“Àlzati,
prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti
avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo” (Mt
2,13-15.19-23).
Oggi,
festa della Santa Famiglia.
Quando pensiamo alla famiglia di Gesù, siamo portati a pensare ad una minuscola
comunità esente da ogni difficoltà e contrarietà. Di essa ci è stata talvolta
tramandata un’immagine paradisiaca, celestiale. Invece era una famiglia come
tante altre; anzi, a ben vedere, una famiglia con più problemi di tante altre:
una madre rimasta incinta non si sa come; un padre che, dopo la nascita del
figlio, scompare (che fine ha fatto Giuseppe nel vangelo?); un figlio molto
difficile da capire, che finisce col diventare sovversivo e rivoluzionario; una
famiglia, che per sfuggire il pericolo di soccombere, è costretta a scappare, a
fuggire dalla propria terra e a rifugiarsi in Egitto. Beh, se non è “anomala”
questa famiglia, non lo è davvero nessuna!
A volte
si vedono famiglie che dal di fuori sembrano il paradiso in terra, la
perfezione concretizzata. Sembra che tutti si amino, che tutti siano felici,
che tutte le cose vadano per il meglio. Sembra!
Invece
quante difficoltà! Quanti problemi covano sotto l’apparenza esteriore. Quanta
pazienza è necessaria per far quadrare il cerchio! Del resto le difficoltà le
avevano anche Gesù, Maria e Giuseppe, nel piccolo paesino di Nazareth: ed essi erano
veramente santi! Perché allora noi, che non siamo proprio dei santi, dovremmo
esserne esenti?
La
famiglia non è il luogo della perfezione assoluta, dei sorrisi paradisiaci, del
“tutto va sempre bene”; la famiglia è, certamente, il luogo dove possiamo
abbeverarci d’amore; ma sempre di amore umano si tratta; il quale, come
sappiamo, è quello che è, parziale, limitato, mai perfetto, perché legato alla
fragilità umana; anche se è tremendamente bello, intenso, importante, che solo
quando non c’è più, se ne capisce il valore.
Purtroppo
anche se molte famiglie si ritrovano a vivere insieme, anche se siedono sempre
attorno allo stesso tavolo, non sono “famiglia”: c’è infatti la famiglia-autogrill
in cui uno mangia e poi scappa; c’è la famiglia-caserma, in cui uno ordina, uno
comanda, e gli altri devono obbedire; c’è la famiglia-albergo in cui
tutto è perfetto, ordinato, ma dove non c’è vita, non si ride e non si scherza insieme, non
ci si racconta e non ci si ascolta; c’è la famiglia-tv dove il
padre guarda la partita o il telegiornale e tutti gli altri devono stare in silenzio.
Nella
nostra società ci sono molte tipologie di case, molte abitazioni: c’è la
casa al mare, in montagna, all’estero; c’è una “seconda casa” che è il pub,
l’osteria, la piazza, dove quasi sempre non c’è nessuno che ci ascolta, nessuno
con cui ridere, con cui piangere, con cui mostrarsi per quello che si è. Tante
case, tante stanze, tanti locali diversi, tante scelte di vita, ma di “famiglie” vere, ce ne sono ben poche. Molto poche!
Perché non
basta che due individui si mettano insieme, vivano sotto lo stesso tetto, per
essere una “famiglia”. Ci vogliono soprattutto due genitori esperti, maturi, un
padre e una madre consapevoli di affrontare un ruolo estremamente importante.
Ora, se
per i bambini c’è la scuola materna, elementare, media, superiore,
l’università; se per andare in auto c’è l’autoscuola, se per fare un qualsiasi
lavoro (anche l’operatore ecologico o l’assistente domiciliare) ci sono corsi
di formazione specializzati, per chi vuol formare una famiglia, per essere
genitori responsabili, in grado di educare, non esiste purtroppo nessuna
scuola. Eppure ci sarebbe anche per loro una grande necessità di andare a
scuola! Ma chi può insegnare loro? Da chi possono imparare?
Eppure
una famiglia esemplare, una famiglia che può insegnare a tutti, una famiglia
autentica maestra, c’è: è quella che festeggiamo oggi; è quella che, con l’esempio,
ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà, con il comportamento ci ha
indicato quei principi fondamentali che ciascun genitore dovrebbe praticare e
trasmettere ai propri figli: l’amore, la pazienza, l’umiltà, la sopportazione,
la preghiera.
