giovedì 24 febbraio 2022

27 Febbraio 2022 – VIII Domenica del Tempo Ordinario


Lc 6,39-45

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

  

Anche questa domenica proseguiamo la lettura del “Discorso della pianura” di Luca.

Gesù continua a puntualizzare quella che deve essere la fisionomia del cristiano, cogliendo, molto bene, purtroppo, lo sbandamento tipico della società contemporanea, che ha definitivamente cancellato i fondamentali valori morali dell’uomo.

Quella contemporanea è infatti una società alla deriva, nella quale, cosa ancor più grave, i pastori, le guide, che dovrebbero contrastare tale situazione per mandato divino, sono invece cieche e mute, non offrendo più alcuna sicurezza al gregge, esposto in questo modo al costante pericolo di finire fuori dal retto cammino.

Lo sport seguito dai cristiani di oggi, per esempio, non è tanto l’innocuo calcio, ma quello di criticare il prossimo, di screditarlo, più in privato, a mezza bocca, che apertamente, a ragione o a torto, senza alcuna discrezione e di ogni buon senso.

Siamo tutti solerti nell’individuare “la pagliuzza” nell’occhio del vicino, e non ci accorgiamo delle travi che occludono i nostri occhi, impedendoci qualunque visuale corretta e serena.

“Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello!”, esclama Gesù.

Sono parole sacrosante, estremamente vere, realistiche, che ci mettono di fronte ai nostri errori personali, al nostro puntiglioso sminuirli, a giustificarli ad ogni costo, rifiutando ostinatamente di riconoscerli e di correggerli.

Siamo molto comprensivi e benevoli con noi stessi, mentre con gli errori degli altri siamo il più delle volte spietati, li trattiamo con ingiustificata durezza e severità. Basterebbe ascoltarci quando parliamo della gente, quando spariamo giudizi sulle persone, sui vicini, sui conoscenti, sui colleghi di lavoro, sugli amici…

È vero: in ogni famiglia, in ogni comunità ci sono dei problemi: ma niente ci autorizza a sentirci superiori e intoccabili, ad esprimerci come se le parole di Gesù riguardassero esclusivamente tutti gli “altri” e non soprattutto “noi”.

Ci comportiamo troppo spesso da immaturi e insicuri: sempre attenti a proteggere la nostra immagine, a far apparire il meglio di noi, per paura che gli altri vedano la realtà, spesso interiormente squallida! Impariamo invece a guardare noi stessi e gli altri con gli occhi di Dio! Non è che dobbiamo ammutolirci di fronte a situazioni insostenibili! Anzi, dobbiamo esprimere il nostro parere, anche con la fermezza della vera carità, in particolare se le cose sono in stridente contrasto con gli insegnamenti del vangelo: anche in questo però dobbiamo prima di tutto cambiare il nostro criterio di riferimento, dobbiamo cioè guardare, giudicare persone e cose, con lo sguardo pieno di speranza e di carità del Padre che, nonostante tutto, fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi: siamo tutti peccatori, siamo tutti suoi figli: non serve a nulla voler apparire più belli e buoni di quanto siamo anche davanti al Padre. Anzi, è sempre controproducente!

Una prima verità che possiamo infatti ricavare dal vangelo di oggi è che Uno solo può giudicare: è Lui, il nostro Padre che è nei cieli. Noi non ne abbiamo alcun titolo: infatti, chi più chi meno, siamo tutti “ciechi”, e nessun cieco può farsi guida di altri ciechi. Giudicare il prossimo equivale mettersi al posto di Dio.

E allora, come comportarci con le persone che sbagliano? Pretendere di correggerle ricorrendo alla nostra superiorità, all’autorità, al potere, è pura ipocrisia: spesso infatti, piuttosto di una correzione fraterna, esercitiamo sul malcapitato di turno una buona dose di superbia, di egoismo, e perché no, di una certa ben camuffata crudeltà.

Altro discorso invece è se la nostra correzione si basa sulla carità fraterna, sulla comprensione, sulla sincerità. È una soluzione che sicuramente aiuta noi e i nostri fratelli.

