prima difficoltà li perderemo. Possiamo avere la più elegante e ricca casa del mondo, ma se nella nostra famiglia non c’è comunicazione, non c’è scambio di sentimenti, intensità, coinvolgimento, amore, a che ci serve una reggia faraonica? La nostra persona può godere di fama, prestigio, considerazione, onori, possiamo essere rispettati, acclamati, apprezzati da tutti, ma se dentro di noi, nella nostra anima, ci sentiamo vuoti, senza valore, falliti, depressi, a che ci serve la gloria? Possiamo avere un sacco di soldi, possiamo permetterci cose grandiose, ma se non sentiamo, se non percepiamo la vitalità, l’ebbrezza, la gioia che viene dall’essere fedeli servitori di Dio, riconosciamolo, a che ci serve tutto il resto?
E Gesù conclude: “Poiché il Figlio dell’uomo verrà e renderà a ciascuno secondo le sue azioni”. Alla fine della nostra vita raccoglieremo i frutti che abbiamo seminato. La vita è onesta, leale: ci restituisce sempre quello che le chiediamo: se le chiediamo chiasso, frastuono, spensieratezza, delirio di onnipotenza, poi non chiediamoci perché siamo così ansiosi, stralunati, pieni di nevrosi; una esistenza proiettata esclusivamente all’esterno, non può amare il silenzio, la tranquillità, la quiete, indispensabili per poter parlare con la nostra anima, ascoltare la sua voce. Se non preghiamo mai e non coltiviamo mai i sentimenti del nostro cuore, non chiediamoci perché ci sentiamo così aridi, così inutili. Se non abbiamo mai tempo per stare con i nostri cari, con i nostri figli, se li ignoriamo, se non li ascoltiamo, se le nostre anime non comunicano tra loro, non chiediamoci poi perché li sentiamo così lontani, indifferenti, duri e ribelli. Se siamo chiusi nella nostra mentalità, se non cambiamo mai, se rimaniamo bloccati nelle nostre posizioni, se non ci rinnoviamo aprendoci allo Spirito, non chiediamoci poi perché non siamo capiti dagli altri, perché ci sentiamo “fuori”, perché ci sentiamo vecchi, fuori posto.
Il vero problema, in definitiva, è uno solo: dobbiamo affrontare i nostri demoni interiori, le nostre paure, dobbiamo saper rispondere a tono al nostro satana, dobbiamo puntare i piedi e gridare i nostri “no”: altrimenti è inutile poi, alla resa dei conti, piagnucolare “Signore, Signore”, tendendogli le nostre mani sporche e vuote. Sì, la misericordia divina è senza limiti, il cuore di Dio trabocca d’amore, ma non vi sembra un po’ troppo illusorio e pretenzioso contare unicamente sulla bontà divina, buttandoci alle spalle qualunque richiamo della nostra coscienza, ora che abbiamo ancora il tempo di rimediare? Non vale forse la pena di ascoltarla quella voce di Dio, per saperla almeno riconoscere quel giorno in cui ci chiamerà? Pensiamoci. Amen.



giovedì 24 agosto 2017

27 Agosto 2017 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Disse loro: Ma voi, chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-20).
I discepoli che seguivano Gesù, quelli che lui aveva scelto e che stavano sempre con lui, hanno potuto constatare quanto egli fosse seguito e amato dalle folle; hanno potuto assistere a miracoli e guarigioni, hanno visto morti tornare in vita, ciechi vedere, sordi udire; hanno visto tantissima gente cambiare vita; lo hanno sentito dire parole forti, vive, parole che svegliano il cuore, che fanno venire “voglia di vivere”, di sperimentarsi, di donarsi, di amare, di buttarsi nella mischia. 
Nonostante ciò, nel loro intimo, essi non riescono a staccarsi dai vecchi schemi: sono ancora imbevuti della vecchia religione, della vecchia mentalità. Hanno fatto certamente degli aggiustamenti alla loro vita, hanno effettuato degli smussamenti, delle variazioni, ma sostanzialmente sono rimasti quelli di prima.
Per questo Gesù, come ci racconta il vangelo di oggi, li mette alla prova ponendo loro una domanda a bruciapelo, per vedere in concreto cos’hanno capito di lui: “Va bene: questo è quello che gli altri pensano di me: “Ma voi chi dite che io sia?”.
A questo punto l’imbarazzo generale: la loro risposta è desolante, la confusione è totale: un guazzabuglio di idee; ciascuno pensa qualcosa di diverso, nessuno riesce a dire chi sia per loro Gesù. Non lo vedono per quello che è; lo vedono alla luce dei loro “vecchi schemi”: in lui, come tutti, essi vedono un profeta, un personaggio importante della Bibbia. È sicuramente un bel paragone, ma Gesù non è “come” qualcun altro. Gesù è Gesù, e soprattutto Gesù è completamente diverso da tutti: da quelli venuti prima e da quelli che verranno dopo.
