La vita? La vita cristiana? Il nostro pezzo di strada con Gesù condividendone le scelte è lo scopo stesso dell'esistenza. La sua come la nostra va verso un compimento che va perseguito decisamente: la vita è dono ricevuto e come dono dev'essere investito 'verso Gerusalemme': il luogo di Dio giudizio e premio, risurrezione e Regno definitivo. In questo percorso anche noi come Lui abbiamo insuccessi, non accoglienza, tentazione di chiedere castigo per chi non ci ama, ma il rimprovero di Gesù ci mette al riparo: la vita è troppo breve per sprecarla avvelenandoci dentro e allungando catene di odio, rancore, vendetta.
La vita riserva momenti di precarietà, solitudine, mancanza di sicurezza e stabilità. Cosi Gesù dice di sé, non ha dove posare il capo e, cosi per noi. Siamo in viaggio, non abbiamo qui stabile dimora. Quello che conta è la totalità della sequela. Non perdere di vista nel bene e nel male, negli affetti e nei lutti: Lui il solo che rimane, la meta del viaggio. "Lascia che i morti seppelliscano i morti". Noi dobbiamo annunciare con la vita di fede che il Regno, la Signoria di Dio è più forte della stessa morte. E poi la fedeltà. Troppi oggi, di fatto, praticamente abbandonano la vita di fede, relegandola nei momenti critici come compensazione. La fede è mettere mano all'aratro per creare il solco, la traccia della nostra esistenza dove la vita sepolta come il chicco di frumento seminato diventerà spiga di vita eterna. Non ci si deve voltare indietro in nostalgie o recriminazioni. Il Cristiano attraversa la fatica. Va avanti. Nell'Antico Testamento Eliseo, che sta per mettersi al seguito di Dio, ci dà un esempio eloquente e riassuntivo: trasformare l'intera esistenza, il lavoro della vita in un'offerta a Dio, in sacrificio ed Eucarestia. San Paolo, ai Galati, dà ai primi cristiani alcune coordinate esistenziali anche oggi irrinunciabili: "Siete stati chiamati a libertà". Bisogna restare liberi. Liberi per fare della vita un atto di amore; c'è un solo precetto: "amerai".
In definitiva, la vita cristiana è lasciarsi guidare dallo spirito. Ci sono preoccupazioni ma non bisogna soccombere. Ci sono incombenze e anche importanti ma non bisogna rimanerne schiacciati. Ci sono momenti tristi e lieti ma non sono ancora il tutto della vita. Ci sono tentazioni o sentieri alternativi che sembrano più facili e comodi ma non portano alla pace interiore e al bene da costruire e lasciare in eredità. Ci sono anche debolezze e tradimenti ma ci si può rialzare e raggiungere Cristo. È Lui stesso la strada, il suo Vangelo il percorso, la sua presenza e l'essere con Lui fa salvezza dell'essere stati chiamati alla vita, alla vita cristiana.
martedì 22 giugno 2010
mercoledì 16 giugno 2010
20 Giugno 2010 - XII Domenica del Tempo Ordinario
C'è un'interpellanza di Gesù che ritorna spesso, che certamente ci scuote e ci turba, ma che ci fa bene: "Voi chi dite che io sia?" "Per te chi sono io? Che importanza e che ruolo ho per te? Vivi bene anche senza di me oppure no? Chi sono per te? In che misura tu vivi per me?..."
Sono dure queste domande, ma sono vere. Come quando, dopo la risurrezione, Gesù chiederà ripetutamente a Pietro: "Mi ami tu?"
Nel testo di oggi Gesù sente il momento molto importante, perché "se ne stava pregando da solo ed erano con lui i discepoli", poi pone due domande: vuole sapere dai discepoli che cosa la gente pensi di lui, ma soprattutto che cosa essi, pensano di lui.
È la seconda domanda che conta. La prima serve perché incomincino a parlare e perché avvertano la differenza della loro posizione. Essi sanno che per Gesù non sono come tutti gli altri: essi sono stati scelti, ad essi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, essi hanno visto i miracoli, hanno ascoltato le sue parole profonde.
Pietro, a nome di tutti, risponde: "Tu sei il Cristo di Dio", il Messia, l'Unto di Dio.