Tutti i genitori, papà e mamme, sono chiamati ad
imparare a questa scuola. Perché una famiglia che non trova in sé stessa entusiasmo,
amore, sopportazione, rispetto reciproco, momenti di crescita spirituale, è
destinata ad appiattirsi, a rinsecchirsi, ad esaurirsi e, prima o poi, a
perdere ogni linfa vitale, a morire. In tale
contesto, il vangelo di oggi ci presenta i primi giorni della vita terrena di
Gesù.
La
storia del piccolo Gesù ci ripropone un po’ quello che, in qualche modo, è il
“destino” di ogni bambino. Ogni bambino ha un suo “Erode”: per crescere deve
soffrire, superare difficoltà, conflitti, umiliazioni. Ogni bambino deve, in
qualche modo, fuggire dalla propria abitazione, da quello che lui è, dalla
profondità del suo essere, ed emigrare, diventare adulto, diventare un altro. E
tutto questo per salvarsi, per affermarsi. Ogni bambino, fortunatamente, ha una
forza interna, la forza del suo voler vivere ad ogni costo, che è più grande di
tutte le forze contrarie, avverse e che gli permette di tornare sempre nella
“sua casa”, nella terra promessa.
Soffocare,
uccidere il bambino che è in noi, è la più grande tragedia della vita, è la vera
strage degli innocenti: perché egli è quella parte di noi che sa stupirsi; che
sa amare pienamente, completamente, sinceramente, che si dà senza trattenere
niente; è la parte di noi che sente, che ascolta, che vive tutto con intensità,
che nel bisogno sa chiedere aiuto, che non si sopravvaluta, che conosce i
propri limiti; ma è anche quella parte di noi che è felice, che danza, che
canta, che ride, che gioca, che si sporca, che si butta per terra, che se ne
frega di cosa dice la gente.
È così
bello lasciarsi andare! Perché è la vita che è bella! Dobbiamo soltanto vincere
la paura del nostro “Erode”: che però, a ben guardare, è lui che ci teme di
più!
La festa
di oggi infatti è anche la paura di Erode per un bambino: che cosa può fargli
un bambino? Eppure Erode è terrorizzato da quel bambino, ha paura a lasciargli
spazio, ha paura che cresca, che prenda forza; ha paura di non saperlo più
controllare. E non sa che quello che lui condanna e cerca di uccidere è,
invece, la sua stessa salvezza, è il suo Salvatore.
La
strage degli innocenti si compie pertanto ogni volta che noi lasciamo morire,
che ci dimentichiamo delle urla, delle violenze, del pianto, della tristezza
del “nostro” bambino: ed altri innocenti (che non c’entrano niente) saranno
costretti a subire la nostra collera, il nostro disagio, la nostra rabbia. E
saranno proprio i nostri figli, i nostri amici, le persone che amiamo, quelli
di cui diciamo: “Con loro sarà diverso!” (e non lo sarà!), che subiranno tutta
la nostra collera, il nostro dolore e il nostro disagio, perpetuando una catena
senza fine.
Guardare
quel nostro “bambino”, è tornare a guardare oltre le nostre deformità, a quando
i mali e i condizionamenti subiti, non avevano ancora segnato il nostro
vissuto. È tornare a vederci come siamo usciti dalle mani di Dio. È poterci
vedere nella nostra unicità, nella nostra bellezza, nel nostro esistere per un
motivo ben preciso. È vedere che veniamo dall’alto, da Dio. È vedere che c’è
una parte di noi che nessun Erode potrà mai distruggere. È trovare la forza, un
punto d’appoggio, per ripartire.
Perché solo
rialzandoci dalle miserie della vita, potremo vederci come Dio ci ha pensato,
prima che il nostro volto si sfigurasse: solo allora potremo vedere la nostra
infinita bellezza, la nostra grandezza e preziosità, e ci sarà chiaro che siamo
angeli, che siamo figli di Dio. Chi riesce a vedere il bambino che egli era,
riesce a capire finalmente cosa vuol dire che Dio si è fatto carne, uomo, in
lui, in noi, in tutti: e lo vede concretamente! Amen.
“Maria,
essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si
trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era
uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in
segreto” (Mt 1,18-24).