Noi infatti dobbiamo “vedere” prima di tutto il lato buono degli altri, per farne tesoro, e per cercare di imitarlo; quindi il lato cattivo, che va invece analizzato e corretto, immunizzandoci da sue possibili influenze su noi stessi. In questo modo il “correggere l’altro” si trasformerà, per quanto ci riguarda, in un sincero, onesto “riesame” delle nostre abitudini e dei nostri limiti

Se pensiamo di esercitare il dovere di “aiutare i fratelli”, conferitoci dal nostro battesimo, senza rifornirci prioritariamente di carità e amore, significa fallire in partenza: sarebbe come far viaggiare un carro zeppo di fragili vasi di terracotta: ad ogni scossone, sbattendo gli uni contro gli altri, finirebbero per ridursi in mille cocci.

È questa, purtroppo, la realtà con cui dobbiamo fare i conti, quotidianamente, all’interno delle nostre comunità. Per contrastarla opportunamente dobbiamo essere cristiani imbevuti di vangelo, dobbiamo cioè lasciarci forgiare dai suoi insegnamenti di Vita: in una parola dobbiamo avere continuamente il nostro cuore sintonizzato sul cuore di Dio: perché quando attingeremo dal buon tesoro del nostro cuore, traendone fuori il bene, quando sarà veramente la carità a guidare il delicato intervento di pulitura dalle pagliuzze l’occhio del prossimo, non ci sarà più spazio per alcun giudizio di condanna, di umiliazione, di prevaricazione. Sarà invece una “festa” di intensa carità, di luminosa speranza, di gloriosa risurrezione; sarà come offrire a Dio quel “culto a lui gradito”, attraverso il quale Lui stesso, attraverso i nostri cuori, continuerà a far germogliare nel mondo, pace, misericordia, amore, solidarietà, grazia, dignità, rispetto. Amen.

  

mercoledì 16 febbraio 2022

20 febbraio 2022 - VII Domenica del Tempo Ordinario


Lc 6,27-38

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

  

Siamo ancora nel “Discorso della pianura” di Luca: è l’importante discorso programmatico di Gesù sulle “beatitudini”, collocato da Luca appunto in quel “luogo pianeggiante” scelto da Gesù per parlare alla folla, una volta disceso dal monte su cui si era ritirato a pregare.

Nel brano di oggi, che segue immediatamente quello di domenica scorsa, Gesù pronuncia delle parole che, a nostro avviso di persone normali e imperfette, vanno ben oltre le nostre possibilità; ci pone cioè delle condizioni decisamente impegnative, molto difficili da praticare: “amare, benedire, pregare, donare, perdonare, non giudicare, non condannare”, ed altri verbi simili, richiedono infatti un comportamento “superiore”, un comportamento che deve essere sostenuto da una dedizione cieca e assoluta, da un eroismo che va ben oltre la nostra mentalità tiepida ed egoistica; un comportamento, insomma, che si specchia soltanto in Dio, sorgente di amore, bontà e tenerezza.

Solo che Gesù non la pensa come noi: per lui quanto ci richiede è sempre alla portata di tutti, soprattutto è indispensabile per chi sceglie di vivere da buon cristiano, per chi decide di seguirlo, pur conducendo una vita normale.

È questo il motivo per cui tali proposte ci mettono in crisi profonda: proprio perché capiamo che sono rivolte in particolare a ciascuno di noi: e che noi, anche se ci suonano vagamente come un imperativo categorico, finiamo per leggerle e rileggerle senza viverle! Preferiamo pensare che siano dirette ad altri, più capaci, più buoni, più cristiani di noi, a persone che non hanno alcun altro interesse che dedicarsi al suo servizio. Per noi che siamo oberati da mille altri problemi, sono condizioni troppo difficili, per essere condivise e attuate, richiedono un serio cambiamento mentale, una violenza al nostro istinto, che ci condiziona a fare diametralmente il contrario rispetto all’amare i nemici, a benedire coloro che ci maledicono, a porgere l’altra guancia, a non riprenderci con gli interessi quello che ci è stato tolto...

Se però analizziamo meglio la questione, dobbiamo onestamente riconoscere che ciò che ci turba maggiormente non è tanto l’incapacità mentale di amare i nostri nemici, di usare misericordia a quanti ci fanno del male, quanto il dover riconoscere che ci comportiamo da ingrati approfittatori, da arroganti opportunisti, da autentici egoisti, perché ci rifiutiamo di trattare il nostro prossimo con lo stesso metodo amorevole e disinteressato con cui Dio ci tratta continuamente.