Gesù ordina di non dirlo a nessuno perché "il Figlio dell'uomo deve patire molto,... essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno". E' il primo annuncio della passione, un annuncio strettamente legato alla confessione di Pietro. Gesù vuol far capire che non sarà un messia, come loro se lo immaginano o si aspettano (potente, glorioso), ma un messia sofferente. Questo non se lo aspettavano, non lo comprendono, anzi reagiscono.
Ma Gesù sa che dovrà affrontare la sofferenza, il rifiuto, la morte e lo fa nella speranza, perché sa che la via di Dio non finisce nella morte, ma sempre nella vita; il Cristo risorgerà il terzo giorno e porterà a compimento la sua opera di salvezza. Ma i discepoli non potevano capire ancora, per questo li invita a non dire nulla a nessuno: andrebbero a spiegare una cosa che non hanno per niente chiara.
Ma Gesù li vuole aiutare e li invita a sperimentare ciò che annuncia. Quando uno vive certe cose o in un certo modo, capisce più facilmente e soprattutto intuisce una verità che è il progetto di Dio, ma che è insita anche nell'esistenza umana.
Quand'è che uno realizza la sua vita, la costruisce in maniera vera, appagante, e per sempre? La mentalità mondana offre le sue prospettive e le sue logiche individualistiche ed egoistiche, la verità di Dio apre all'amore, al "perdere" la vita, per salvarla veramente e per sempre.
Dice Gesù a tutti: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua".
Rinnegare se stessi, fare della propria vita un dono, perderla per realizzare il cammino della salvezza. I miei istinti, i miei desideri, il mio corpo, la mia impostazione... sono i miei padroni o li so dominare? E non per un mio perfezionismo, ma perché il prossimo si senta amato e aiutato.
Prendere la propria croce: ciascuno è chiamato ad assumere i propri doveri, le sofferenze, le fatiche, fino alla disponibilità a perdere la propria vita, fino al martirio.
La prova di queste affermazioni del vangelo è stata la vita e la missione di Gesù; è stata ed è la vita di tanti santi e di tanti martiri.
Se io sono disposto a morire per Cristo, allora Cristo è la vera vita, è il tutto. Ma questa è una grazia che dà il Signore al momento giusto. Però fa capire la portata della domanda iniziale: Per te chi sono io?
Nella misura in cui cerco di essere fedele al Signore, di non vergognarmi di Lui, di parlare di Lui, di proporlo ad altri; nella misura in cui vivo, gioisco e soffro per lui e con lui; nella misura in cui offro la mia vita come dono ai fratelli, nel tanto bene che posso compiere... riesco a rispondere non con le parole ma in verità: Tu sei per me il Cristo, il Salvatore, il Signore, il tutto della mia vita sulla terra e per l'eternità!
Sono dure queste domande, ma sono vere. Come quando, dopo la risurrezione, Gesù chiederà ripetutamente a Pietro: "Mi ami tu?"
Nel testo di oggi Gesù sente il momento molto importante, perché "se ne stava pregando da solo ed erano con lui i discepoli", poi pone due domande: vuole sapere dai discepoli che cosa la gente pensi di lui, ma soprattutto che cosa essi, pensano di lui.
È la seconda domanda che conta. La prima serve perché incomincino a parlare e perché avvertano la differenza della loro posizione. Essi sanno che per Gesù non sono come tutti gli altri: essi sono stati scelti, ad essi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, essi hanno visto i miracoli, hanno ascoltato le sue parole profonde.
Pietro, a nome di tutti, risponde: "Tu sei il Cristo di Dio", il Messia, l'Unto di Dio.
Gesù ordina di non dirlo a nessuno perché "il Figlio dell'uomo deve patire molto,... essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno". E' il primo annuncio della passione, un annuncio strettamente legato alla confessione di Pietro. Gesù vuol far capire che non sarà un messia, come loro se lo immaginano o si aspettano (potente, glorioso), ma un messia sofferente. Questo non se lo aspettavano, non lo comprendono, anzi reagiscono.
Ma Gesù sa che dovrà affrontare la sofferenza, il rifiuto, la morte e lo fa nella speranza, perché sa che la via di Dio non finisce nella morte, ma sempre nella vita; il Cristo risorgerà il terzo giorno e porterà a compimento la sua opera di salvezza. Ma i discepoli non potevano capire ancora, per questo li invita a non dire nulla a nessuno: andrebbero a spiegare una cosa che non hanno per niente chiara.