Gesù non è uno dei tanti profeti biblici: Gesù è il Profeta, è il figlio di Dio. E questo essi non l’hanno capito.
Non è come Giovanni il Battista, il grande moralizzatore, che chiedeva insistentemente una totale conversione di vita, obbligando chi voleva battezzarsi ad una vita di penitenza e opere di misericordia. Gesù al contrario non impone mai nulla, a nessuno. La sua è una “proposta” di vita: chi vuole la segue. Seguirla, significa sentirne la bellezza, la forza, la vitalità che trasmette, la fiducia che suscita, la pace interiore che infonde. Nessuna costrizione!
Non è come Elia, zelante e intransigente difensore di Dio. Annunciava un Dio severo, duro, rigido, patriarcale, che non ammetteva nient’altro che una strada, una verità, una legge. Ha fatto uccidere quattrocentocinquanta profeti di Baal e li ha sgozzati uno per uno (1Re 18,22.40); ha “bruciato” cento uomini (2Re 1,9-12) solo per dimostrare che egli era “uomo di Dio”. Gesù non può assolutamente essere come Elia. Certo, gli apostoli lo avrebbero voluto in qualche modo così. Avrebbero voluto un uomo forte, potente, che sistemasse, una volta per tutte, le cose sia dal punto di vista religioso che sociale e politico. Ma Gesù non è così. Non c’è traccia di violenza o di sopraffazione in Lui. 
Gesù non è un profeta legato ai canoni del tempo. Gesù è profeta perché mostra il Padre fuori dal tempo.
L’autorità religiosa e profetica del tempo si fondava su due principi: paura ed obbedienza. Se i sacerdoti e le leggi religiose dicevano che uno “non era in regola” c’era da aver paura. Dio, più che da amare, era da temere, uno che bisogna tenerselo buono perché, non si sa mai, magari ci manda all’inferno! La gente era sottomessa. Non veniva aiutata ad ascoltare il proprio cuore. Anzi: era pericoloso ascoltare il proprio cuore perché ascoltarlo voleva dire sentire in maniera diversa dalle autorità, avere altri punti di vista, dissentire, e ciò era sinonimo di condanna.
Il Dio di Gesù al contrario non crea servitori, schiavi; mai! Dio crea uomini liberi. Dio non sa che farsene di esecutori senza cuore, di funzionari senza cervello, senza un pensiero autonomo, libero e personale.
Del resto obbedire (dal latino ab-audire) significa letteralmente “ascoltare da dentro”: l’obbedienza non è eseguire ciò che uno vuole, ciò che comanda, perché questa è schiavitù; obbedire, in senso stretto, vuol dire assecondare i desideri di chi abbiamo dentro, cioè di Dio; obbedire è dar voce al Dio che parla, canta, grida, sussurra, dentro di noi; obbedire è dargli voce, dargli spazio, dargli vita; obbedire invece agli altri, e non a Lui, significa farlo morire, lasciarlo sepolto, inascoltato, abbandonato dentro di noi. Obbedire, insomma, vuol dire ascoltare il nostro cuore e rimanergli fedele, vuol dire ascoltare Dio e non tradirlo; anche se sarebbe più comodo fare come tutti, adattarci alla situazione, seguire la corrente comune, evitando magari insulti, conflitti, contrasti, a volte dolorosi.
Sicuramente gli apostoli quando guardavano Gesù lo vedevano ancora così, con le vecchie categorie: paura e sottomissione. E quando Gesù pone loro la grande domanda, il silenzio che ne segue è perché proprio non sanno chi Egli sia veramente, non l’hanno ancora capito; non sanno pensare a nient’altro che ai loro “modelli”.
Solo Pietro, per un attimo, ha uno slancio vitale, un’intuizione fuori dal coro:”No, tu non sei un profeta, non sei un sacerdote così. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16).
In realtà i discepoli avevano già riconosciuto Gesù come “Figlio di Dio” (Mt 14,33): è che non avevano capito cosa volesse dire “Figlio di Dio”.
La novità di Pietro non è tanto dare a Gesù un titolo, una etichetta identificativa, quanto dare la spiegazione di tale titolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio; “Tu sei il Vivente, colui che fa vivere, che dà e porta alla vita”.
E Gesù gli dice: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”.
Ci siamo mai chiesto perché Gesù chiama Pietro, “figlio di Giona”? Giona è stato l’unico profeta che nell’Antico Testamento ha fatto il contrario di quello che Dio gli aveva comandato: inviato a Ninive a predicare la conversione, lui se n’è andato nella direzione opposta (Gn 1,3). Ebbene, Pietro è “bar”, figlio, di Giona, perché è sanguigno e testardo come lui; perché anch’egli andrà contro il Signore, lo rinnegherà; ma anche lui alla fine si salverà.