Per
Giuseppe non fu sicuramente una notte facile quella! Lui i suoi progetti li
aveva, eccome. Progetti modesti, da giovane artigiano: la bottega andava bene,
merito della sua bravura e della sua affabilità con i clienti. Certo, non era
una gran piazza, Nazareth, ma col tempo, chissà, avrebbe potuto ingrandirsi e,
addirittura, trasferirsi nella vicina Sefforis. Da lì a poco avrebbe preso in
casa la sua promessa sposa Maria, che tutti gli invidiavano per la bellezza e
la modestia innata. Insomma, per Giuseppe, il pensiero di una famiglia con
quella ragazza che gli aveva rapito il cuore, era fonte di gioia incontenibile.
Improvvisamente
però, i progetti di Giuseppe vengono frantumati da un impensabile intervento di
Dio: l’inattesa e impensabile gravidanza di Maria, della quale lui non è
responsabile, lo getta nell’angoscia. Ma come: Maria? Proprio lei? Come è
potuto succedere? Lui è l'unico a sapere che quel figlio non è frutto del suo
seme. L'unico, insieme a Maria. Ed ora, cosa fare?
Non è il
tempo della rabbia, questo, né del piangersi addosso; è il tempo di agire. Consegnarla
alle autorità, abbandonandola al suo destino? Lui sa bene che il destino delle
donne adultere è la pubblica lapidazione. No, non può fare questo.
La notte
sopraggiunta alla tragica notizia, deve essere stata quindi terribile per il povero
Giuseppe: l’ansia che lo tiene sveglio, il rigirarsi continuamente nel
pagliericcio, le orribili visioni del domani che continuano a gettarlo nella
disperazione più cupa. Ha sempre davanti agli occhi il volto sorridente di
Maria: non riesce a capacitarsi, a credere alla realtà, non vuole arrendersi
all'evidenza. Il suo orgoglio di maschio è sicuramente ferito, ma la tenerezza
e le lacrime dell’innamorato hanno ben presto la meglio.
Il suo
cuore improvvisamente si placa quando decide di seguire una soluzione
alternativa: al rabbino avrebbe detto che si è stancato di Maria, che non l’ama
più e che quindi scioglieva il contratto matrimoniale. Maria ne sarebbe uscita
con l'onore compromesso, certo, ma avrebbe avuto la vita salva. Ecco, sì, questa
è una buona idea. Perché Lui amava immensamente la sua giovane promessa sposa.
Il
racconto potrebbe anche concludersi qui e noi potremmo già identificarci nella
nostra vita personale con tutti i sogni infranti da un imprevisto, da una
malattia, da un incidente, da una ingiustizia patita, dalle tante contrarietà che
ci hanno ingiustamente frenato nelle nostre legittime aspirazioni. Parlo
ovviamente non dei piccoli sogni legati a cose materiali, ma penso ai grandi
progetti di vita, alla realizzazione di un futuro familiare e professionale
dignitoso e stabile. Anche nel nostro cammino di fede possiamo a volte
sperimentare impedimenti e disagi, quando pensiamo che Dio si sia allontanato
da noi, e percepiamo la chiesa non come rifugio, ma come un ostacolo, con il
risultato che quanto credevamo importante e fondamentale, ci sfugge e muore.
La
storia di Giuseppe raccontata da Matteo, però, non finisce qui: non termina
nemmeno con il suo proposito di agire nei confronti di Maria con bontà e rettitudine.
Dopo il
dormiveglia tormentato dai dubbi e dall’angoscia, finalmente il sonno arriva:
lo prende sul fare del mattino. Ed è lì che succede: un angelo, materializzatosi
improvvisamente nel sonno, gli parla di una missione da compiere, di un figlio
che avrebbe salvato il mondo, che lui, Giuseppe, non deve preoccuparsi di nulla,
perché questa è la volontà dell’Altissimo. Un sogno strano, dolce, quasi vero.
Maria era sua, era la sua sposa, ma Dio dall’eternità si era innamorato di lei,
e aveva scelto il suo grembo verginale per la nascita del Verbo, suo Figlio.
Nel
sogno Giuseppe tace: è stupito, attonito, senza parole. Poi si sveglia, sereno.
I pensieri bui sono lontani, fuggiti con le tenebre: ora Giuseppe ha riacquistato
tutta la sua forza e il suo entusiasmo: se Maria ha accettato di prestare il
grembo a Dio, lui, Giuseppe, può anche fargli da padre a quel Dio che sarebbe
nato.