Ma Gesù li vuole aiutare e li invita a sperimentare ciò che annuncia. Quando uno vive certe cose o in un certo modo, capisce più facilmente e soprattutto intuisce una verità che è il progetto di Dio, ma che è insita anche nell'esistenza umana.
Quand'è che uno realizza la sua vita, la costruisce in maniera vera, appagante, e per sempre? La mentalità mondana offre le sue prospettive e le sue logiche individualistiche ed egoistiche, la verità di Dio apre all'amore, al "perdere" la vita, per salvarla veramente e per sempre.
Dice Gesù a tutti: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua".
Rinnegare se stessi, fare della propria vita un dono, perderla per realizzare il cammino della salvezza. I miei istinti, i miei desideri, il mio corpo, la mia impostazione... sono i miei padroni o li so dominare? E non per un mio perfezionismo, ma perché il prossimo si senta amato e aiutato.
Prendere la propria croce: ciascuno è chiamato ad assumere i propri doveri, le sofferenze, le fatiche, fino alla disponibilità a perdere la propria vita, fino al martirio.
La prova di queste affermazioni del vangelo è stata la vita e la missione di Gesù; è stata ed è la vita di tanti santi e di tanti martiri.
Se io sono disposto a morire per Cristo, allora Cristo è la vera vita, è il tutto. Ma questa è una grazia che dà il Signore al momento giusto. Però fa capire la portata della domanda iniziale: Per te chi sono io?
Nella misura in cui cerco di essere fedele al Signore, di non vergognarmi di Lui, di parlare di Lui, di proporlo ad altri; nella misura in cui vivo, gioisco e soffro per lui e con lui; nella misura in cui offro la mia vita come dono ai fratelli, nel tanto bene che posso compiere... riesco a rispondere non con le parole ma in verità: Tu sei per me il Cristo, il Salvatore, il Signore, il tutto della mia vita sulla terra e per l'eternità!
giovedì 10 giugno 2010
13 Giugno 2010 - XI Domenica del Tempo Ordinario
Eppure per Gesù non deve essere stato per niente facile operare questo tipo di scelta, offrire il suo amore per gli ultimi: il suo è stato un gesto di rottura nei confronti dell'istituzione (civile e religiosa) che poneva la donna in una condizione di sconfortante, mortificante e degradante subalternità rispetto all'uomo. Ma oggi, a duemila anni di distanza, e nonostante le varie e benefiche rivoluzioni femministe, non è poi così diverso, se noi, come Davide (cfr. 2Sam 12), le donne preferiamo averle per noi, piuttosto che con noi; se ancora usiamo il termine "uomo" per indicare l'essere umano, uomo e donna…
E questo non accade solo nei rapporti interpersonali, in ufficio, nella scuola, nella politica, nella Chiesa, ma accade anche nella famiglia che dovrebbe essere invece il luogo della ricomposizione delle differenze.
Confessiamolo: siamo tutti un po' come il fariseo Simone. Conosciamo i doveri dell'ospitalità. E neppure a noi dispiacerebbe avere Gesù a tavola. Un uomo interessante, vale pena conoscerlo… Forse un po' fuori delle righe, però adesso esagera… Che ci fa quella donna ai suoi piedi? Come ha fatto ad entrare in casa mia? Una prostituta, poi. Ma siamo sicuri che lui, il "Maestro", davvero sia un "profeta"? Se lo fosse, non si lascerebbe profumare da quella donna lì… Proprio a me doveva capitare… Pensa che scandalo con la mia Chiesa… Accogliere in casa mia una "peccatrice" che fa mille moine a quello che si fa' chiamare il Maestro…
Simone, ho da dirti qualcosa… Devo dirti che io sono venuto a portare una bella notizia: il superamento di ogni divisione e di ogni discriminazione. Sono venuto a portare la salvezza che non deriva dall'adesione formale alla Legge, ma dal superamento della Legge fatta di tanti codici in un unico codice, quello dell'amore. Un amore gratuito verso tutti, quelli che sanno di essere peccatori (o peccatrici) e quelli che invece ritengono di essere senza peccato perché osservanti e devoti. Non ti dico, Simone, di non essere più osservante né devoto: ma ti dico di accogliere l'amore di Dio che si rivela negli esclusi, negli emarginati, nei portatori di un “marchio”, che voi - i devoti e gli osservanti, i "religiosi" - avete attribuito loro. E sai una cosa, Simone? Io questo amore non mi limito a predicarlo, io lo vivo. E lo vivo qui e ora, in questa circostanza concreta, non con la donna, ma con questa donna che ho avuto la ventura di incontrare. Tu in me hai accolto un simbolo, e venendo a casa tua mi rendo conto che ho attizzato l'ipertrofia del tuo "io". Lei, la donna, la "peccatrice" come tu la chiami, ha accolto me, come persona. C'è una bella differenza, non trovi? Oh, sì… càpitano gli imprevisti… eccome! È successo al sacerdote e al levita che si imbattono nell'uomo ferito sul ciglio della strada… Come poi diranno più avanti nel tempo i teologi, all'ortodossia io preferisco l'ortoprassi. Al giudizio previo, io preferisco il perdono. Preferisco la misericordia, quella che magari anche tu saresti disposto a predicare, salvo poi a trovarti scoperto di fronte alle prove traumatizzanti della realtà e della storia.