E Gesù conclude: “Queste cose non le hai imparate dai libri o perché qualcuno te le ha insegnate o te le ha ordinate (né la carne né il sangue). Queste cose le cogli solo se hai un cuore vivo, solo se hai un’anima che pulsa, solo perché Dio può parlare liberamente dentro di te (“ma il Padre mio che è nei cieli”). Solo chi obbedisce a Dio, cioè solo chi lo lascia parlare dentro di sé, lo può conoscere. Gli altri riportano, deducono, pensano, ma non sanno e non possono sapere”.
Solo su questa pietra, pertanto, solo su questa certezza (che Lui è il Vivente!), è possibile costruire la chiesa; e contro questa certezza nessun potere ha potere, le porte degli inferi e il diavolo stesso non possono nulla. Essa è la chiave della felicità, la chiave di una vita piena. “Regno dei cieli”, nel vangelo, non significa un regno dell’al di là, ma una vita dove Dio vive e si fa vedere, dove si rende visibile, anche nell’al di qua.
La chiave del Regno di Dio, è allora far uscire, sprigionare tutta la vita, l’energia, la forza, che abbiamo ora dentro di noi, perché una vita “viva” è lode a Dio, una vita vissuta bene è un canto a Colui che è la Vita. Perché è solo in questo modo che i nostri legami di vita, intrecciati sulla terra, rimarranno vivi per sempre; poiché la vita di ora, liberata, sciolta dalle catene di morte, sublimata, rimarrà viva e libera per sempre nell’Amore eterno.
Le relazioni quaggiù a volte finiscono per tanti motivi: scelte diverse, egoismo, incomprensioni, lontananza, morte. Le relazioni finiscono, non l’amore. “A-more” (alfa privativo-mors, mortis) vuol dire infatti ”non-morte”. Se la nostra vita è stata Amore, vissuta nell’Amore, saremo vivi per sempre, saremo per sempre uniti con chi abbiamo amato. Anzi, nell’aldilà, non rimarrà nient’altro che la forza di attrazione dell’Amore: ecco perché non dobbiamo temere di perdere le persone amate: perché è nell’amore che rimarranno per sempre parte di noi, indissolubilmente legati a noi. Vivere l’amore è vivere Cristo, è vivere il Vivente, è vivere Colui che ci fa vivere in eterno.
Gli apostoli, solo dopo la Pentecoste, una volta liberi dai loro schemi politico-religiosi, capiranno finalmente chi è veramente Gesù; e andranno per il mondo a predicare e testimoniare esattamente questo: “Lui è vivo! Lui è la Vita! Lui ci fa vivere!”.
Anche noi, nel nostro peregrinare, non dobbiamo mai perdere di vista il Dio della Vita, il Dio dell’Amore: dev’essere Lui il nostro vero obiettivo, colui che merita tutta la nostra attenzione, i nostri interessi. Il nostro vivere da cristiani, le nostre preghiere. La nostra messa domenicale, le nostre preghiere, la nostra carità, sono solo dei mezzi che ci devono portare a Lui: anche se efficaci e fondamentali, essi rimangono pur sempre dei mezzi; e se non riescono a farci “vivere”, se non riescono ad andare oltre i semplici “riti”, le semplici “abitudini”, se non riescono a metterci in contatto vivo con Lui, sono assolutamente inutili. Non servono a nulla!
Così quando entriamo in Chiesa, dobbiamo entrarci solo per incontrare Lui, non per fare intrattenimento o promozione personale; dobbiamo entrare per ossigenarci, per consentire alla Vita di scorrere in noi più forte e più viva di prima; perché è lì, ascoltando la sua Parola, mangiando la sua carne, bevendo il suo sangue, pregando e parlando con Lui, che riusciremo a scoprire nuove ragioni di vita, nuovi spazi vitali per noi e per il mondo. Solo in questo modo, una volta usciti, ci sentiremo più motivati, più vivi, più pronti ad affrontare e superare qualunque difficoltà: non in Chiesa, ma è qui, nel mondo, nella società, che siamo chiamati a tradurre l’Amore per i fratelli in gesti concreti. Dio è Vita e Amore: ed Egli vive, si fa presente e continua a farsi riconoscere soprattutto là, dove noi esprimiamo Vita e Amore. Amen.



giovedì 17 agosto 2017

20 Agosto 2017 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«Ed ecco una donna Cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola» (Mt 15,21-28).

Dopo l’attraversata del lago di Tiberiade, Gesù si sposta in territorio pagano: Tiro e Sidone, posizionate nel territorio dei Fenici costituiscono infatti, rispetto a Israele, una “regione pagana” per eccellenza; Gesù si porta in quei luoghi per dimostrare che anche i non circoncisi, i non ebrei, i pagani, si devono sentire invitati al Regno: la sua azione salvifica non ha confini territoriali, non ha limiti di razze, ma è universale, destinata a tutti, all’intero genere umano.
Qui incontra una donna ellenica, una Cananea: gli ellenici erano la classe al potere, e quindi si sentivano superiori ai Giudei in capacità, mezzi, ricchezza.