Un nuovo
progetto prende forma in Lui proprio dalle rovine del precedente, ormai irreparabilmente
distrutto: Dio lo vuole coinvolgere in una storia che è decisamente superiore
alle sue umane possibilità, una storia che vede come protagonista Maria, la sua
giovane sposa:
Dio vuole
entrare nella storia umana, servendosi della loro collaborazione.
Matteo,
ottimo conoscitore dell’animo umano, ci fa notare che Giuseppe è “giusto”: cioè
irreprensibile, autentico, onesto, un uomo pieno di dignità, non vendicativo;
uno che non giudica secondo le apparenze; che pur ferito come marito, capisce
che Dio, per assumere le sembianze umane, ha scelto Maria, e nella generosità
del suo cuore, lascia prevalere la tenerezza e l’amore per quella sposa che
deve condividere con Lui. È “giusto” perché, mettendosi dalla parte di Dio, si
oppone alla follia dominante e al giudizio di morte della gente. Giuseppe è
“giusto”, come potremmo esserlo tutti noi, se solo sapessimo amare come lui, e
permettessimo umilmente a Dio di disporre di noi secondo la sua volontà.
Cerchiamo
allora di imitarlo: mettiamo da parte la nostra voglia di apparire, coltiviamo
seriamente in noi quelle virtù che devono essere sempre i nostri valori
fondamentali: la mitezza, la bontà, la pazienza, la carità; impariamo a vivere
la chiamata di Dio con il massimo impegno nell’umiltà, nel nascondimento: del
resto, Dio conosce già perfettamente il nostro intimo e tutto quanto ci
riguarda, e non gli serve una campagna pubblicitaria per quel poco che
facciamo; il protagonismo ad ogni costo lasciamolo agli uomini del mondo:
uomini che purtroppo oggi sono sempre più arroganti e ipocriti, gente che urla
soltanto, per imporre il nulla che è in loro.
Di
quanti Giuseppe avrebbe bisogno oggi la società! In politica, negli uffici, in
famiglia, nei rapporti di coppia, nelle comunità religiose: uomini e donne
“giusti”, sui quali Dio può veramente contare, dei quali può fidarsi in tutto,
per realizzare nel mondo i suoi progetti di salvezza!
Ma non
basta. Per far nascere Dio in noi, dobbiamo essere anche dei “sognatori”, gente
che in questo mondo disincantato e cinico, ha il coraggio di credere ancora
negli ideali, nelle promesse di Dio. Come Giuseppe, dobbiamo avere il coraggio
del sogno, di piegare la nostra volontà a quella di Dio che ci chiede di collaborare
al Suo progetto divino di salvare il mondo: un progetto che, dopo il suo
ritorno al Padre, egli ha affidato alla sua Chiesa; un progetto divino che pertanto
ci vede tutti responsabilmente coinvolti, consapevoli che se non sappiamo più
sognare il nostro inserimento in Dio, se non inseguiamo gli ideali che Lui ci
ha lasciato nel Vangelo, se non li ascoltiamo, se non li dimostriamo al mondo
con la nostra vita, finiamo per soffocare lo Spirito di Dio in noi, continuando
a vivere da parassiti, servi inutili, tralci infruttuosi, destinati ad essere
recisi e bruciati.
Viviamo allora
anche noi l’imminente Natale con la stessa fede di Giuseppe: viviamolo coinvolti
come lui, nella sorpresa di un Dio perdutamente innamorato di noi, che non ci
vuole inerti spettatori, pusillanimi e rinunciatari, ma discepoli innamorati in
continua tensione verso il compimento della Sua volontà.
Questo è
il mio cordiale e sincero augurio a tutti voi. Buon Natale.
Amen.
“Sei
tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2-11).
Oggi, la
Parola ci fa incontrare ancora una volta Giovanni: questa volta però è un uomo
ben diverso dall’esaltato e scontroso urlatore del deserto: è in carcere e sa
che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia covata nei suoi
confronti da una isterica cortigiana che manovrava la debolezza di un
re-fantoccio.
Giovanni
ha vissuto tutta la sua vita di predicatore scomodo solo per preparare la
strada al Messia, senza alcun riguardo verso coloro che vivevano nel peccato e
nel vizio; e quando lo ha finalmente riconosciuto, il Messia, nascosto tra la
folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare, lo ha accolto schernendosi,
riconoscendo in lui il “potente” che dopo di lui avrebbe battezzato non con
l’acqua ma con lo Spirito santo e fuoco; in cuor suo però era rimasto stupito, confuso
per l'atteggiamento riservato e umile, con cui si era presentato colui che
doveva essere il Salvatore del mondo.