Ed è proprio così: a noi sembra assurdo amare i nemici, essere gentili con chi ci ha insultato, mentre Dio, con noi, non si gira mai dall’altra parte quando gli giriamo le spalle; continua a bussare alla porta del nostro cuore, ignora le nostre infedeltà, sorride bonariamente quando pretendiamo di saperne più di lui, attende pazientemente che la nostra rabbia si calmi. Non l’abbiamo mai trovato sordo alle nostre richieste; anzi, lui è stato, è, e sarà, sempre pronto e disponibile a donarci in abbondanza perdono, amore, accoglienza, aiuto, comprensione.

È dunque la storia di questa sua presenza ad oltranza, che ci sconcerta, ci confonde, ci ammutolisce! Per cui non possiamo più rimanere insensibili con Dio! Dobbiamo capire che lo stile di vita che Egli ci raccomanda non è un’assurda imposizione, ma è semplicemente la risposta logica e obbligata di quelli come noi, che già hanno beneficiato del suo amore, della sua pazienza, della sua misericordia.

In questo modo la nostra storia personale cambierà; scopriremo finalmente la nostra vera vocazione di “guariti”, di persone cioè, che hanno recuperato gratuitamente, nel perdono e nell’amore di Dio, la loro forza, la loro dignità interiore. In questo modo, guariti dalle nostre miserie, dalle nostre inimicizie, diventeremo convinti “guaritori” delle miserie e dell’inimicizia dei nostri fratelli.

C’è, è vero, chi soffoca ancora nelle paure. Paura di soffrire. Paura di pagare di persona. Paura di non essere ricompensato, capito, gratificato a dovere. Paura di andare oltre le aspettative dettate dal suo piccolo “ego”. È un passaggio piuttosto frequente; anche noi dobbiamo superare queste paure, dobbiamo imparare a scendere in profondità, a fermarci in umile ascolto della Parola di Dio, ad accogliere nel nostro cuore la forza dello Spirito: è così che ci sentiremo forti, pienamente rassicurati, capiremo di non aver più nulla da temere.

Impariamo a chiedere perdono al nostro prossimo, da subito, in casa, nel lavoro, nella vita sociale, in parrocchia; e se ci viene fatto un torto, anche grave, sappiamo che ci viene anche offerta l’occasione di confondere con la bontà coloro che non sono stati corretti con noi; con la mitezza, i violenti; con la pazienza, gli arroganti.

“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”Sì, perché è l’offesa che ci offre la possibilità di perdonare, di amare, senza alcuna ricompensa, senza ricevere nulla in cambio (“se amate solo quelli che vi amano, che merito ne avete?”); è l’offesa che ci offre l’occasione di perdonare gli altri, come Dio perdona noi. E tutto questo ci renderà migliori, ci darà una grande gioia. E finalmente capiremo cosa vuol dire immedesimarsi in Lui, diventare con Lui una cosa sola. Amen.

 

  

giovedì 10 febbraio 2022

13 febbraio 2022 - VI Domenica del Tempo Ordinario


Lc 6, 17.20-27

In quel tempo, Gesù, 17disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, Ed egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

 

Al mattino, dopo una notte passata sul monte a pregare, Gesù chiama intorno a sé i discepoli che erano con lui, e ne sceglie dodici, ai quali dà il nome di apostoli. Insieme ad essi poi discende dal monte, e viene subito circondato da una grande folla, sopraggiunta dal nord, dalle città di Tiro e Sidone, e dal sud, dalla Giudea e dalla città di Gerusalemme: una moltitudine di persone sofferenti, malate, bisognose di aiuto, affamate.

Di fronte a tanto dolore, Gesù prova una grande pietà: e alzando gli occhi al cielo, inizia a parlare, indicando il percorso preferenziale per entrare a far parte del suo Regno.