Forse per questo la sua è una richiesta autoritaria, secca: “Mia figlia è molto tormentata da un demonio”. Punto. Una richiesta che non è una richiesta; la donna non chiede nulla, non invoca una grazia; si limita semplicemente ad esporre un problema, lasciando comunque intendere la pretesa di una soluzione. Come a dire: “Tu che sei figlio di Davide, tu che sei riconosciuto da tutti come un potente guaritore, dimostralo, metti in pratica la tua pietà: mia figlia è molto malata!”. Ma Gesù non gradisce questo genere di approcci, finge di non sentirla, continua a camminare senza rivolgerle parola! Si mostra indifferente, quasi crudele: la sua missione è riservata ai figli di Israele! In pratica le fa capire: “Non mi interessa; non è un problema mio! Non mi seccare! Tu non sei ebrea e non intendo sprecare con te i miei poteri”. Un atteggiamento che, a prima vista, può sembrarci altamente negativo, sprezzante: non ce lo saremmo mai aspettato da Gesù, non corrisponde all’immagine che abbiamo di Lui, sempre buono, disponibile, accondiscendente con tutti. 
Ma il suo è un comportamento che va letto più in profondità: egli in pratica vuol farci capire che il nostro relazionarci col Padre, qualunque sia la nostra razza di appartenenza, deve essere improntato all’umiltà. Le parole della donna infatti non fanno trasparire questa predisposizione d’animo, quanto piuttosto una certa pretenziosità: l’indifferenza e il distacco di Gesù è dovuto non al fatto che lei è pagana, ma al suo porsi altezzoso: una volta esposto il suo problema, Gesù avrebbe “dovuto” intervenire immediatamente: pretendere attenzione e ossequio è un suo diritto.
Niente di più sbagliato: nessuno mai può vantare alcun diritto, alcun riguardo, nei confronti di Dio: quando gli rivolgiamo una preghiera, quando gli facciamo una richiesta, dobbiamo bandire dalla nostra mente qualunque forma di arrogante pretesa.
Le parole, riferite alla donna, che Gesù rivolge ai discepoli che lo sollecitano di intervenire, sono quindi propedeutiche a quanto verrà dopo: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”; come a dire: “il caso è chiuso!”. Alle insistenze della donna, Egli ha parole molto dure, quasi offensive: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”.
Parole però che hanno lo scopo di scuoterla interiormente. E ottengono lo scopo: la donna rientra in sé: capisce di aver completamente sbagliato il suo approccio, di trovarsi nella condizione di non poter pretendere nulla. E replica umilmente: “È vero Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Il muro di orgoglio è crollato: nelle sue parole ogni inflessione di presunzione è scomparsa; improvvisamente ha capito di essere, lei ricca e potente, molto più bisognosa di quei poveri Giudei che seguivano Gesù; nella loro miseria essi infatti potevano vantare almeno il possesso di un “altro” pane molto più nutriente, quel Gesù portatore di vera salvezza. Loro sono i veri ricchi, lei no: lei nella sua nuova indigenza si sente esclusa dal banchetto, è come un cagnolino che si accontenta di ricevere da Gesù almeno le “briciole”; capisce insomma che per poter aspirare alla Salvezza, deve porsi sullo stesso livello dei più derelitti, dei più affamati straccioni, dei più miseri. Ora non vede più soltanto se stessa, il proprio dolore, il proprio problema, il proprio disagio: ora si accorge finalmente che anche altri, forse proprio anche a causa sua, possono soffrire e star male. E questo la salva. Attenzione: salva lei, la madre, non la figlia: il vangelo non ci dice nulla della bambina, Gesù non la tocca nemmeno, neppure la vede! Ammalata è la figlia, ma quella che Gesù guarisce è la madre: “Ti sia fatto come desideri”, cioè: “Si realizzi in te ciò che nel profondo del tuo cuore tu desideri; tu conosci la verità; tu soffri perché ti manca qualcosa; e allora si avveri in te questo qualcosa che tu ora, in tutta sincerità e umiltà, speri che avvenga”.
Gesù dunque guarisce la madre, come se fosse lei la vera “malata” e non la figlia: sarebbe stata lei, infatti, che con il suo comportamento “malato” avrebbe reso invalida anche la figlia, l’avrebbe ridotta in condizioni psichiche precarie.
Il vero problema sarebbe dunque non tanto la malattia della figlia, così come da lei dichiarato inizialmente, quanto una situazione familiare parecchio compromessa. Prima di tutto notiamo la mancanza di un padre: il testo di lui non fa alcun riferimento. Ora, uno dei compiti fondamentali di un padre è proprio quello di preservare il figlio da una simbiosi con la madre ai limiti della morbosità. Nei primi anni di vita è infatti la madre ad essere giustamente il centro vitale del figlio: lei è accoglienza, casa, rifugio, rifornimento affettivo, amore. Inevitabilmente, e meno male, il figlio si attacca a lei: tra i due si instaura un legame talmente profondo da divenire talvolta patologico. Compito del padre è appunto guidare il figlio nella crescita, favorendo il processo di un suo graduale affrancamento dalla madre, per consentirgli di programmare autonomamente la sua vita, di gettare le basi della sua indipendenza.