Questo discorso Paolo lo ha capito bene, e vigorosamente, com'è nel suo stile, lo annuncia: «Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno». (Gal 2,15-16).
Ma oggi, nella Chiesa, questo discorso continua sì a risuonare, ma è praticamente inascoltato.
Oggi siamo troppo occupati a parlare di identità. Di identità cristiana. E discriminiamo.
La ricerca dell'identità può solo dividere e discriminare.
Crea i confini. I buoni e i cattivi, i puri e i peccatori. I bianchi e i neri. I ricchi e i poveri. Gli uomini e le donne.
Più cresce la tensione verso l'identità, la purezza … più viene abbandonata l'esigenza della comunità.
Anche a noi Gesù chiede un moto di conversione.
Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!».
E questo non accade solo nei rapporti interpersonali, in ufficio, nella scuola, nella politica, nella Chiesa, ma accade anche nella famiglia che dovrebbe essere invece il luogo della ricomposizione delle differenze.
Confessiamolo: siamo tutti un po' come il fariseo Simone. Conosciamo i doveri dell'ospitalità. E neppure a noi dispiacerebbe avere Gesù a tavola. Un uomo interessante, vale pena conoscerlo… Forse un po' fuori delle righe, però adesso esagera… Che ci fa quella donna ai suoi piedi? Come ha fatto ad entrare in casa mia? Una prostituta, poi. Ma siamo sicuri che lui, il "Maestro", davvero sia un "profeta"? Se lo fosse, non si lascerebbe profumare da quella donna lì… Proprio a me doveva capitare… Pensa che scandalo con la mia Chiesa… Accogliere in casa mia una "peccatrice" che fa mille moine a quello che si fa' chiamare il Maestro…
Simone, ho da dirti qualcosa… Devo dirti che io sono venuto a portare una bella notizia: il superamento di ogni divisione e di ogni discriminazione. Sono venuto a portare la salvezza che non deriva dall'adesione formale alla Legge, ma dal superamento della Legge fatta di tanti codici in un unico codice, quello dell'amore. Un amore gratuito verso tutti, quelli che sanno di essere peccatori (o peccatrici) e quelli che invece ritengono di essere senza peccato perché osservanti e devoti. Non ti dico, Simone, di non essere più osservante né devoto: ma ti dico di accogliere l'amore di Dio che si rivela negli esclusi, negli emarginati, nei portatori di un “marchio”, che voi - i devoti e gli osservanti, i "religiosi" - avete attribuito loro. E sai una cosa, Simone? Io questo amore non mi limito a predicarlo, io lo vivo. E lo vivo qui e ora, in questa circostanza concreta, non con la donna, ma con questa donna che ho avuto la ventura di incontrare. Tu in me hai accolto un simbolo, e venendo a casa tua mi rendo conto che ho attizzato l'ipertrofia del tuo "io". Lei, la donna, la "peccatrice" come tu la chiami, ha accolto me, come persona. C'è una bella differenza, non trovi? Oh, sì… càpitano gli imprevisti… eccome! È successo al sacerdote e al levita che si imbattono nell'uomo ferito sul ciglio della strada… Come poi diranno più avanti nel tempo i teologi, all'ortodossia io preferisco l'ortoprassi. Al giudizio previo, io preferisco il perdono. Preferisco la misericordia, quella che magari anche tu saresti disposto a predicare, salvo poi a trovarti scoperto di fronte alle prove traumatizzanti della realtà e della storia.