Ora,
nella solitudine del carcere, Giovanni è perplesso; pensa, è dubbioso. Le
notizie che i suoi inviati gli riportano non fanno che accrescere le sue perplessità,
lasciandolo costernato: il Messia non si sta comportando come un condottiero,
un capo del popolo, non incita con veemenza la gente, non è rivoluzionario né
tantomeno catastrofico, non annuncia l’imminente giudizio di Dio, non minaccia
la sua vendetta con il fuoco divorante. Gesù, al contrario, continuando nel suo
profilo basso, semplice, suadente: offre perdono incondizionato a tutti,
rimette le colpe, non minaccia né attua vendette, dice che quel “fuoco divorante”
Lui lo vuole accendere, certo, ma partendo dall'amore, non dal terrore. È insomma
un Messia troppo dissimile da quello che Giovanni e Israele si aspettavano, è un
personaggio completamente fuori schema, fuori da ogni loro sospirata previsione.
Del
resto Dio spiazza sempre tutti: anche quelle persone che, come Giovanni, vivono
la radicalità della fede, rischiando di costruirsi un Dio a propria immagine e
somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni si aspetta, è una venuta plateale,
una irruzione nella storia con un frastuono assordante, accompagnata da schiere
di angeli trionfanti. Gesù, invece, è solo; ci svela il volto di un Dio
riservato, quasi nascosto: evidente, certo, ma pieno di ogni tenerezza e
sensibilità, in ogni caso mai in maniera banale.
Gesù
praticamente ci svela un Dio che divide il mondo in chi ama, o cerca di amare,
o almeno si lascia amare, e chi no, in chi cioè gli volta le spalle. L'amore è
una possibilità immensa, è l'unica cosa che ci lega tutti. Non i risultati, non
gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare, nella
fragilità di ciò che siamo o che ci impegniamo di essere.
Ma noi,
dal canto nostro, siamo certi di Dio? Riprendiamo allora in mano il Vangelo e
chiediamo a Dio, nella preghiera, di condurci sempre per mano nella nostra autenticità.
Siamo sempre pieni di dubbi? Consoliamoci, non siamo i soli: anche il più
grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi.
“Andate
e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…” replica Gesù ai discepoli che il
Battista aveva inviato per informarsi sulla sua identità; non dà loro una
risposta esauriente. Devono trarla da soli. La fede non richiede l’evidenza, non
necessita di “prove certe”, Dio non è il risultato di un teorema scientifico,
con buona pace di quei simpaticoni, che pretendono di vedere l’anima nelle
radiografie! Ci vengono offerti degli indizi, solo deboli indizi che lasciano
intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, siamo noi
che dobbiamo trovarlo, accantonando le nostre ideologie, prendendo coscienza e
conoscenza di noi stessi e del Dio che abita in noi.
“Guardati
intorno, Giovanni”, è in pratica l’incoraggiamento di Gesù a suo cugino, dopo
avergli elencato i grandi segni messianici profetizzati al popolo da Isaia.
Ecco, questo è il punto: per riconoscere
i segni della presenza di Dio, dobbiamo anche noi “guardarci intorno”: renderci
conto di quante persone nel mondo hanno incontrato Dio, e continuano ad
incontrarlo: magari gente disperata, che trovandolo, ha dato un senso alla loro
vita, convertendo il proprio cuore; persone straziate dal dolore, arrabbiate
con Dio, che hanno imparato grazie a Lui, a perdonare; persone accecate
dall'invidia o dalla cupidigia che con Lui hanno messo le ali, trasformandosi
in gioia, in bontà, in amore quotidiano, in donazione di sé stessi! Dobbiamo
guardare anche noi, come Giovanni, quelli che sono i segni della vittoria
silenziosa del Messia, la forza dirompente del Vangelo
sulle persone che cambiano, che guariscono, che scoprono Dio, potendo così ammirare,
nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto, gesti di totale gratuità, vite
consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in deserti di
solitudine e di egoismo.
Dobbiamo
guardare e riconoscere in questi segni la presenza del Regno di Dio.