Ma in questo caso il padre non c’è. Dov’è? Non sappiamo. Sappiamo però che l’assenza del padre è sempre problematica per il figlio, lo pone in una situazione conflittuale a volte molto grave: da una parte egli sente il richiamo della vita ad andarsene, a lasciare la casa, a seguire i suoi sogni; dall’altra un forte legame ombelicale, in essere con la madre, lo inibisce, lo condiziona pesantemente. Se ci fosse stato il padre, avrebbe provveduto a sostenere lui la madre; ma il padre non c’è. Se ci fosse stato il padre, avrebbe potuto insegnargli l’autonomia, facilitare il suo ingresso nella società, nel mondo. Ma il padre non c’è.
Una famiglia normale è formata da due elementi entrambi essenziali: da un padre e da una madre. I loro ruoli sono esclusivi, unici: il ruolo di un padre, non può essere sostituito dalla madre; e il ruolo di una madre, non può essere sostituito dal padre. La mancanza di uno non può essere compensata dall’altro. Oggi questa verità viene tranquillamente impugnata, ma con risultati puntualmente catastrofici. La mancanza di uno dei due genitori, padre o madre che sia, crea inevitabilmente uno squilibrio, checché ne dicano oggi con tanta squallida sicumera, gli accaniti promotori di sedicenti “famiglie” composte da due madri, da due patri ecc.!
Quindi, tornando al vangelo, se in quella famiglia il padre non c’è, abbiamo molto probabilmente una donna che, da sola, ha investito tutta se stessa, tutta la sua esistenza, esclusivamente sulla figlia; una donna che ha cercato di rimpiazzare un padre assente, isolando la figlia dalla realtà; abbiamo una donna che si è completamente spersonalizzata, che ha investito la sua intelligenza, i suoi progetti, la sua anima, tutta se stessa, nella figlia, fagocitando ogni sua velleità personale, riducendola ad un essere completamente amorfo.
Allora, il “demonio” che opprime la figlia, sarebbe per assurdo la stessa madre che vive maniacalmente solo nella figlia: e sappiamo per esperienza che talvolta troppo amore è nefasto e fatale quanto, e forse più, della mancanza d’amore.
Altro particolare significativo: la donna, riferendosi alla figlia, la definisce “mia”: un termine possessivo, che esprime una proprietà esclusiva. La donna sente che “sua” figlia è il prolungamento di se stessa, è la sua vita, sente che la figlia farà ciò che lei non ha mai potuto fare o vivere, e quindi proietta in lei tutte le sue frustrazioni, quei sogni che per lei non sono mai diventati realtà. Usa in qualche modo la figlia per soddisfare se stessa, per dimostrare a tutti la sua rivincita nei confronti della società. Ma questo amore non educa, non costruisce, non matura: è un amore che distrugge, che inibisce; allora la “malattia” della figlia non è nient’altro che la sua “fame” di amore autentico di cui si sente priva. Per questo la figlia protesta: ha fame d’amore! È ammalata per carenza d’amore vero: tutto qui.
Ecco allora che per risolvere la situazione, Gesù non cura lei ma la madre. E solo quando la madre guarirà, anche la figlia riacquisterà la salute: “Da quell’istante sua figlia fu guarita”.
Ciò che è consolante in tutto questo è che la donna a contatto con Gesù riconosce la sua responsabilità. Il suo comportamento, inizialmente tracotante e pretestuoso, è ora denso di umiltà, di fede profonda; sembra infatti dire: “Sì, è vero, Signore: tutti hanno bisogno di cibarsi d’amore. Nessuno mai può rimanerne senza, neppure i cani. E io forse, senza volerlo, ho trascurato troppo mia figlia”.
A volte noi genitori abbiamo bisogno di sentirci perfetti. Un figlio è la cosa più cara che abbiamo, è il nostro mito, il nostro sosia, il nostro capolavoro e tutti noi vorremmo che dicesse: “Mio padre, mia madre, sono stati perfetti, mi hanno dato tutto e non hanno mai sbagliato”.
In realtà nessun genitore, nessun educatore, nessun maestro è perfetto, perché la vita è per se stessa imperfetta. Purtroppo quando ci accorgiamo che i nostri figli soffrono per causa nostra, dentro di noi neghiamo decisamente questa verità. Cioè non accettiamo di essere imperfetti. Se siamo convinti di dare un sacco d’amore ai nostri figli, di fare per loro tutto quanto possiamo, allora dovremmo anche accettare che possiamo fare degli errori. Dovremmo accettare che a volte non li nutriamo a dovere, non incontriamo i loro veri bisogni, non li trattiamo come meritano. Dovremmo accettare che a volte pensiamo più a noi stessi che a loro. Dovremmo accettare che il nostro amore non è sempre vero amore, e che pertanto deve essere elevato, purificato. Dovremmo infine convincerci che i figli, oltre che nostri, sono soprattutto figli di Dio, della Vita.
