mercoledì 28 giugno 2023

02 Luglio 2023 – XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
10,37-42 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

Il testo del Vangelo di oggi chiude il “discorso missionario” del capitolo 10 di Matteo. 
Un testo duro, difficile da capire e da condividere, per certi versi assurdo! “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me”. Siamo agli antipodi della nostra logica, del nostro buon senso. Sono parole, per noi “umani”, decisamente incomprensibili.
Ma cosa intendeva dire Gesù? Cosa dovevano scolpire in profondità, nella loro memoria, i suoi discepoli? Non dobbiamo dimenticare che Egli parlava a persone semplici, persone non certo istruite; era gente pratica, realista, poveri lavoratori impegnati ad assicurare giorno dopo giorno la sopravvivenza alle loro famiglie.
Quindi a gente “concreta”, parole concrete: “Voi che avete accettato di seguirmi, dovete capire che Io valgo più di qualunque altra cosa voi possediate, anche la più preziosa; Io sono più importante dei vostri affetti, della vostra famiglia, della vostra stessa vita: sono insomma il vostro valore assoluto! Genitori, moglie, figli, vengono tutti dopo di me. Niente e nessuno può interporsi tra me e voi, nessuno può ostacolarvi nel servizio che voi mi prestate. La vostra scelta di discepoli, essenziale e obbligata, è una sola: Io, il vostro Dio”.
Dobbiamo riconoscere che, tradotta anche in termini semplici, la prospettiva per chiunque decida di seguire Gesù, non è certo semplice. Diciamo anzi che quel cammino è percorribile soltanto da poche persone, dagli eroi della fede, dai santi: da quanti cioè hanno messo in bilancio anche la morte violenta, il martirio, pur di vivere nella piena obbedienza al volere di Dio.
Si tratta quindi di un percorso insolito, molto difficoltoso, molto selettivo, soprattutto per noi che ci professiamo “cristiani” nel mondo d’oggi: ma queste sono le parole che Gesù ha rivolto a tutti, noi compresi, per rianimare una vita spirituale che, in genere, è troppo spesso asfittica e denutrita.
Nella vita, prima o poi, tutti indistintamente ci troviamo di fronte ad un bivio, alla necessità categorica di scegliere il proprio percorso di vita: da un lato c’è Dio, con l’invito a seguire i suoi passi: un percorso difficile, impegnativo, più illogico, da percorrere con una pesante croce sulle spalle; dall’altro il mondo, con una prospettiva molto più appetibile, più “umana”, più logica, più adatta alla nostra mediocrità. Ebbene: è esattamente in questo caso che la schiettezza del vangelo ci disorienta, ci spaventa.
Perché il Gesù che ci proponiamo di seguire non è un Dio che si accontenta di poco, che accetta compromessi, che rimanda, che si accontenta di mezze misure: Egli è categorico: vuole tutto, chiede tutto. Ma ci dà anche tutto: con la stessa generosità con cui una volta ci ha dato sé stesso sulla croce, così continua in ogni istante a darsi ai suoi fedeli, a coloro che lo seguono, che lo amano: e lo fa in termini di conforto, di pace, di gioia, di amore.
Ecco: il punto nodale del nostro programma di vita cristiana è proprio questo: ricambiare questo suo amore con un amore che si trasformi in passione per Lui, che diventi un fuoco travolgente, un fuoco interiore che ci spinga a fare per Lui anche le scelte più difficili.
Questa è la logica dell’amore che Dio ci chiede. Non possiamo rispondere: “sì, Signore, io ti amo, lo sai, ma arrivo fino ad un certo punto; più in là non posso andare, non ce la faccio”. Questo però non è “amare”. L’amore con Dio non è misurabile, non è quantificabile; la vera, l’unica misura che dobbiamo raggiungere, è amarlo “più di qualunque altra cosa”, perché solo così possiamo ricambiare in parte il suo smisurato amore nei nostri confronti.
Ecco perché Gesù dice: “Chi perde la sua vita la ritrova, e chi guadagna la sua vita la perde”. In pratica Egli stabilisce un principio fondamentale: se lo seguiamo, se facciamo la volontà di Dio, se lo amiamo al di sopra di tutto, anche tra mille difficoltà, “perdendo la vita”, rinunciando cioè a vivere nei piaceri, nelle ricchezze, nelle gioie false ed effimere di questo mondo, la nostra vita non finirà, ma proseguirà nella beatitudine eterna: un “guadagno” incalcolabile, che invece ci verrà precluso, se non lo seguiamo, se agiamo contro la Sua volontà, se lo amiamo svogliatamente o per niente.
Vivere il vangelo come vuole Gesù, in tutto il suo radicalismo, non è come andare a passeggio, non è un diversivo piacevole da prendersi alla leggera: richiede invece un impegno totale, un autocontrollo costante; non sono ammesse scorciatoie; c’è un’unica strada, quella tracciata da Gesù, quella che passa attraverso il “Golgota”. Ed è proprio per questo che l’autenticità cristiana è vista da molti come un’utopia, un progetto irreale, inattuabile.
Del resto, anche noi che ci diciamo cristiani praticanti, arriviamo a viverne solo le briciole, nel senso che preferiamo fermarci ad un livello molto meno impegnativo, al semplice “apparire”; ci accontentiamo cioè di dare alla nostra immagine, alla nostra vita pubblica, una parvenza di autenticità, senza preoccuparci se corrisponde o meno a ciò che professiamo. L’importante è che gli altri ci considerino persone devote, osservanti, per bene, timorate e innamorate di Dio.
Ma così siamo “out” già in partenza: perché per seguire veramente Gesù, per essere veri cristiani, non basta l’entusiasmo di un attimo, non bastano le buone intenzioni, i grandi propositi, i teatrini a beneficio altrui.
Il vangelo di oggi è estremamente chiaro in questo. La “conversione” che Gesù ci chiede deve essere sincera, totale, profonda, soprattutto continuativa: dobbiamo cioè mettere Dio sempre e comunque al primo posto, da protagonista, lasciando tutto il resto come corollario, come sfondo.
“Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta…”: parole tremende! Quante volte anche noi mortifichiamo Dio e la nostra fede, preferendogli semplici testimoni, santoni del momento, improbabili suoi imitatori, sedicenti veggenti! Quanti di noi, per esempio, vanno alla Messa domenicale, non per celebrare il Sacrificio Eucaristico, non per fare memoria con Lui del suo mistero pasquale, ma per ascoltare quello che noi stessi abbiamo elevato a “profeta” di turno: un oratore facondo, che sfoggia gigionescamente la sua “arte omiletica” (“vado sempre a quella Messa perché c’è Caio che predica così bene!”): e stupidamente non ci accorgiamo che in questo modo barattiamo una misera “esperienza” elocutoria, con l’altra esperienza soprannaturale, quella vitale e insostituibile, di poter interloquire direttamente con Dio, realmente presente nelle specie consacrate che accogliamo in noi: Lui, l’unico portatore di Grazia e di vitali benedizioni!
Ecco perché dobbiamo scendere nel profondo del nostro cuore, e coscienziosamente chiederci con umiltà e sincerità: “Quanto conta Dio nella mia vita? Lo amo e voglio veramente seguire il suo Vangelo? Gli ho mai chiesto di aiutarmi a diventare santo?”.
Proprio così: perché il radicalismo evangelico, se vissuto nella sua integrità, porta naturalmente alla santità, a “vivere” cioè di Dio”, profondamente innamorati di Lui. Uno stile di vita che tutti i cristiani indistintamente dovrebbero adottare, non solo i preti, i frati, le suore!
Ogni uomo che vuol seguire la chiamata di Cristo, proprio perché “umano”, è certamente debole, pieno di difetti, di tentazioni, di cadute. Superare tutte queste contrarietà, queste miserie, per amore di Gesù, è stato impegnativo anche per i Santi: del resto nessuno di loro era “speciale”, impeccabile, ineccepibile: erano tutti come noi, persone normalissime, che però (loro sì) hanno deciso di seguire Dio a tutti i costi: si sono affidate a Lui, e se cadevano, con grande umiltà si rialzavano, e più risoluti di prima, gli confermavano il loro impegno, la loro fedeltà, il loro amore; sono state insomma delle normalissime persone che hanno vissuto veramente di Dio, con Dio, in Dio. Un valido esempio per noi. Perché solo imitando le loro scelte, vivendo cioè in modo coerente la nostra vita sia spirituale che materiale, potremo scoprire sicuramente anche noi, perenni “indecisi scansafatiche”, il loro stesso entusiasmo, la stessa forza, le loro stesse motivazioni nel servire Dio: un percorso che alla fine assicurerà sicuramente anche a noi una tale quantità di amore e di felicità, da renderci stupenda, meravigliosa, straordinaria non solo la vita futura, ma anche quella presente.
Cristo non toglie nulla, Cristo dà tutto!”: sono parole che papa Benedetto, ancora cardinale, puntualmente mi ripeteva quando ci incontravamo: un concetto fondamentale che egli ha ribadito anche nel discorso tenuto per l’inizio del suo ministero petrino: perché “solo in quest’amicizia con Dio si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che ci libera”. Parole sacrosante che devono motivarci seriamente, perché indicano con quale spirito dobbiamo affrontare il percorso che conduce al Padre; una strada in salita, difficile, ma completamente percorribile. Allora, a questo punto, perché continuare a preferirle scioccamente le facili discese che conducono sicuramente alla morte? Amen.