Gesù come Mosè: è a lui che Luca sicuramente pensa nel descrivere questa scena: come l’antico liberatore e legislatore di Israele, sceso dal Sinai, consegna al suo popolo la legge, i dieci comandamenti, così anche Gesù, liberatore e consolatore dell’umanità, scende da un monte e consegna alla folla di “poveri” che lo seguono, la “sua” nuova legge, la legge delle beatitudini: “Beati voi poveri…, Beati voi affamati…, Beati voi che piangete…, perché vostro è il regno di Dio”.

Quelli che circondano Gesù, sono soprattutto i “poveri”, gli “ptokòi”: gente afflitta, debole, provata, vulnerabile, senza più entusiasmi: è il popolo degli “anawim”, gli umiliati dalla vita che, nonostante tutto, sono accorsi in massa da Lui per ascoltare le sue parole di vita, convinti di poter finalmente “guarire” anche solo ascoltandolo, toccandolo.

“Beati voi poveri – makarioi ptokòi”. Gesù li capisce, riconosce la loro dignità di persone sofferenti, li conforta; e lancia un avviso singolare per tutti gli “anawim” della terra; con le sue beatitudini, egli rivaluta la loro situazione, tragica agli occhi del mondo, ma non davanti a Dio, dicendo: “Nessuno potrà mai trovare la vera felicità, la beatitudine, la pace, la serenità del cuore se non è “povero” come voi: se cioè non accetta l’amarezza del pianto, se non sopporta con umiltà e rassegnazione l’essere considerato dal mondo un “minore”, un “perdente”.

Una prospettiva, questa di Gesù, decisamente incomprensibile per la mentalità del mondo, malata di egocentrismo, di quel “superomismo”, che nulla chiede, ma tutto pretende, e con la forza e l’astuzia tutto ottiene; che non accetta le disavventure, non si inchina al destino, non si abbassa a niente e a nessuno: classica mentalità dell’“onnivincente”, lontana anni luce dallo spirito delle beatitudini.

Ma attenzione: il senso profondo delle beatitudini non è semplicemente: “Felice è colui che piange, che soffre, che è un povero derelitto”; per essere veramente felici è necessario vivere la propria vita, la propria situazione, qualunque essa sia, in comunione con Dio, offrendola a Lui, condividendola con Lui, considerandola sempre e comunque un suo dono, sia nei momenti esaltanti che in quelli di profondo dolore.

Per fare ciò, ovviamente, il nostro cuore deve essere sempre aperto, sensibile, in sintonia con lo Spirito che ci inabita; perché se questo sincronismo si interrompe, se il nostro cuore diventa di pietra, se non proviamo più emozioni, se non sappiamo piangere, se non accogliamo positivamente le nostre sofferenze, non potremo mai capire il senso autentico della vita, non potremo mai viverla nel cuore di Dio: allora diventeremo infelici, insoddisfatti, incattiviti; allora ci chiuderemo nel nostro rancore, e ci rifiuteremo caparbiamente di ascoltare la Sua voce consolante di Padre.

“Elohim”, in ebraico, è uno dei nomi di Dio: ma “Elohim” è anche quell’uomo che si “divinizza”, che diventa “divino”, che fa di tutto per tornare ad essere pienamente l’immagine di Dio; “Elohim”, è ciò che tutti noi siamo in profondità, è la nostra essenza, è la nostra anima.

Il primo uomo, Adamo, creatura di Dio, amalgama di terra e di Spirito divino, ha tradito il suo compito, il suo essere spirituale, il suo nome, la sua missione. Ha voluto essere Dio, “da subito”, immediatamente: ma questo suo peccato di ribellione lo ha proiettato in una condizione dolorosa, faticosa, lontana dall’amicizia di Dio; la vita umana si è trasformata in un cammino evolutivo, fatto di passione, di sofferenze, di lotte, di dolore; un cammino che troppo spesso “si perde” nel peccato, nella superbia, nell’egoismo, nell’alienazione mentale, nella morte.

Da tutto questo Cristo ci ha riscattato, ci ha ridato l’amicizia, l’unione, l’amore di Dio, con Dio: il nostro stato di felicità eterna, di autentica beatitudine, è però commisurato al grado di adesione alla Sua volontà, all’amore, alla carità con cui conduciamo la nostra vita su questa terra.