Questo discorso Paolo lo ha capito bene, e vigorosamente, com'è nel suo stile, lo annuncia: «Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno». (Gal 2,15-16).
Ma oggi, nella Chiesa, questo discorso continua sì a risuonare, ma è praticamente inascoltato.
Oggi siamo troppo occupati a parlare di identità. Di identità cristiana. E discriminiamo.
La ricerca dell'identità può solo dividere e discriminare.
Crea i confini. I buoni e i cattivi, i puri e i peccatori. I bianchi e i neri. I ricchi e i poveri. Gli uomini e le donne.
Più cresce la tensione verso l'identità, la purezza … più viene abbandonata l'esigenza della comunità.
Anche a noi Gesù chiede un moto di conversione.
Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!».
venerdì 4 giugno 2010
6 giugno 2010 - SS. Corpo e Sangue di Cristo
Sacramento della carità, la Santissima Eucaristia è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l'amore infinito di Dio per ogni uomo. In questo mirabile Sacramento si manifesta l'amore «più grande», quello che spinge a «dare la vita per i propri amici». Gesù, infatti, "li amò fino alla fine". Con questa espressione, l'Evangelista introduce il gesto di infinita umiltà da Lui compiuto: prima di morire sulla croce per noi, messosi un asciugatoio attorno ai fianchi, Egli lava i piedi ai suoi discepoli. Allo stesso modo, Gesù nel Sacramento eucaristico continua ad amarci «fino alla fine», fino al dono del suo corpo e del suo sangue. Quale stupore deve aver preso il cuore degli Apostoli di fronte ai gesti e alle parole del Signore durante quella Cena! Quale meraviglia deve suscitare anche nel nostro cuore il Mistero eucaristico!
Nel Sacramento dell'altare, il Signore viene incontro all'uomo, facendosi suo compagno di viaggio. Infatti, il Signore si fa cibo per l'uomo affamato di verità e di libertà. Poiché solo la verità può renderci liberi davvero, Cristo si fa per noi cibo di Verità.
«Mistero della fede!». Con questa espressione pronunciata immediatamente dopo le parole della consacrazione, il sacerdote proclama il mistero celebrato e manifesta il suo stupore di fronte alla conversione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore Gesù, una realtà che supera ogni comprensione umana. In effetti, l'Eucaristia è per eccellenza «mistero della fede»: "è il compendio e la somma della nostra fede". La fede della Chiesa è essenzialmente fede eucaristica e si alimenta in modo particolare alla mensa dell'Eucaristia. La fede e i Sacramenti sono due aspetti complementari della vita ecclesiale. Suscitata dall'annuncio della Parola di Dio, la fede è nutrita e cresce nell'incontro di grazia col Signore risorto che si realizza nei Sacramenti: «La fede si esprime nel rito e il rito rafforza e fortifica la fede». Per questo, il Sacramento dell'altare sta sempre al centro della vita ecclesiale; «grazie all'Eucaristia la Chiesa rinasce sempre di nuovo!». Quanto più viva è la fede eucaristica nel Popolo di Dio, tanto più profonda è la sua partecipazione alla vita ecclesiale mediante la convinta adesione alla missione che Cristo ha affidato ai suoi discepoli. Di ciò è testimone la stessa storia della Chiesa. Ogni grande riforma è legata, in qualche modo, alla riscoperta della fede nella presenza eucaristica del Signore in mezzo al suo popolo.