 

  

giovedì 22 giugno 2023

25 Giugno 2023 – XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
10,26-33 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

Siamo nel capitolo 10 di Matteo che contiene il famoso discorso “missionario” di Gesù: una serie di “istruzioni” che dovevano accompagnare gli “inviati”, gli annunciatori del vangelo, nella loro missione apostolica. 
Nei primi anni e nei primi secoli non è stato sicuramente facile essere cristiani! L’esserlo comportava una scelta esigente, una scelta coraggiosa per le inevitabili gravi conseguenze. Non era una scelta fra le tante, ma una scelta che determinava la vita.
Oggi per molte persone essere cristiani o non esserlo non fa alcuna differenza. Andare in chiesa o non andarci è un po’ la stessa cosa. Che Gesù sia esistito o meno, è per loro assolutamente ininfluente, è molto più interessante scegliere in quale supermercato fare la spesa, in quale negozio acquistare un vestito o quale spiaggia scegliere per le vacanze.
Non è così, invece, per i cristiani che hanno deciso di seguire Cristo.
Il testo del vangelo ci propone infatti una serie di assicurazioni positive proprio per quanti sono preoccupati per ciò che incontreranno durante la loro missione annunciatrice del Regno di Dio: si tratta di quattro contrapposizioni (nascosto-svelato, segreto-manifesto, tenebre-luce, orecchio-tetti) che ci rivelano, in qualche modo, lo stile di vita tenuto dai primi cristiani: la loro era infatti un’esistenza di fede profonda, praticata nel nascondimento, nel segreto, nelle catacombe; manifestare il proprio credo in pubblico era pericoloso, molto pericoloso. E ci voleva molto coraggio!
Per noi ora non è più così. Testimoniare la nostra fede non comporta più alcun pericolo, in particolare quello di morire martirizzati: al massimo possiamo subire l’inconveniente di venire guardati con sospetto, con commiserazione, di rimanere soli, di non essere capiti, accettati.
Un niente: ma è una eventualità che mortificherebbe non poco il nostro “ego”, escludendoci dalla possibilità di ottenere riconoscimenti, consensi, attestazioni di stima da parte degli altri; una situazione che ci porterebbe ad assumere un comportamento a dir poco paradossale: essere cioè cristiani a singhiozzo, compatibilmente con le circostanze della vita: credere quando ci fa comodo, quando ci conviene, quando cioè abbiamo un ritorno di riconoscimenti e ammirazione. Salvo poi, quando non ci conviene più, nasconderci, cambiare faccia, cambiare fede e religione con grande naturalezza e disinvoltura!
Ebbene, il vangelo di oggi non ci raccomanda tanto di esibire in pubblico la nostra fede, quanto di condurre una vita semplice, coerenti con noi stessi, con ciò in cui crediamo, con la nostra coscienza; in una parola di essere persone autentiche, persone che sanno fare luce dentro di loro, proprio là dove convivono paura e coraggio, amore di Dio e calcolo egoistico, amicizia con Gesù e orgoglio personale, invidie, risentimenti.
Vogliamo far sapere al mondo chi siamo veramente? Facciamolo praticamente con la nostra vita: perché in questo modo non solo cresciamo come uomini e come cristiani, ma testimoniamo coerentemente la nostra fede.
“Non abbiate paura”, ci rassicura Gesù: ma la paura è la nostra fedele compagna di viaggio; noi abbiamo paura di tutto e di tutti, anche delle cose più insignificanti: di un piccolo dolore, di possibili offese da parte di qualcuno, di cosa gli altri possano pensare di noi.
Siamo troppo condizionati dal “rispetto umano”, dal giudizio della gente! Al punto da evitare talvolta di compiere per vergogna delle buone azioni: come per esempio di farci il segno della croce, di recitare a voce alta una preghiera, di esprimere sinceramente in pubblico un nostro parere “cristiano” sulle questioni del momento. Dobbiamo purtroppo riconoscere che la nostra fede è troppo debole, la nostra coerenza troppo fragile, la nostra carità decisamente effimera.
Eppure le parole del Signore dovrebbero essere per noi, in ogni momento, la luce che ci illumina, la forza che ci determina, che ci rende tetragoni ad ogni pericolo: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l'anima e il corpo”. Gesù è sempre molto chiaro, paradigmatico, esemplare, non lascia mai spazio a dubbi.
Ci colpisce in particolare l’indicazione di chi e di cosa dobbiamo aver paura: non delle ossessioni personali, non delle nostre idiosincrasie, e soprattutto non di “quelli che possono uccidere il solo corpo”: sappiamo bene, per esperienza, quanto gli uomini possano ferirci: possono umiliarci, farci paura, farci pressioni insopportabili, disonorarci; possono infliggerci qualunque ferita corporale, ma non possono in alcun modo uccidere la nostra anima. C’è qualcosa in noi che è solo nostro, di nessun altro: per quanto possiamo essere vittime di prepotenze, di paure, di costrizioni, ci rimane sempre uno spazio di libertà, uno spazio in cui siamo solo noi a comandare, dove siamo solo noi a decidere la nostra vita. Lì, nessuno può toglierci l’anima, questo nostro “soffio” divino: nessuno può e potrà mai sottrarcelo, nessuno riuscirà mai a soffocarlo contro la nostra volontà. Questa è la nostra più grande ricchezza.