Solo se anteponiamo questa nostra unione col Divino, davanti a tutto e a tutti, il nostro sarà un cammino di felicità, di beatitudine, una costante condivisione già su questa terra della bontà e dell’amore del Padre.

Purtroppo noi moderni abbiamo altre aspirazioni, altre preoccupazioni, altri valori, più immediati, più concreti di questi. Non possiamo certo cadere tanto in basso per trovare la nostra beatitudine!

La nostra felicità sta altrove, nel raggiungimento di quei tantissimi traguardi, purtroppo fasulli, che ci prefiggiamo: “Quando avrò ottenuto quel riscontro finanziario, quando avrò raggiunto quella visibilità, quell’obiettivo politico, quando sarò ricco, potente, allora sicuramente sarò felice!”. Ci illudiamo cioè che la felicità consista nella ricchezza, nel benessere, nel potere: e pur di raggiungere questi status symbols, spendiamo il meglio di noi stessi, il nostro cuore, la nostra anima, ipotechiamo le cose più belle della vita, sacrifichiamo tempo, famiglia, amicizie, relazioni, intimità interiore.

Una volta raggiunto il nostro sogno, ci attende però un’amara sorpresa: la conquista fatta non ci basta più, davanti a noi si aprono immediatamente nuove prospettive: un nuovo traguardo ci affascina, ancor più attraente, più utile, più indispensabile: e la corsa riparte, nell’affanno, nella frustrazione di continui fallimenti, obbligandoci ad un vivere alienante che non approderà mai ad alcun porto sicuro e definitivo.

Siamo purtroppo schiavi del consumismo: con grande indifferenza eliminiamo non solo le cose ma anche le emozioni: e proprio per questo sentiamo la necessità pressante di nuove emozioni, sempre più forti, sempre più intense; siamo ormai completamente insensibili, corazzati, mascherati, impossibilitati a percepire la bellezza di quelle vere emozioni, quelle spirituali, sicuramente meno forti, meno violente, ma che lasciano un segno indelebile, permanente, duraturo, di beatitudine interiore.

In ogni uomo convivono stabilmente due realtà, due forze fra loro contrastanti: quella materiale e quella spirituale. Per l’uomo materiale, felicità significa esteriorità, correre, conquistare, possedere; al contrario, per quello spirituale, per l’uomo delle beatitudini, la felicità è interiorità, è ascoltare, cercare di capire, fidarsi, condividere. Per la nostra materialità, la vita è una quantità di infinite rette: è una marcia continua, stressante, per raggiungere, conquistare, impadronirsi di sempre nuovi, innumerevoli, traguardi. Per il nostro spirituale, la vita è una spirale concentrica: un costante ritorno in sé stessi per attingere lo Spirito dalla propria anima e metterlo a disposizione degli altri.

È questo il vero senso dell’ebraico “ascèr”, beatitudine: questo, il significato profondo delle beatitudini: in pratica, non devono rappresentare un nostro punto di arrivo, una conquista personale, ma una spinta a ripartire verso l’altro, verso il nostro fratello più debole; a proseguire sempre per quella via maestra indicataci da Gesù: che poi è l’unica strada, l’unico percorso, che ci porterà al traguardo finale, al godimento della piena felicità, della “beatitudine” eterna, nell’Amore del Padre. Amen.

  

giovedì 3 febbraio 2022

06 febbraio 2022 - V Domenica del Tempo Ordinario


Vangelo
Lc 5,1-11

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Genesaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.

Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.

Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

  

Luca, nel vangelo di oggi, ci racconta la chiamata dei primi quattro discepoli: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, due coppie di fratelli, tutti pescatori.

Il testo però si concentra in particolare sulla figura di Pietro.

Siamo presso il lago di Genesaret: nei vangeli, il simbolismo del “lago” viene collegato molto spesso alle particolari situazioni della vita : oltre che a fenomeni di tempesta improvvisa, di cambiamento radicale, di rovesciamento della situazione, di scombussolamento, di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), la sua superficie in genere sempre liscia, immobile, tranquilla, rende molto bene, come in questo caso, lo stile di vita dei discepoli che, prima di incontrare Gesù, conducevano appunto una vita sempre uguale, monotona, piatta, ogni giorno sempre le stesse cose, senza sussulti.