Purtroppo
spesso non li vediamo, non ce ne rendiamo conto, non li vogliamo vedere, non li
possiamo vedere, perché il problema tragico del nostro tempo è proprio quella cecità
interiore che impedisce di vedere, di toccare con mano la presenza di Dio,
nascosta, silenziosa, ma decisamente reale e concreta, in tutto ciò che ci
circonda.
Quante
sfumature della natura i nostri occhi, ispessiti dall’egoismo, non riescono a
cogliere! Meraviglie che ci lasciano indifferenti, che non ci colpiscono, non
ci stupiscono! Se la folgorante luce di Cristo non ci illumina l’anima e il
cuore, nulla purtroppo di ciò che vediamo potrà mai estasiarci. Senza di Lui rimaniamo
solo tanti ciechi famelici. Qualunque cosa guardiamo, la sviliamo, la insudiciamo;
la osserviamo, ma solo per desiderarla, per prenderla, per possederla. Guardiamo,
scrutiamo, ma non “vediamo”!
“I ciechi riacquistano la vista”:
chi invece incontra Dio, vede,
ammira, apprezza e gusta tutto, senza pretendere di possedere nulla. Si sazia e
si disseta con ciò che ammira, senza calpestare niente e nessuno; entra nei
cuori e nei volti dei fratelli, come un raggio di sole che penetra nelle case
attraverso i vetri: lo fa gradualmente, con rispetto, con dolcezza. Entra e non
si impadronisce di nulla, non sporca, non crea disordine, non rovina nulla.
Entra ed esce delicatamente, senza alterare o sconvolgere nulla.
Prepararsi
al Natale significa, allora, modificare il nostro sguardo, far constatare ai
tanti distratti, a noi ovviamente per primi, che il Regno avanza, è presente,
che tutti possiamo renderlo presente, contribuire a realizzarlo. Impariamo
tutti a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dalla
nostra indifferenza, dal nostro dolore, per accorgerci della presenza e della salvezza
di Dio, che si attua continuamente nelle nostre soffocate città.
In
questa manciata di giorni che mancano al Natale, diventiamo anche noi segno di
speranza per quanti a Natale si sentono abbandonati, soli, dimenticati! Pochi
giorni per assicurare chi non sa se Dio c'è, e si chiede se anche il Nazareno,
in fondo, non sia che un grande inganno, che Dio c'è, che è amore: diciamo loro
come Dio abbia cambiato la nostra vita, come ci abbia soccorso nel dolore e
nelle prove della vita. Perché Dio c’è veramente! Ecco, sia questa la nostra
prospettiva, in un mondo che si dibatte tra problemi irrisolti, ipotesi
strampalate, dubbi laceranti, dilaganti incertezze. Domandiamoci, come singoli
credenti e come Chiesa, se siamo la risposta vivente alle domande profonde e
incalzanti di tante persone che si dibattono nel buio; domandiamoci se siamo
veramente quella risposta, che si trasforma in offerta di solidarietà, in atteggiamento
di ascolto, in annuncio di speranza... Amen.
“Rallegrati,
piena di grazia: il Signore è con te” (Lc 1,26-38)
Un
angelo, un messaggero di Dio, si presenta in una casupola, meglio una grotta,
situata tra le montagne della sperduta Galilea, abitata da un’umile e povera
ragazza. E proprio qui la Parola di Dio, pur incomprensibile e inspiegabile,
trova da parte della fanciulla la massima accoglienza.
Dio
aveva già inviato il suo portavoce in una precedente occasione: nella religiosissima
Giudea, nella civilissima e celebre Gerusalemme; e lo aveva mandato da un
sacerdote del Tempio, Zaccaria, un “giusto”, un addetto alle cerimonie
sacrificali, uno che era in costante contatto col “divino”. Solo che quel
giusto, quel sacerdote, non gli aveva creduto, gli aveva argomentato che il
messaggio recapitatogli, vista la situazione, non poteva essere altro che una “fandonia”.
Un sacerdote che non crede, però, non ha nulla da dire al popolo: dice magari
tante parole, racconta un sacco di cose, ma non trasmette nulla, non è un
portavoce (pro-feta) di Dio. Per questo, Dio lo ha reso muto. Eppure, ciò che
Dio attraverso il suo angelo gli proponeva, non doveva poi suonargli tanto
strano, visto che lui era uno che conosceva molto bene la Bibbia: tante altre
volte, infatti, Dio aveva fatto nascere figli da donne sterili: per esempio
Sara, prima di avere Isacco, era sterile; Rebecca prima di avere Esaù e
Giacobbe era sterile; i loro mariti erano Abramo e Isacco, personaggi
famosissimi. Anche la madre di Sansone era sterile; anche Anna, Michal, la
donna Shunammita, ecc. Perché non poteva succedere anche a sua moglie Elisabetta?