Noi non “siamo” il nostro lavoro, i nostri studi, la nostra laurea, la nostra professione; non “siamo” il nostro “status sociale”, il nostro ruolo, la nostra fama: “siamo” unicamente la nostra anima!
Non svendiamo allora noi stessi. Perché quando abbiamo perso la nostra coscienza, quando non sappiamo più chi o cosa siamo, non ci rimane più nulla. Purtroppo ci sono troppe persone sprovvedute, anche tra i cristiani, che accettano di svendere la propria anima per i soldi, per la ricchezza, la gloria, il piacere, il benessere, il potere! Sono dei falliti: gente che considera “vita” ciò che è solo “morte”, ciò che è destinato a dissolversi; e considerano morte ciò che invece è “Vita”, felicità eterna.
Per sottolineare queste sue raccomandazioni, Gesù introduce quindi due immagini poetiche: quella dei passeri e del numero dei capelli sul capo. In pratica ci dice che nulla può succedere nel mondo senza che Dio lo sappia: né un passero cada, né un nostro capello può cadere per terra senza che Lui lo sappia”. Ciò è per noi di grande consolazione: perché ci assicura che anche nelle “cadute” più insignificanti, in qualunque sofferenza della vita, Dio c’è, non ci lascia mai soli, non ci abbandona a noi stessi; la sua presenza è sempre una “presenza di salvezza”, anche se noi non la percepiamo immediatamente, anche se, a livello psicologico, non le diamo grande importanza.
È comunque rassicurante sapere che tutto quanto ci riguarda è sempre presente al cuore di Dio.
Come possiamo pensare che Colui che ci ha voluti, che ci ha creati, ci possa poi abbandonare a noi stessi? Che Colui che ci ha donato la vita, possa togliercela? Tranquilli, non è possibile: ce lo dice chiaramente, per esempio, il Prefazio della Liturgia dei defunti: “vita mutatur non tollitur”, la vita non è tolta, ma trasformata, e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. Quindi perché paure, preoccupazioni, ansie? Viviamo serenamente la vita che Dio ci ha donato, viviamola nel rispetto dei suoi valori evangelici, nella certezza che Egli, anche se non lo capiamo, nell’attesa dell’abbraccio finale, continua a lavorare per noi, ci assiste, ci segue passo dopo passo, perché Egli vuole veramente il nostro bene!
C’è, è vero, un avvertimento molto importante che conclude il vangelo di oggi: “Chi mi rinnegherà... anch’io lo rinnegherò!”. Parole severe che sembrano contenere addirittura una minaccia, una promessa di vendetta, un ritorno all’antica legge del taglione: “Tu mi tratti così? Ti comporti come se io non esistessi? Mi rinneghi con la tua vita? Bene: anch’io ti rinnego!”.
Non una sentenza punitiva, quindi, ma una constatazione: un risultato che non dipende dalla volontà di Dio, ma esclusivamente dalla nostra; un risultato che rispetta autonomamente e rigorosamente il principio di “causa-effetto”: nel senso che noi già sappiamo in precedenza le uniche due possibilità che ci aspettano: se l’essere accolti come “benedetti”, oppure rinnegati come “maledetti”; quindi solo noi, grazie alle nostre attuali scelte di vita, possiamo stabilire quale scegliere, nessun altro: per cui, detto in breve, chi ama sarà amato, chi disprezza sarà disprezzato.
Oggigiorno però, nel nostro cristianesimo annacquato, abbiamo completamente rimosso dalle nostre preoccupazioni, quell’incontro finale con Dio che si chiama “giudizio”, in base al quale conosceremo la nostra destinazione eterna: nell’euforia, nella gioia di saperci sicuramente assolti e perdonati dalla “Divina Misericordia, abbiamo completamente dimenticato di praticare i nostri doveri di cristiani, di essere cioè discepoli “chiamati” a testimoniare il Vangelo di Cristo, con le opere e il buon esempio: ci siamo cioè progressivamente adattati al principio del “fai come ti pare, tanto Dio è buono e ti perdona!”, con cui puntualmente “addomestichiamo” qualunque nostro dovere; del resto, perché preoccuparcene, se poi alla fine Dio, che è “misericordia assoluta”, ci premierà comunque salvandoci? Opinione oggi molto diffusa anche nella Chiesa, grazie ad una lettura del Vangelo partigiana, distorta, incompleta, e da una catechesi che dovrebbe invece esprimersi in maniera più completa, più fedele, più veritiera. Infatti, che Dio sia “Misericordia infinita”, è vero, è innegabile: ma è altrettanto vero e innegabile, e non va dimenticato, che Dio è anche “Giustizia e rettitudine infinita”: se non fosse così, se non agisse con equità, se cioè stabilisse il medesimo trattamento sia per chi ama il prossimo e opera la carità, che per quanti invece vivono oltraggiando, umiliando, odiando e uccidendo i fratelli, Dio si rivelerebbe “ingiusto”, farebbe un torto alle sue creature, e soprattutto a sé stesso, alla sua “essenza” divina: cosa improponibile, inaccettabile, inammissibile. 
In definitiva Gesù, con queste parole così perentorie, vuol dirci: “Fate attenzione: ricordatevi sempre che io vi ho scelto per essere miei testimoni, miei “discepoli”: la fedeltà, il rispetto, l’osservanza dei principi e dei valori che derivano da tale scelta, è l’unica vostra garanzia per poter godere della mia amicizia eterna”: un dato di fatto emblematico, chiaro, inequivocabile!
Amen.