Il pane disceso dal cielo. La prima realtà della fede eucaristica è il mistero stesso di Dio, amore trinitario. Nel dialogo di Gesù con Nicodemo, troviamo un'espressione illuminante a questo proposito: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui». Queste parole mostrano la radice ultima del dono di Dio. Gesù nell'Eucaristia dà non «qualche cosa» ma se stesso; egli offre il suo corpo e versa il suo sangue. In tal modo dona la totalità della propria esistenza, rivelando la fonte originaria di questo amore. Egli è l'eterno Figlio dato per noi dal Padre. Nel Vangelo ascoltiamo ancora Gesù che, dopo aver sfamato la moltitudine con la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ai suoi interlocutori che lo avevano seguito fino alla sinagoga di Cafarnao, dice: «Il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo», ed arriva ad identificare se stesso, la propria carne e il proprio sangue, con quel pane: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Gesù si manifesta così come il pane della vita, che l'eterno Padre dona agli uomini. Anche il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, riportato da tutti e quattro gli evangelisti, vuole rendere presente, attuale, manifesta, la potenza divina, richiamando la folla, che seguiva Gesù con la curiosità di chi cerca il nuovo, l'inusuale, al vero senso della vita, che poi è corrispondere all'amore e alla chiamata di Dio. Nella narrazione di questa azione portentosa di Gesù, però, viene usato un linguaggio liturgico, tipico della celebrazione dell'Eucaristia. Si può pensare, allora, che sin dalla catechesi primitiva i catechisti tenessero il miracolo in relazione all'Eucaristia, poiché Gesù, probabilmente, intendeva compiere un segno per rimandare, per anticipare la comprensione dell'Eucaristia che avrebbe istituito.
Il significato più evidente del miracolo è che Gesù, Parola che si fa carne, nutre gli uomini, sazia la loro fame, colma la loro indigenza, è refrigerio per la loro sete. I cinque pani d'orzo rimandano, con tutta probabilità, alla consuetudine di preparare l'Eucaristia proprio con pani d'orzo, che era il pane dei poveri, della gente più povera. Ebbene Gesù "prese quei pani, li
benedisse, li spezzò". È un richiamo evidente all'Ultima Cena, quando l'Eucaristia viene istituita. Distribuiti i pani e i pesci, dopo che i presenti si furono saziati vennero raccolte dodici ceste di parti avanzate Gesù Cristo che si distribuisce, che si fa a pezzi per fare unità, dimostra una passione per l'unità della Chiesa che è eminentemente eucaristica.
Perciò quando si celebra l'Eucaristia, quando si adora il mistero eucaristico, bisogna bruciare nel desiderio dell'unità e bisogna fare quello che Gesù ha fatto: "Fate questo in memoria di me"; cioè dare la carne e dare il sangue perché sia fatta unità. Ma più facilmente, per fare unità saremo in grado di dare una piccola mortificazione d'orgoglio, oppure un silenzio, oppure di contenere uno scatto di nervosismo che ognuno di noi può avere quando la sua suscettibilità è stata ferita. Si potranno evitare calunnie e pregiudizi, insofferenze e divisioni; si potrà perdonare con il cuore, guardarsi negli occhi con simpatia, sentirsi vicini, fratelli nella costruzione del Regno.
L'Eucaristia, dunque, è un miracolo, in quanto segno della presenza di Dio, per mezzo di Cristo, nel suo popolo, tra la sua gente. L'Eucaristia è un segno efficace, che cioè produce ciò che significa. In essa la presenza di Cristo non è soltanto ricordata, ma è reale. Gesù è presente, in quel pane e in quel vino che rendono i fedeli membra vive del suo Corpo. È proprio vero: "Se la gente conoscesse il valore dell'Eucaristia, l'accesso alle chiese dovrebbe essere regolato dalla forza pubblica" (Santa Teresa di Lisieux).
Nel Sacramento dell'altare, il Signore viene incontro all'uomo, facendosi suo compagno di viaggio. Infatti, il Signore si fa cibo per l'uomo affamato di verità e di libertà. Poiché solo la verità può renderci liberi davvero, Cristo si fa per noi cibo di Verità.
«Mistero della fede!». Con questa espressione pronunciata immediatamente dopo le parole della consacrazione, il sacerdote proclama il mistero celebrato e manifesta il suo stupore di fronte alla conversione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore Gesù, una realtà che supera ogni comprensione umana. In effetti, l'Eucaristia è per eccellenza «mistero della fede»: "è il compendio e la somma della nostra fede". La fede della Chiesa è essenzialmente fede eucaristica e si alimenta in modo particolare alla mensa dell'Eucaristia. La fede e i Sacramenti sono due aspetti complementari della vita ecclesiale. Suscitata dall'annuncio della Parola di Dio, la fede è nutrita e cresce nell'incontro di grazia col Signore risorto che si realizza nei Sacramenti: «La fede si esprime nel rito e il rito rafforza e fortifica la fede». Per questo, il Sacramento dell'altare sta sempre al centro della vita ecclesiale; «grazie all'Eucaristia la Chiesa rinasce sempre di nuovo!». Quanto più viva è la fede eucaristica nel Popolo di Dio, tanto più profonda è la sua partecipazione alla vita ecclesiale mediante la convinta adesione alla missione che Cristo ha affidato ai suoi discepoli. Di ciò è testimone la stessa storia della Chiesa. Ogni grande riforma è legata, in qualche modo, alla riscoperta della fede nella presenza eucaristica del Signore in mezzo al suo popolo.