Guardiamo allora a questa donna con grande rispetto e profonda stima: perché lei ha saputo riconoscere il proprio errore: e grazie alla sua umiltà, alla sua fede, ha ottenuto la salvezza sua e di sua figlia. Dobbiamo imparare da lei. Amen.



giovedì 10 agosto 2017

13 Agosto 2017 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

«La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,22-33).

Siamo sulla ridente collinetta che dolcemente scende fino alla riva del Lago di Tiberiade: qui Gesù ha appena compiuto un altro prodigio strepitoso, sfamando la grande ressa di persone che ogni giorno lo seguiva, moltiplicando i pochi pani e pesci a sua disposizione. La folla presente, spinta da un generale entusiasmo, si lascia andare ad un crescente e tumultuoso delirio di approvazione, di aperta ammirazione: e questo preoccupa Gesù; Egli teme per l'incolumità dei suoi, consapevole che ai Romani questo genere di assembramenti non sono graditi, temendo possibili insurrezioni. 
Gesù allora congeda in tutta fretta la folla, e ordina ai suoi di salire su di una barca e di prendere il largo, raggiungendo la riva opposta: anche perché, dopo le ultime esperienze esaltanti, egli ritiene che sia giunto per loro il momento di tornare alla realtà, devono cioè sperimentare su quella barca un’esperienza meno esaltante, decisamente contraria, traumatica. Lì infatti essi dovranno combattere contro i venti di burrasca, contro la violenza delle onde; e lo dovranno fare da soli, senza la presenza rassicurante di Gesù. Lì ognuno si troverà improvvisamente solo con se stesso, e in se stesso ognuno dovrà trovare la forza e le energie per imparare a lottare, a superare qualunque contrarietà.
Una chiara indicazione per tutti noi. Durante la nostra vita, infatti, capiterà a tutti prima o poi di trovarci nella solitudine più completa, di vivere momenti di smarrimento totale, in cui sarà necessario trovare da soli la soluzione ai nostri problemi.
È la “notte fonda” cui allude il vangelo: e in quella notte una tempesta improvvisa si abbatterà su di noi: non avremo più alcuna possibilità di evitarla, saremo costretti ad affrontarla, dovremo per forza entrarci dentro: e allora toccheremo con mano tutta la fragilità della nostra “barca”: saremo, come gli apostoli, in balia del vento impetuoso, delle onde vertiginose, e saremo sbattuti senza sosta da marosi violentissimi. È impossibile far finta di nulla: sono i nostri “mostri”; solo noi possiamo affrontarli; solo noi possiamo conoscere e dominare le nostre ansie, le nostre angosce, le nostre pulsioni. Dobbiamo imparare a gestirle, a indirizzarle correttamente. Non possiamo scappare sempre, non è possibile. Non c’è sempre l’amico di turno o lo psicologo pronti per noi, e non è neppure giusto che ci siano. Non possiamo sempre “scaricare” i nostri pesi sugli altri. Non possiamo sperare di risolvere tutto con pasticche, antidepressivi, tranquillanti. Arriverà il momento in cui dobbiamo misurarci con la dura realtà. È la nostra vita! Ci troveremo in quel particolare momento in cui tutto sembrerà perduto, in cui ci sentiremo persi, senza riferimenti; non sapremo più dove andare, dove sbattere la testa, tutto sembrerà crollarci addosso: non vedremo più alcuna luce, non avremo più alcuna speranza. Come Pietro sentiremo solo l’infuriare della tempesta, e la nostra fede, il nostro cristianesimo di facciata, improvvisamente crollerà, verrà meno, sprofonderà. Ci sentiremo impotenti, paralizzati, tutto sembrerà inutile, tutto irrecuperabile. E invece no. Oggi il vangelo ci fa capire qualcosa di incredibilmente consolante, di assolutamente straordinario: “amate le vostre tempeste”. Dobbiamo cioè accettare le nostre tempeste, le piccole e grandi avversità della nostra vita, guardandole in positivo: certo, le calamità, le tragedie, non sono mai simpatiche: sono dure, difficili da accettare, spesso dolorosissime; ma sono utili, necessarie, talvolta fondamentali. Perché lo scatenarsi di uragani e tempeste sulla nostra traversata, ci obbliga necessariamente a rivedere il nostro stile di navigazione, pena il subire un totale naufragio e colare a picco. Se davanti a noi il mare fosse sempre calmo, il vento sempre favorevole, noi continueremmo tranquilli a seguire in automatico una rotta sicuramente più piacevole, più “turistica”, più comoda: una rotta però che molto spesso invece ci condurci dritti al porto finale, ci fa inutilmente perdere la “bussola”, portandoci a girovagare senza meta per spiagge festaiole, con l’unico risultato di allontanarci da Dio, dalla sua amicizia, dal suo amore,
Ecco allora come una “tempesta”, un evento critico della nostra vita, possa talvolta costituire per noi la soluzione vincente, quella cioè di cercare rifugio tra le braccia del Padre. Ben venga allora quella tempesta!