giovedì 15 giugno 2023

18 Giugno 2023 – XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 9,36-10,8: 
In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!». 
Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità. I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì. Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

È una constatazione, quella di Gesù: la gente che lo segue per le strade della Palestina è cresciuta a vista d’occhio, è diventata “le folle”: egli tuttavia vede chiaramente in ciascuno dei presenti, le loro sensazioni, la loro stanchezza, il malessere, la delusione, la sfiducia. È gente che per qualche ragione si sente tradita, gente che per cui la vita non ha più un significato, gente che si sente inutile. Gesù vede tutte queste persone sofferenti, si rende conto delle loro necessità e, rivolto ai discepoli, scosso, preoccupato, si lascia andare dicendo: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi!”. Di fronte a quella povera gente, capisce che in futuro, per arrivare a tutto e a tutti, ha bisogno di collaboratori, di persone che continuino ciò che lui ha iniziato, che sostengano il suo progetto di “chiesa”.
A questo punto che fare? chiama il gruppo dei discepoli che già lo seguivano, e tra loro ne sceglie dodici, ai quali conferisce la nomina di “apostoli”, persone incaricate cioè a scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità. 
Nel vangelo di oggi Matteo, nel comunicare i loro nomi , cita anche sé stesso: quel pubblicano di nome Levi, esattore delle tasse per conto dei Romani, malvisto dal popolo per le tangenti che incassava con la sua attività; solo che, nel momento in cui scrive, Levi il pubblicano non esiste più, è diventato Matteo, l’apostolo: un giorno infatti egli aveva incontrato quel Nazareno, ospite di Pietro e Andrea, e aveva visto in Lui la possibilità di un suo riscatto, di condurre una vita diversa, libera, nuova, conquistato soprattutto dalla misericordia, dalla bontà, dall’amore, che trasparivano dallo sguardo sereno di Gesù. Quando inserisce il suo nome tra i dodici, sono passati trent’anni da quell'incontro, ma l’emozione a quel ricordo è ancora la stessa. 
La lista dei dodici “apostoli” è formata da nomi che in parte già conosciamo: “Pietro”, qualificato come “primo” come “capo” (ciò conferma che all’epoca in cui è avvenuta la stesura del Vangelo, Pietro ricopriva già il ruolo di guida, di responsabile del gruppo), e suo fratello “Andrea”; poi “Giacomo e Giovanni”, due fratelli dal carattere focoso, irascibile, soprannominati per questo i “Boanèrghes” cioè i “figli del tuono”. Queste due coppie di fratelli sono stati gli amici più intimi, i confidenti di Gesù, quelli che lui chiamava sempre al suo fianco nei momenti critici, decisivi. Quindi, anche Gesù, pur amando tutti indistintamente, aveva anche lui qualcuno con cui si trovava meglio, di cui si fidava di più, con cui si confidava maggiormente. Ancora: “Filippo” di Betsaida e “Bartolomeo” un ebreo. Quindi “Tommaso”, detto “Dìdimo”, cioè “gemello, duplice”, a causa del suo carattere: uno che non si fermava mai al primo sguardo, ma voleva vedere sempre il rovescio della medaglia. “Matteo” (l’ex pubblicano usuraio Levi). “Simone il Cananeo”, un nazionalista Zelota, antiromano per eccellenza; “Giacomo”, cugino di Gesù (figlio di Alfeo, fratello di san Giuseppe); “Taddeo” (detto anche Giuda di Giacomo) e infine Giuda Iscariota che sarà il traditore. 
Si tratta di un gruppo eterogeneo, formato un po' da tutti i tipi: nazionalisti, pubblicani, peccatori, incolti, istruiti, poveri, ricchi. Ma Gesù non si ferma in superficie, al semplice apparire, o addirittura al “si dice” della gente: egli vede e legge le persone nel profondo del loro cuore, della loro anima; conosce l’infinito bisogno di felicità che ogni uomo porta scolpito nel proprio cuore. È un po’ quello che succede anche oggi: Gesù conosce perfettamente anche tutti noi: le nostre preoccupazioni, la difficoltà di trovare risposte adeguate ai nostri problemi. Egli sa che siamo disposti a vendere anche l’anima per avere un po’ di amore, di serenità, di pace; per sentirci accolti, stimati, considerati, amati.
Ebbene: è proprio questo identico bisogno di felicità, di amore, di pace, innato in ogni uomo, che ci rende tutti simili, che ci unisce, in ogni tempo, in una fratellanza universale.
Gesù vede tutto questo, vede che siamo amareggiati, insoddisfatti, che, pur non ammettendolo, sentiamo un profondo bisogno di Lui, del suo amore, di quella felicità che solo Lui può dare. 
Sì, perché nella delirante e disonesta epoca in cui viviamo, la felicità che cerchiamo è rara, introvabile, viene venduta a prezzo esorbitante, assurdo, incalcolabile; e noi, instupiditi, spaesati, confusi, ingannati, ci adeguiamo all'offerta, finendo col seguire purtroppo le prospettive più seducenti, più luccicanti, più immediate, quelle che sembrano poter appagare il nostro incolmabile bisogno di bene e di verità.
Gesù è lì, fermo, immobile, guarda le folle di allora, le folle di oggi, di domani, e si commuove vedendo quanto devono faticare tutti, per trovare la vera felicità. Il Padre stesso, forse, è stato preso da qualche “perplessità”: in effetti, non era questo il suo progetto quando ci ha donato la libertà, dono molto difficile da gestire, superiore alle nostre forze, per cui troppo spesso deleghiamo le nostre scelte all’imbonitore, all'incantatore di turno.
Pecore senza pastore”: è così che vede le folle il Maestro, commuovendosi. E nel suo amore infinito decide di agire. E come al solito ci spiazza: la pagina del vangelo finisce nel modo più inatteso, più incredibile. Tutti ci saremmo aspettati un Gesù che, mosso dalla compassione, si sarebbe immediatamente offerto Lui, come Buon pastore, come solutore di ogni problema.
Invece no: Gesù, commosso per lo stato precario degli uomini, dispersi nel mondo, inventa la Chiesa! Sceglie cioè dodici persone per iniziare la costruzione del Regno di Dio: dodici che, istruiti da Lui, siano in grado, durante la sua assenza materiale, di condurre i greggi del mondo, a quei pascoli erbosi, nei quali loro stessi per primi, desiderano entrare.
Non sono perfetti, sono purtroppo degli uomini. Ma Egli vede in ognuno di essi, oltre le inevitabili deficienze, la determinazione, la voglia, di trasformarsi in combattenti, in autentici eroi, per la Sua causa. Nella loro poliedrica diversità, nella loro sgangherata unione, rappresentano infatti l'intera umanità.
Nessuno mai si sarebbe sognato di mettere insieme dodici persone così radicalmente diverse per realizzare un progetto divino così impegnativo: riportare al Padre l’umanità peccatrice! Nessuno, eccetto Gesù. E sarà poi Lui, che li illuminerà, li unirà, li indirizzerà, li compatterà in quell’unica realtà della Chiesa nascente, destinata a proiettarsi nel tempo, fino alla fine dei secoli.