Il pane disceso dal cielo. La prima realtà della fede eucaristica è il mistero stesso di Dio, amore trinitario. Nel dialogo di Gesù con Nicodemo, troviamo un'espressione illuminante a questo proposito: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui». Queste parole mostrano la radice ultima del dono di Dio. Gesù nell'Eucaristia dà non «qualche cosa» ma se stesso; egli offre il suo corpo e versa il suo sangue. In tal modo dona la totalità della propria esistenza, rivelando la fonte originaria di questo amore. Egli è l'eterno Figlio dato per noi dal Padre. Nel Vangelo ascoltiamo ancora Gesù che, dopo aver sfamato la moltitudine con la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ai suoi interlocutori che lo avevano seguito fino alla sinagoga di Cafarnao, dice: «Il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo», ed arriva ad identificare se stesso, la propria carne e il proprio sangue, con quel pane: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Gesù si manifesta così come il pane della vita, che l'eterno Padre dona agli uomini. Anche il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, riportato da tutti e quattro gli evangelisti, vuole rendere presente, attuale, manifesta, la potenza divina, richiamando la folla, che seguiva Gesù con la curiosità di chi cerca il nuovo, l'inusuale, al vero senso della vita, che poi è corrispondere all'amore e alla chiamata di Dio. Nella narrazione di questa azione portentosa di Gesù, però, viene usato un linguaggio liturgico, tipico della celebrazione dell'Eucaristia. Si può pensare, allora, che sin dalla catechesi primitiva i catechisti tenessero il miracolo in relazione all'Eucaristia, poiché Gesù, probabilmente, intendeva compiere un segno per rimandare, per anticipare la comprensione dell'Eucaristia che avrebbe istituito.
Il significato più evidente del miracolo è che Gesù, Parola che si fa carne, nutre gli uomini, sazia la loro fame, colma la loro indigenza, è refrigerio per la loro sete. I cinque pani d'orzo rimandano, con tutta probabilità, alla consuetudine di preparare l'Eucaristia proprio con pani d'orzo, che era il pane dei poveri, della gente più povera. Ebbene Gesù "prese quei pani, li
benedisse, li spezzò". È un richiamo evidente all'Ultima Cena, quando l'Eucaristia viene istituita. Distribuiti i pani e i pesci, dopo che i presenti si furono saziati vennero raccolte dodici ceste di parti avanzate Gesù Cristo che si distribuisce, che si fa a pezzi per fare unità, dimostra una passione per l'unità della Chiesa che è eminentemente eucaristica.
Perciò quando si celebra l'Eucaristia, quando si adora il mistero eucaristico, bisogna bruciare nel desiderio dell'unità e bisogna fare quello che Gesù ha fatto: "Fate questo in memoria di me"; cioè dare la carne e dare il sangue perché sia fatta unità. Ma più facilmente, per fare unità saremo in grado di dare una piccola mortificazione d'orgoglio, oppure un silenzio, oppure di contenere uno scatto di nervosismo che ognuno di noi può avere quando la sua suscettibilità è stata ferita. Si potranno evitare calunnie e pregiudizi, insofferenze e divisioni; si potrà perdonare con il cuore, guardarsi negli occhi con simpatia, sentirsi vicini, fratelli nella costruzione del Regno.
L'Eucaristia, dunque, è un miracolo, in quanto segno della presenza di Dio, per mezzo di Cristo, nel suo popolo, tra la sua gente. L'Eucaristia è un segno efficace, che cioè produce ciò che significa. In essa la presenza di Cristo non è soltanto ricordata, ma è reale. Gesù è presente, in quel pane e in quel vino che rendono i fedeli membra vive del suo Corpo. È proprio vero: "Se la gente conoscesse il valore dell'Eucaristia, l'accesso alle chiese dovrebbe essere regolato dalla forza pubblica" (Santa Teresa di Lisieux).
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