Certo, all’inizio, difficilmente capiremo che in quella prova ci aspetta Dio: invece di riconoscerlo, lo scambieremo per “un fantasma”, un mostro, un demonio, una maledizione, una disfatta. E avremo paura. Ma in realtà è proprio Dio. È Lui che sta dietro a tutto, ad ogni cosa che ci riguarda; è Lui che ci spinge, se necessario, anche nei “luoghi deserti”, nel bel mezzo di qualche “tempesta”. E lo fa non perché ci vuole male ma proprio perché ci vuole bene. Perché vuole che cambiamo, che riprendiamo personalmente in mano il timone della nostra nave. Perché vuole che torniamo ad essere autentici, sinceri, convinti, innamorati; vuole cioè che torniamo ad essere quelli per cui ci ha creati: “sua somiglianza”.
È in questo senso dunque che il vangelo ci dice di amare le “tempeste”, anche le più dure. Inutile tergiversare, inutile rimandare continuamente: non c’è cosa peggiore di vivere con la paura costante di prendere in mano la propria vita, con il terrore di confrontarci con il proprio “io”. Non ci rendiamo conto che così facendo rinunciamo a dare una nostra impronta, un tocco personale, alla vita; la subiamo soltanto, ci abbandoniamo alla corrente, ci lasciamo fagocitare dagli eventi, siamo solo dei deficienti (nel senso di “deficere”, venir meno): siamo, in una parola, dei parassiti.
Ad un certo punto dobbiamo prendere il toro per le corna. Punto. Inutile piagnucolare: “è difficile; è impossibile; non ce la posso fare”, e continuare a “pregare” Dio di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare a nostra disposizione con i miracoli in mano. Ma Dio non è lì per risolvere i problemi al nostro posto; è lì per darci comunque la forza di risolverli da soli. Quando siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase importante quel “sono io”: il verbo greco “eimì” indica sì un presente, ma anche un passato (“Io sono colui che è sempre stato”), e insieme un futuro (“Io sono colui che sarà”). In altre parole, Lui, nostro Padre, è sempre presente: lo è sempre stato, lo è e lo sarà in futuro.
È l’esperienza di Pietro: egli (come noi) non crede che “quel fantasma” sia il Signore: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. Ed ecco il miracolo della fede: Pietro riesce a camminare sulle onde in tempesta, le domina. Se abbiamo vera fede, ciò che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza di affrontarle, perché Lui è con noi. E noi crediamo a questo. Ma la nostra deve essere una fede ferma, autentica, incrollabile, altrimenti ripetiamo l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui distoglie lo sguardo da Gesù, impaurito dai pericoli che lo circondano, la sua fede viene meno, e affonda. Nel momento in cui pone l’attenzione, più che su Gesù, sulla forza del vento e del mare, egli cola a picco. È così anche nei drammi della nostra vita: se noi guardiamo al pericolo, alla prova, affondiamo; ma se guardiamo a Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver paura. Insieme possiamo affrontare qualunque cosa, fidati di me”.
E concludo. Ogni mattina quando ci alziamo, facciamo il segno della croce. Non facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non so cosa affronterò oggi ma so che tu Dio sei con me”. E allora sentiremo vibrare nel cuore la sua risposta che ci tranquillizzerà: “Qualunque cosa ti succeda, non aver paura, io sono al tuo fianco”. Un atto che non deve avere valore scaramantico, fatto per tener lontani eventuali problemi: ma una dimostrazione di assoluta fiducia in Lui, che sola ci fa affrontare serenamente la vita. Poiché, fintanto che Lui è al nostro fianco, i nostri passi non vacilleranno.
Del resto nella vita non abbiamo molte possibilità: o ci facciamo guidare dalla paura, dall’insicurezza, dall’ansia, oppure ci lasciamo guidare dalla fiducia, dalla fede in Dio. Con la paura non andiamo da nessuna parte: affondiamo immediatamente, perché ci fa vedere nemici dappertutto, pericoli in ogni dove, ci insinua dubbi sui fratelli, ci fa vedere solo nemici. Al contrario la fede è salvezza, è camminare sicuri, è guardare avanti con cuore saldo.
Diceva un vecchio saggio: «Bussarono alla porta. La paura andò ad aprire e fu divorata. Bussarono alla porta. La fede andò ad aprire: non c’era nessuno». “Si nobiscum Deus, quis contra nos? – Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rom 8,31). Ecco, questa deve essere la nostra certezza quotidiana. Amen.



giovedì 3 agosto 2017

6 Agosto 2017 – Trasfigurazione del Signore

Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte...(Mt 17,1-9).

Il vangelo di oggi ci racconta la trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, alla presenza di tre dei suoi discepoli. In particolare dice: Gesù “fu trasfigurato davanti a loro e il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”.
Un evento eccezionale, straordinario, dunque: un evento che colpisce profondamente i presenti. Un evento che ha ammutolito i tre, sopraffatti da una visione di Gesù che mai si sarebbero aspettati di vedere. Un assaggio di paradiso, riservato ai più intimi.