Questa è, e rimane, la Chiesa, il paradosso di Cristo! All'umanità ferita e fragile che necessitava di una guida sicura, inflessibile, inossidabile, Gesù ha posto un condensato di umanità, altrettanto fragile e ferita. Ma nonostante le sue carenze, i secoli bui, i suoi alternanti alti e bassi, la barca di Pietro è giunta fino ad oggi, con l’immutata determinazione di continuare il suo mandato nei secoli futuri, grazie all’assicurazione del suo Fondatore e sposo, che l’avrebbe protetta contro ogni ostilità della cattiveria umana.
Questo sicuramente è il suo punto di forza, questo il segreto della sua immortalità, della sua invulnerabilità.
Oggi, però, con rammarico, dobbiamo riconoscere che la Chiesa voluta da Cristo ha cambiato fisionomia: il tentativo di rinfrescarle il volto, di farle rinnovare l’antica veste nuziale, ha prodotto purtroppo degli strappi sostanziali non solo al suo incedere, ma anche alla sua sostanza: ha perduto la sua brillantezza, la sua autorità, la sua intoccabilità magisteriale; si presenta disunita, superficiale, incoerente: troppe le fragilità, troppe le contraddizioni, troppe le omissioni, troppe le svalutazioni dottrinali, troppe le infedeltà. In essa folle intere di cristiani vivono ignorando cosa significhi “credere”. Sono troppi quelli che non condividono certe sue iniziative, apertamente disallineate dall’originale mandato di Cristo, di insegnare, promuovere, difendere con carità ma con fermezza tutti i valori fondanti del suo Vangelo.
I suoi “apostoli”, inoltre, di fronte alla crescita esponenziale dei greggi, sono oggi numericamente insufficienti, burocratizzati, stanchi: si sta riproponendo in maniera più tragica, la stessa situazione lamentata da Gesù: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi!”.
E ripropone anche a noi quel suo pressante invito: “Rogate Dominum messis”, implorate il Padrone del raccolto, perché mandi operai che se ne prendano cura!
In questo particolare periodo di smarrimento, di opacità e sofferenza, la Chiesa ha realmente bisogno di nuovi operai, nuovi “apostoli”, nuove guide: ha urgente bisogno di testimoni “credibili”, di pastori motivati per poter radunare tutti i greggi dispersi nel mondo e ricondurli compatti all'ovile del Padre. È un dato incontrovertibile.
Ma noi cristiani della domenica, che possiamo fare? Certo, non mancano i soliti adulatori idioti, che, forti di tale situazione, ci blandiscono: “Tu, uomo o donna, puoi essere un grande animatore nella chiesa; sei intelligente, preparato, se vuoi, puoi risolvere tanti problemi, datti da fare! Insegui le tue aspirazioni, realizzati, vai e raccogli tutti quegli onori e riconoscimenti che meriti!”. 
Non cadiamo in così false, sciocche, e stupide fantasticherie! Il nostro filiale, rispettoso, personale disappunto sull’attuale cammino della Chiesa, è ben lontano dall’essere motivato da un ipotetico inserimento in una delle tante sue nuove iniziative pastorali molto ambite, ma spiritualmente inutili, religiosamente aride! 
Noi cristiani dobbiamo ascoltare una voce soltanto, quella di Cristo, il buon Maestro: Egli solo riesce a vedere in noi quelle potenzialità operative che noi non possiamo vedere e neppure immaginare: attività che, con determinazione, Lui sfida i suoi nuovi collaboratori a praticare: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!”. 
È evidente che per il nostro “nulla”, tali “operazioni” sono non solo impossibili, ma addirittura improponibili. È però altrettanto vero che, sempre a questo proposito, Gesù ha detto anche che “tutto è possibile” a chiunque abbia un minimo di fede, grande almeno “quanto un granello di senape” (Lc 17,6)
Che fare allora? Nulla, facciamo come il giovane Samuele, che nella solitudine della sua camera alla chiamata di Dio risponde: “Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta!” (1Sam 3,10). Abbandoniamoci alla Sua Parola, buttandoci alle spalle ogni nostro dubbio, ogni perplessità: e come Pietro, dopo una nottata di lavoro inutile, obbediamo, prendiamo il largo e gettiamo anche noi le reti! (Lc 5,8).
Se lo hanno fatto gli “apostoli”, trasformati dalla fede, lo possiamo fare anche noi cristiani, chiamati da Dio e guidati dallo Spirito: possiamo cioè anche noi, nel nostro piccolo, correre in aiuto a questa Chiesa debilitata e spoglia; possiamo anche noi rassicurare e “radunare” da ogni angolo della terra, tutte le sue pecore lontane, non con fiumi di parole, ma con una esemplare vita cristiana: perché in realtà è sempre Lui che opera servendosi di noi, è sempre Gesù, l’unico e vero Pastore, che sul nascere del nuovo giorno guiderà le sue pecore ai pascoli erbosi della salvezza: sarà sempre Lui, lo sposo, che condurrà la Chiesa, sua sposa, alla vittoria finale sul male: quella stessa Chiesa che, nel frattempo, noi a gran voce continueremo a proclamare al mondo, con orgoglio e senza timori di “
autoreferenzialismo”, Una, Santa, Cattolica e Apostolica! 
Dio non ha mai “obbligato” nessuno a coprire il ruolo di “pastore” nella sua Chiesa: Egli chiede, chiama, invita, e attende. Siamo noi che accettiamo di diventare degli “strumenti” nelle Sue mani; non ha mai chiesto a nessuno dei suoi “apostoli”, dei suoi collaboratori, interventi gravosi, eccessivi, impossibili; per cui, se un giorno decidesse di chiederci qualche piccola collaborazione, asteniamoci anche noi dal fargli in contropartita richieste impossibili; non pretendiamo mai nulla in cambio. Stare al suo servizio è un dono, un dono elettivo! Non cerchiamo riconoscimenti, pubblicità, onori, non chiediamo corrispettivi! In particolare, se nella piccola comunità in cui viviamo, già prestiamo una nostra modesta collaborazione, evitiamo di primeggiare, di esibirci, di trasformarci in promotori, moderatori, guide di “gruppetti scelti”: perché tali realtà, qualunque sia il loro settore di impiego, grazie ad un loro connaturale spirito elitario, finiscono puntualmente col diventare invalidanti per la normale attività comunitaria della Chiesa. 
Ascoltiamo invece, e mettiamole in pratica, le sagge parole che Pietro, il primo Papa, rivolgeva alla giovane Chiesa nascente: “Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 4,11). 
Sempre e in ogni caso, continuiamo il nostro cammino spirituale con grande responsabilità, perché il “servizio” con cui ci siamo obbligati con Cristo e la Chiesa mediante il battesimo, costituisce già da solo un grande impegno: esso infatti riassume l’intera nostra missione di cristiani, la passione, la gioia, l’amore per la nostra vita di fede. Dio non ci chiede nient’altro: viviamola, dunque, questa nostra umile disponibilità con Dio, facendo il bene, con semplicità e fedeltà, come Lui ci ha insegnato; e soprattutto continuiamo a pregarlo insistentemente, perché mandi nella sua Chiesa dei “veri” operai, gente innamorata di Lui, valida, esperta, e soprattutto santa. Amen