Un’esistenza insomma, per alcuni aspetti, molto simile alla nostra vita spirituale: non siamo cattivi, non siamo gente di malaffare, anzi qualche volta permettiamo a Gesù di usare anche la nostra “barca”. Siamo convinti di stare bene così come stiamo, che il nostro modo di vivere, sia quello giusto; e non ci accorgiamo quanto, al contrario, sia più esaltante, più entusiasmante, uscire in barca con Lui! Forse abbiamo anche provato, ma per la nostra indolenza, abbiamo combinato ben poco, anzi proprio nulla!

Val la pena allora di chiederci: Ma noi, che abbiamo aderito alla chiamata di Gesù, con quale impegno “gettiamo le reti”? C’è fuoco, c’è passione nel nostro operare? C’è sole nei nostri occhi, luce ed entusiasmo nel nostro cuore? C’è sufficiente “profondità” in quel che facciamo? “Maestro abbiamo provato tutta la notte e non abbiamo pescato nulla”.

Come a dire: “Ci siamo occupati di tantissime cose, abbiamo fatto tutto il possibile, abbiamo sperimentato infinite tecniche, sondato ogni metro d’acqua, ma ci ritroviamo sempre a mani vuote; quando tiriamo le reti in barca, sono sempre vuote”.

La realtà è che se continuiamo a vivere con superficialità, a “pescare” senza impegno, è molto difficile riuscire a combinare qualcosa di buono: in quel modo è addirittura impossibile!

Sulle rive del lago, gli apostoli stanno lavando le reti, afflitti anch’essi dai nostri stessi problemi: ma non appena sentono la voce di Gesù, il loro cuore improvvisamente inizia a vibrare; le sue parole risvegliano emozioni fino ad allora “morte”, emozioni che infondono nuovo vigore, che fanno rivivere; sentono che Egli indica loro nuove possibilità, che li spinge ad osare nella vita.

Ma non dipende tanto dalle parole di Gesù: egli parla a tutti, si fa sentire da tutti con lo stesso tono suadente: ha parlato ai discepoli di allora, e continua a parlare anche a noi, discepoli di oggi, a quanti nel battesimo egli chiama ad essere suoi collaboratori.

Solo che a noi, a differenza dei primi, il cuore non vibra, non ci entusiasmiamo! Rimaniamo indifferenti, continuiamo a rimandare qualunque iniziativa!

Eppure prima o poi dovremo deciderci: perché la barca è pronta, le reti anche.

Non abbiamo più giustificazioni: dobbiamo sciogliere gli ormeggi e prendere il largo.

È arrivato anche per noi il momento di rischiare, di osare, di andare. Dobbiamo avere in Lui, la stessa fiducia dimostrata dai quei discepoli, laggiù, sul lago di Galilea.

“Ma che ne sarà di noi? Che succederà? Ce la faremo? Soffriremo? E se poi ci sbagliassimo?”. Certo, se ascoltiamo la paura, se insistiamo a star sdraiati sul bagnasciuga avanzando sempre nuovi pretesti, nuove giustificazioni, non prenderemo mai il largo.

Seguire Gesù non vuol dire conoscere alla lettera tutto ciò che lui ha insegnato: è sufficiente amarlo e credere fermamente in Lui: non lo seguiamo infatti perché conosciamo perfettamente le Scritture, ma perché ci siamo innamorati di Lui, perché sappiamo che con Lui potremo sicuramente diventare suoi fedeli discepoli.

Le proposte di Gesù sono sempre mirate, di grande respiro, di larghe e profonde intese: ci permette sempre di scegliere, di trovare soluzioni ottimali, a condizione però che poi ci mettiamo seriamente in gioco.

Ogni sua chiamata, così come quella del vangelo di oggi, si articola sempre in due momenti, in due richieste semplici e chiare, ma insieme decise e autoritarie.

La prima è: “Prendi il largo”: non ha bisogno di molte spiegazioni. Vuol dire: “esci fuori dalla tua normalità, allontanati dal tuo modello di vita, dal tuo modo di pensare, di agire, lascia tutto ed entra nella Vita vera!”. “Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”. “E se non riesco, se non funziona?”. “È possibile”. Domande e dubbi più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, dobbiamo avere il coraggio di decidere.