Ma per noi, cristiani di oggi, cosa significa “trasfigurazione”? Potremo mai vivere noi, figli dell’era tecnologica esasperata, momenti di una così esclusiva spiritualità? Certamente. Tutti i giorni noi viviamo di trasfigurazione.
“Vivere una trasfigurazione” è infatti molto più naturale di quanto possiamo immaginare; letteralmente infatti trasfigurazione significa “vedere”, materializzate nelle persone, nelle cose, nei fenomeni che ci circondano, emozioni particolarissime, emozioni normalmente visibili soltanto attraverso gli occhi del cuore. In pratica fare una esperienza di “trasfigurazione” significa vivere concretamente, toccare con mano momenti celestiali, momenti indescrivibili di esaltazione divina, momenti speciali che noi viviamo nella nostra quotidianità, quando le stesse sensazioni, le stesse emozioni che “viviamo” soltanto nell’intimità del nostro cuore, diventano riscontrabili e verificabili nella realtà: e ci sentiamo rapiti, posseduti da una felicità incontenibile, da “settimo cielo”. In quei momenti comprendiamo veramente cosa significhi amare. Solo infatti se siamo stati veramente innamorati, se abbiamo letteralmente perso la testa e fatto cose pazze per chi amiamo, arriveremo a capire cosa significhi trasfigurazione.
Gesù in quel particolare momento, con la sua trasfigurazione, ha voluto far sperimentare ai suoi una breve anticipazione della sua divinità: l’uomo “buono”, il maestro, la guida, che fino ad allora loro conoscevano, improvvisamente si è rivelato essere una divinità soprannaturale, Figlio di un Dio che è un Padre innamorato, lui stesso un Dio ardente di passione, un Dio che infiamma d’amore chiunque ha la fortuna di avvicinarlo.
Inutile domandarci come sia stato materialmente possibile per Gesù un così evidente e sostanziale cambiamento di aspetto. Inutile scomodare la scienza, inutile farci tutte le alchimie e le supposizioni scientifiche per spiegare come ciò sia potuto accadere nella realtà. Inutile cercare di capire lo stato d’animo, i pensieri, le emozioni dei tre. Possiamo al massimo farcene un’idea pensando a certe particolari esperienze del nostro vissuto: come per esempio la tenerezza che proviamo nel contemplare il volto di un bimbo addormentato tra le braccia della madre, oppure ammirare gli occhi di una donna quando stringe al cuore il figlio appena partorito; o ancora il senso di beatitudine che ci invade nell’ammirare un tramonto sul mare, o l’immensità del cielo riflesso negli occhi della persona che amiamo; oppure l’ascolto di un coro monastico che innalza lodi a Dio, nel silenzio tombale di un’abbazia: sono istanti unici, che irrompono nel profondo della nostra anima, istanti che ci fanno capire cosa voglia dire innamorarsi, stupirsi, commuoversi; istanti unici, carichi di intime, intense sensazioni d’amore: in una parola, sono momenti di “trasfigurazione”.
Nella nostra vita noi facciamo continue esperienze di trasfigurazione: quando ci innamoriamo, quando nel buio di una situazione rivediamo la luce, quando da perduti che eravamo ritroviamo noi stessi, quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante, ha un senso e uno scopo ben preciso per il mondo e per oltre sei miliardi di fratelli.
Ma la massima esperienza di trasfigurazione, la più esclusiva e tangibile, noi la viviamo quando ci accostiamo alla Comunione: nell’Eucaristia noi assistiamo infatti alla più solenne e importante delle trasfigurazioni: una Teofania che Dio riserva esclusivamente ai singoli. Non è accompagnata né da terremoti, né da nubi, né da lampi, né da tuoni. Ma è Dio stesso che viene in noi, nel nostro cuore, e ci trasforma, ci trasfigura. È il Dio Amore che si lascia sentire, toccare, gustare, mangiare.
Insomma, come ho detto, anche noi, come Pietro, Giacomo e Giovanni, possiamo vivere le nostre esperienze di trasfigurazione: momenti di grande introspezione, momenti che ci infondono energia, fiducia, forza, coraggio di andare avanti e di affrontare le difficoltà, le cadute, le crocifissioni della vita. Sono momenti in cui, a contatto con la grazia di Dio, ci è impossibile non commuoverci, trattenere le lacrime.
E concludo: una volta pensavo che commuoversi, piangere, fosse una prerogativa dei deboli. Oggi invece so che vuol dire essere vivi, presenti, vigili; vuol dire sentire, analizzare, vedere, capire cosa significa vivere l’amicizia di Dio; vuol dire lasciarsi toccare nell’intimo dal suo amore, lasciarsi colpire da quanto di più bello Egli ci ha messo a disposizione. E di fronte a tali esperienze di vita, così intime ed esaltanti, è veramente impossibile per un’anima sensibile non commuoversi. Amen.