 

giovedì 8 giugno 2023

11 Giugno 2023 – CORPO E SANGUE DI CRISTO


Gv 6,51-58

“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». 
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.

La solennità liturgica di oggi ci ricorda che quando nella celebrazione Eucaristica ci accostiamo all’altare per “assumere” l’ostia consacrata, in realtà noi “mangiamo” il Corpo e il Sangue di Cristo. Ci immedesimiamo in Lui. Ci apriamo a Lui, mettiamo il nostro corpo a sua disposizione, perché diventi la sua dimora. Diventiamo, come dice Paolo “tempio dello Spirito Santo”. E poiché il nostro corpo è di Dio, chi non lo “ama”, chi non lo rispetta, non ama e non rispetta neppure Dio. 
Una volta si diceva: “Tutto ciò che è materia, che è corpo, che è umano, è negativo, indegno, spregevole, è peccato. Soltanto ciò che è spirito è elevato, sublime. Per far emergere lo spirito dobbiamo mortificare il più possibile la materia”. Chi ambiva seguire Cristo, doveva reprimere il suo lato materiale, fustigare il proprio corpo; in nome di Dio doveva purificarlo da ogni godimento mondano.
Poi finalmente si è capito che oltre allo spirito, abbiamo avuto in dono da Dio anche un corpo, inscindibili l’uno dall’altro: non esiste infatti nessun corpo umano senza un’anima, senza uno spirito, come non esiste nessun’anima, nessuno spirito, senza un proprio corpo; ogni uomo è costituito da questi due elementi inseparabili: quando stiamo male nel corpo, anche lo spirito soffre, sta male; al contrario quando lo spirito sta bene anche il nostro corpo sta bene. Ogni diversa emozione spirituale ci fa vivere esperienze corporee diverse!
Ecco perché dobbiamo riconciliarci con il nostro corpo, dobbiamo conoscere e rispettare i suoi limiti, i suoi ritmi, le sue possibilità; dobbiamo amarlo, dobbiamo volergli bene.
Ovviamente senza oltrepassare i limiti del buon senso e della morale naturale: perché oggi, dal disprezzo pressoché totale di una volta, siamo passati alla più sfrenata esaltazione del corpo umano; la società del consumismo è arrivata ad idolatrare il corpo, e non solo quello femminile. Oggi il corpo viene ostentato, viene pubblicizzato in tutta la sua felina armoniosità; è diventato merce di scambio, oggetto di latria, di culto. Qualunque sua imperfezione determina la discriminazione della persona. L’amore che gli viene tributato è purtroppo ben lontano dal rispetto, dalla cura, che ci ha insegnato Gesù: l’amore con cui egli ama il nostro corpo è completamente diverso, è pura “agape”, amore disinteressato, immenso, smisurato.
Quando andiamo a fare la Comunione, il ministro ci mostra la particola e dice: “Corpo di Cristo”; e noi rispondiamo “Amen!”, cioè gli confermiamo che “è vero, è così, sto veramente per mangiare il Corpo di Gesù”.
È l’istante del nostro incontro materiale con Dio: il Divino si umanizza in noi col suo corpo. In quell’istante il nostro cuore, in un impeto di gratitudine, gli offre in umile preghiera il nostro misero benvenuto: “Ecco, Signore, questo è il mio di corpo: te l’offro come tua abitazione: entra tranquillo, farò di tutto per rendere confortevole la tua presenza!”; e la voce Gesù di rimando: “Amen; lo so, va bene, tranquillo, mi piaci così come sei: non ti preoccupare, insieme faremo grandi cose!”.
Se solo sapessimo ascoltarci con fede! Sicuramente sentiremmo queste o simili parole: perché incontrarsi attraverso l’Eucaristia è senz’altro motivo di conforto, un dono incommensurabile, un’immensa prova d’amore, una gioia profonda, reciproca, quella di Dio e quella nostra!
Lui, il Dio onnipotente, non si vergogna di venire dentro il nostro corpo, piagato da mille contraddizioni; anzi entra nella nostra umanità proprio per amarla, valorizzarla, ristrutturarla, difenderla; viene perché è felice di stare “a tu per tu” con noi; viene per identificarsi con noi: Corpo nel corpo.
E, diciamolo, lo fa anche per necessità, perché egli ha bisogno di noi, del nostro corpo; dopo la sua ascesa in cielo, infatti, il nostro corpo gli è indispensabile: per muoversi, per operare, per continuare a parlare, per catechizzare questo mondo ostile; egli ha bisogno di suoi alter ego, e durante la nostra vita, siamo noi i suoi sostituti: siamo noi la sua voce, il suo viso, le sue braccia, le sue gambe, il suo cuore.
Un compito altamente impegnativo, che ci responsabilizza, una missione per la quale dobbiamo prepararci seriamente: nel senso che dobbiamo “santificare” questo nostro corpo, dobbiamo averne cura, non esporlo mai al pericolo del male, non asservirlo irresponsabilmente al peccato.
Ci siamo mai chiesto perché Gesù, invece del suo "corpo", non ci invita a mangiare e a nutrirci della sua santità, della sua giustizia? Perché, invece del suo sangue, non ci dice di bere la sua innocenza, la sua mitezza? perché non ci dice di prendere dalla potenza divina tutto il suo vigore? Invece si limita a dire: “Prendete e mangiate la mia carne!”. Non vi sembra incredibile? Gesù, il Dio onnipotente, ci lascia in eredità la debolezza, la fragilità del suo corpo umano!