Quando il padrone della Vita bussa al nostro cuore, dobbiamo dargli una risposta: nessun altro può sostituirci, nessuno può farlo al posto nostro.

Molti sono quelli che dicono: “Sarebbe bello, ma non ci riesco, è troppo difficile, va troppo oltre le mie possibilità, non fa per me”. Quando invece sarebbe più onesto ammettere: “Ho paura; non mi va; mi basta poco; non sono un eroe, io!”.

Ma di che stiamo parlando? Che cosa ci basta? Di che cosa ci accontentiamo? Di sprecare il nostro tempo senza far nulla? Di vivacchiare con le solite compagnie, col solito gruppetto di amici che ormai non ci offrono più nulla? “Prendi il largo!”. Ci accontentiamo di frequentare sempre i soliti ambienti, i soliti ritrovi, di ascoltare l’esaltato di turno che straparla di politica, di donne, di sport, di soldi, di lavoro? “Prendi il largo!”. Non ci capita mai di provare disgusto per le nostre giornate senza senso, di sentire alla sera un profondo desiderio di verità, di assoluto, di scoprire e di conoscere il vero motivo del nostro esistere? “Prendi il largo!”. Non succede mai di sentirci arrabbiati, insofferenti, stanchi di risposte preconfezionate, utilitaristiche, di comodo? “Prendi il largo!” ci ordina sempre la voce suadente e insistente di Dio.

La seconda richiesta è: “Getta le reti!”. Cioè: “Vai dentro; arriva fino in fondo; entra dentro il mistero di Dio, il mistero dell’Amore, della Vita”. Non possiamo entrare in contatto con Dio stando in superficie, all’esterno, fuori dall’acqua; dobbiamo vivere immersi completamente nel nostro battesimo. Se ci chiedono: ti senti figlio di Dio? “Certo che sì!”, rispondiamo prontamente. Ma che importanza, che valore diamo a questo “si”? Le sole parole non risolvono il nostro problema: una semplice risposta, come un “sì”, non basta a cambiare la vita.

“Getta le reti!”. Siamo consapevoli di avere nella nostra vita una missione da compiere? Certo! Ma qual è la missione specifica che Dio ci ha assegnato? Dobbiamo scoprirlo! Come? Facendo una cosa sola: “Gettare le reti fidandoci di Lui”. Non c’è altra possibilità.

Quando Pietro si rende conto di come può vivere con Gesù (la rete che tira su al suo comando è piena, stracolma di pesci!), è preso dallo sgomento, ha paura: “Allontanati da me, sono un peccatore”. Ma cosa vuol dire Pietro con queste parole? Perché allontanare Gesù? Prima di tutto perché non si sente degno: viene assalito dalla sua inadeguatezza, non si sente all’altezza, ha paura per un così imprevisto e imprevedibile risultato. Poi capisce, e sente il rimorso per aver sprecato tanta parte della sua vita. Una reazione che può succedere anche a noi: perché quando a sessanta, settanta, ottant’anni, o quel che è, ci svegliamo dal nostro letargo, e improvvisamente capiamo quanto sia inebriante e meraviglioso vivere con Dio, una delle sensazioni più amare che possiamo provare è quella di renderci conto di aver sprecato una vita! “Dio, quanto sono stato stolto! Chiamavo vivere quello che in realtà era solo vegetare”. Allora ci assale la netta consapevolezza di aver vissuto un grande “bluff”, un tremendo fallimento, un continuo peccato di omissione: “peccato”, infatti, in ebraico significa “mancare il bersaglio”: ecco: nella nostra vita non abbiamo mai fatto centro, lo stile che abbiamo scelto non era quello vero, autentico. Il nostro peccato è stato quello di uscire in mare tutte le notti senza credere in ciò che facevamo: e non abbiamo mai preso nulla. Abbiamo sprecato il nostro tempo.

“Signore, le tue, sono “parole di vita eterna”: ora l’abbiamo finalmente capito, perché abbiamo creduto. Per questo vogliamo seguirti; per questo vogliamo lasciare tutto, metterci a rischio; per questo vogliamo osare, vogliamo vivere per Te e con Te: e sulla tua Parola, getteremo rinfrancati le nostre reti. Amen.