Avrebbe potuto scegliere mille altri modi per rimanere con noi: avrebbe potuto lasciarci un segno straordinario della sua potenza, della sua gloria, un segno evidente e definitivo per rassicurare la nostra fede sempre traballante. Avrebbe potuto... E invece no! Gesù ha scelto di rimanere in mezzo a noi con il suo corpo, con la sua persona, la sua storia, la sua vita appassionata d'amore, il suo Volto, sublime trasparenza di quello del Padre.
Mangiare la carne e bere il sangue del Signore significa nutrirsi dell'Amore ardente di Cristo, significa assimilare la linfa della sua Vita immortale, significa scoprire che Dio desidera stare in intimità con noi più di quanto riusciamo ad immaginarlo.
La festa dell’Eucaristia è pertanto un chiaro invito ad abbandonare definitivamente il nostro comportamento da “uomo vecchio”, a scuotere con vigore quel desiderio, ormai per lo più spento, di unirci intimamente a Cristo. Risvegliamolo allora questo desiderio, recuperiamo la nostra dignità di figli di Dio, abbandoniamo il nostro “io”, uniformiamoci a “Lui”, spogliamoci della nostra misera identità, innestiamoci nel Corpo di Cristo assumendo la sua identità divina.
Questo dev’essere il nostro traguardo, questo il nostro grande ideale di cristiani.
Certo, “mangiare” la carne di Cristo, non è così semplice e naturale come con qualsiasi altro cibo: tant’è che Giovanni, nel riportare il termine mangiare pronunciato da Gesù, usa il verbo “trògo” che richiama vagamente il ruminare degli animali, un “masticare” lento, ripetuto, prolungato, meticoloso: un verbo che introduce l’idea di voler ottenere i massimi benefici dal cibo; quindi, nel nostro caso, “assumere l’Eucaristia” non deve consistere in una semplice e veloce “ingestione”, fatta distrattamente, pensando ad altro; ma deve essere una vera e propria “communio”, un reale, sensibile, personale incontro con Cristo, evento che richiede appunto una predisposizione, una “ruminatio” intima, lunga, paziente, consapevole.
In pratica, cosa vuol sottolineare Giovanni con questo? che “colui che mangia” (ò trògon) la carne di Gesù (tèn sàrka mou), se vuole il completo, totale assorbimento con Lui e in Lui nella vita eterna (zoèn aiònion), deve necessariamente affrontare un lungo lavorio interiore, una lunga “masticazione”, una potente “triturazione” degli esempi di vita di Gesù, del suo Vangelo, dei suoi insegnamenti: deve cioè decidersi a modificare concretamente le proprie abitudini negative, ad essere più sensibile alla voce della coscienza, a riprogrammare l’esistenza con autentici valori “cristiani”.
Se scorriamo le pagine dei Vangeli, infatti, possiamo notare che tutti coloro che hanno “incontrato” Cristo, che lo hanno spiritualmente “trasferito” in loro, non sono stati più gli stessi di prima. La loro esperienza personale è stata unica, radicale, sconvolgente, risolutiva.
Se invece ci fermiamo ad esaminare noi stessi, i nostri incontri con Dio, cosa possiamo dire a questo proposito?
Ben poco o nulla: non siamo migliorati, non ci siamo realmente convertiti, la nostra fede è rimasta debole, continuiamo a seguire stupide ideologie, non percepiamo la reale presenza di Dio in noi, anzi che ci sia o non ci sia, per noi è irrilevante, ci lascia indifferenti: talvolta può succedere anche di ascoltarlo, ma ogni sua Parola, ci scivola subito via.
Ecco perché, se veramente siamo interessati alla “vita eterna”, non possiamo assolutamente ridurre il nostro “incontro” con Gesù Eucaristia, ad un semplice sgranchirci le gambe, ad una “passeggiata” per la chiesa, ad un distratto e superficiale adeguarci al “così fan tutti!”; ma al contrario deve essere un evento straordinario, carico di devozione e umiltà; un voler entrare in sintonia, in “comunione” con Cristo; un ricreare con Lui la nostra vita interiore, la reale e totale “purificazione” dell’anima: convinti che con la sua potenza risanatrice, Egli riempirà il nostro nulla, e ci trasformerà da “esseri carnali”, in “esseri spirituali”; diventeremo cioè “nuove creature”, in grado di poter un giorno vivere e godere eternamente del suo infinito amore e della sua Vita immortale.
Preghiamo allora il Signore, in questa particolare occasione, perché si attui veramente tale conversione in noi e nel mondo, affinché ogni cristiano, ogni discepolo, ogni uomo, chiamato ad agire nel Suo nome, diventi sempre più “immagine autentica” di Dio. Non spegniamo mai l’azione dello Spirito di Dio che abita in noi! Lasciamo che la Sua grazia e il Suo amore operino liberamente e silenziosamente nel mondo e nella società, dentro e fuori di noi, e trasformino radicalmente la nostra anima, il nostro cuore, l’umanità intera. Amen!

 

  

giovedì 1 giugno 2023

04 Giugno 2023 – SANTISSIMA TRINITÀ


Gv 3,16-18
“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio»

Oggi la chiesa celebra la festa della Trinità, un Dio che è Padre, Figlio e Spirito santo. Un mistero, quello trinitario, che è al centro della vita cristiana, e che noi ricordiamo continuamente anche nel farci il semplice segno della croce, anche se è un gesto che ripetiamo ormai meccanicamente, senza pensare a quello che facciamo, a cosa diciamo, e soprattutto a come lo facciamo.
Dobbiamo riconoscere che la questione della profonda identità di Dio uno e trino, pur essendo un dogma fondamentale della nostra fede, oggi purtroppo non interessa più nessuno; anzi, voler spiegare la divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione storico salvifica, e a disquisire sulla realtà personale dello Spirito Santo, viene considerato un inutile esercizio teologico, lontano dai problemi esistenziali ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, infatti, è l’ultima preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea di Dio (uno o trino che sia) viene sempre più estromessa dalla vita personale e sociale degli stessi cristiani.
Eppure la Trinità divina ─ almeno a livello di semplice “intuizione” ─ non ha bisogno di uno “sforzo speculativo” di equilibrismi intellettuali per essere afferrata dalla nostra mente: è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; consiste infatti nel fare una conoscenza “vissuta” di Dio, quella stessa conoscenza acquisita senza problemi dai primi discepoli, che non erano certo degli intellettuali; e cioè: Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio; e nella realtà si comportava esattamente così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un mondo infinito di amore, di comunione; constatarono in Lui una vita “divina” talmente grande e intensa, un qualcosa di così profondo e intimo da risultare innato, connaturale: e collegarono questa loro esperienza all’immagine che meglio poteva esprimerla, l’idea di “famiglia”, composta da un Padre-madre, da un Figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre parole un Dio “trino”, un “unicum” che si esplica in tre funzioni: un Dio che sta “sopra” di noi, che è il nostro creatore, la nostra origine, che noi chiamiamo “Padre”; un Dio uomo come noi, nato come noi, che si chiama Figlio, compagno del nostro cammino, che con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come “entusiasmo” (dal greco “enthousiasmós” che deriva da “én-theòs” = “il dio dentro”), come creatività, come forza, amore, passione, energia: il Dio, in una parola, che ci ha fatto “chiesa”, e che si chiama Spirito Santo.
Tutto il creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare la famiglia umana che, come ho detto, è la prima cellula sociale eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo nella loro identità due persone distinte (Padre-madre), si fondono in unità nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco (Spirito), generando un’altra persona (Figlio), un figlio identico in tutto a loro, ma ben distinto da loro. La reale esistenza di questo “amore”, come terzo elemento connaturale, uguale e distinto, appare quindi evidente.

Noi tutti sicuramente abbiamo avuto modo, almeno una volta, di vivere, magari inconsapevolmente, una certa esperienza “trinitaria”: per esempio, quando eravamo ancora nel grembo materno, inconsciamente sentivamo di essere una realtà unica, indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, completamente fusi con lei: oltre noi due non c’era nessun altro, noi due eravamo il “tutto”. Poi, una volta entrati nel mondo, ci siamo accorti che non era proprio così: oltre noi e la mamma, c'era anche un Papà, e tantissime altre persone; ci siamo accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri; ognuno era “unico” in sé stesso, ma allo stesso tempo era in “comunione” con gli altri; abbiamo scoperto che qualcosa ci univa, ci legava, si intesseva con le nostre vite, e che, maturando, abbiamo individuato come legame spirituale, amicizia, rispetto, amore. Venire al mondo, uscire dal nostro involucro materno, nascere, è stato sicuramente il dono più bello che l’amore potesse riservarci; è stato scoprire il senso della vita, ma è stato anche il momento che ci ha resi però più indifesi, più deboli, perché in quello stesso istante siamo diventati “altri”: ognuno, da solo che era, ha dovuto confrontarsi con tanti altri, ha dovuto cioè “altrificarsi”.
Un fenomeno che, con la crescita, non tutti accettano come dono meraviglioso: per molte persone, infatti sentirsi “altre”, sentirsi cioè diverse - da “di-vertere”, separarsi, seguire vie differenti, avere scopi disuguali - diventa un problema, perché le obbliga ad esporsi, a mettersi in gioco, a combattere, quando invece preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel conformismo, nell'indifferenza, nelle mode. Molte altre invece, vivono al contrario la loro “alterità” come “competizione”, un doversi continuamente confrontare con gli “altri”: la loro vita si trasforma in una “lotta” permanente, impegnata a stabilire la loro superiorità, puntualizzare il loro assolutismo, chiarire che non temono confronti; il che, purtroppo, riduce la loro vita solo ad un affrontarsi, a farsi guerra, a considerare stupidamente l'altro come un nemico, un pericolo incombente per il loro ego smisurato.
Il mondo familiare, il mondo del lavoro, e a volte anche le nostre comunità cristiane, sono purtroppo piene di queste particolari personalità, che vivono in continua tensione nei confronti degli altri, in lotte estremamente feroci, ancorché silenziose, intime, segrete, in cui l’altro è un “nemico” che va costantemente zittito, eliminato, ucciso, certo non fisicamente, ma con le parole, con le insinuazioni, con i “giudizi” taglienti. Giudicare, dal greco “krino”, vuol dire infatti “dividere”, “separare”. Solo che un tale comportamento dimostra chiaramente la totale mancanza di amore sia per gli altri che per sé stessi; colui infatti che si ritiene strutturalmente “diverso, superiore”, non ama, non accetta gli altri, perché non accetta neppure sé stesso, non si ama così com’è, pretende sempre molto di più, è insofferente, intollerante; per cui sparla, trancia giudizi velenosi, riserva solo maldicenze e cattiverie, dimostrando nei fatti la propria nullità esistenziale.
Certo, nei rapporti interpersonali, per vivere l'esperienza trinitaria di reciproche “alterità” che vengono armonizzate in un unico spirito d’amore, c’è ancora molta strada da fare: c’è bisogno soprattutto di tanta umiltà, di tanta pazienza, di tanto rispetto delle identità diverse: perché solo così l'incontro con Dio nella profondità delle anime dei fratelli, riuscirà a fonderci insieme, tramite quell’amore unico, vero, creativo, “oblativo”, che Lui ci ha lasciato in eredità.
Dio è Amore donato: ecco perché anche il nostro amore deve diventare dono, “relazione”: tra noi, i fratelli e Dio, deve pertanto attuarsi una speciale pericoresi trinitaria: vale a dire quella compenetrazione reciproca di tre entità separate e distinte che si offrono, si donano, e si ricevono, confluendo unite nell’amore dell’unico Dio e Padre di tutti.
Inondati dal dono dello Spirito della recente Pentecoste, lasciamoci allora convertire al Dio Trinità, a quel Dio che Gesù ci ha rivelato con la sua stessa vita: quel Dio che ci ha creati “a sua immagine e somiglianza”, imprimendo dentro di noi il suo DNA trinitario, grazie al quale siamo stati pensati fin dall’inizio per vivere appunto in comunione la sua stessa vita d'amore, di fraternità, di condivisione.
Festeggiare la Trinità significa allora riscoprire questo nostro DNA; significa verificare se lo viviamo fedelmente nelle nostre scelte familiari, professionali, vocazionali, in tutte quelle nostre priorità su cui stiamo costruendo faticosamente la nostra vita di cristiani. Amen.