Zaccaria insomma era un sant’uomo, uno che sapeva tutto di Dio, ma che, in
pratica, non “aveva” Dio. E a volte il troppo nasconde proprio l'insufficienza: uno
cerca di sapere tutto, proprio perché non “possiede” ciò che cerca: e non
“possiede” perché cerca con la mente ciò che invece va cercato con il cuore e
con l’anima.
Dunque:
dopo aver fallito il primo tentativo (con Zaccaria), l’angelo Gabriele ci
riprova. Ma questa volta fa tutto in maniera completamente diversa. Prima era
andato nella Giudea, terra santa e fedele a Dio, protagonista della storia
della salvezza; ora va in Galilea, regione del nord, dove la popolazione si è
mescolata con i pagani; una regione marchiata dal profeta Isaia come “Terra
pagana”. Giuseppe Flavio, storico del tempo, aggiunge che i galilei
erano persone litigiose, piantagrane; erano i poveri, i diseredati del tempo,
i braccianti dell’epoca, sfruttati dai latifondisti della Giudea, e per questo
continuamente in ebollizione, in rivoluzione. Al punto da far esclamare
Natanaele: “Cosa può venire mai di buono da Nazaret?” (Gv 1,46). Erano insomma considerati degli incivili, abitavano in case per la maggior parte ricavate in
caverne, nelle grotte; gente che era meglio lasciar perdere.
In stridente contrasto
con le pietre preziose, con la sontuosità e lo splendore del tempio, questa
volta l’angelo entra in una misera casupola, in parte ricavata dalla roccia,
con delle mura fatiscenti. Prima da un uomo e adesso da una ragazza, da una
donna: cosa riprovevole, una bestemmia, un’eresia. La nascita di una donna
infatti era considerata una disgrazia, una punizione lanciata da Dio contro
determinati peccati; la nascita di una bambina veniva vista come un fastidio. Le donne
non avevano nessun diritto, erano impure, e per giustificare questo si chiamava
in causa la Bibbia. Quindi, che Dio si potesse rivolgere ad una donna era
totalmente impensabile, fuori da ogni ragionamento.
Ma ciò
che è assurdo per gli uomini non lo è affatto per Dio! Dio non guarda ciò che
guarda l’uomo. Cosa fa allora l’angelo Gabriele?
«Nel
sesto mese...». I numeri per la Bibbia hanno sempre un valore ben definito.
Per esempio nella creazione, Dio ha lavorato per sei giorni: il settimo l’ha
riservato a sé stesso: dopo i sei giorni è arrivato quindi il giorno
di Dio, un evento divino, un incontro con Dio. Per cui quando Luca scrive
qui “nel sesto mese” lascia già capire che più tardi arriverà qualcosa
di soprannaturale, di divino.
E da chi
va Gabriele? Da una donna, promessa sposa, che si chiama Maria. Luca inserisce
volutamente il nome; ora, per noi, “Maria” è un nome soave; ma di certo non lo
era a quel tempo: nella Bibbia esiste una sola Maria, la sorella di Mosè; una
donna molto ambiziosa, che aveva cercato di fare le scarpe al fratello Mosè.
Per questo Dio la maledisse con la lebbra (la lebbra era la maledizione di
Dio). Dopo quella Maria nessuna più si chiamerà con quel nome fino alla madre
di Gesù. Perché? Perché era un nome maledetto, oggetto di maledizione. Nessuno
di noi metterebbe nome a suo figlio “Giuda”, un nome che si collega ad un
traditore. Così era per Maria.
Quando
l’angelo entra le dice: «Ti saluto o piena di grazia»: “Kecaritwmnj”, “riempita di grazia”; non si
riferisce alla bravura di Maria, ai suoi meriti, al fatto che nessuna donna era
brava quanto lei. No! Si riferisce all’azione di Dio. Lei è niente
(Galilea, Nazareth, donna, Maria, ecc.) eppure Dio, di sua iniziativa, gratuitamente
la riempie, la colma. Questa è la grandezza di Maria: Maria è grande non perché
era santa o perfetta (come viene descritta in certe litanie) ma perché è la
prima ad accogliere senza pretese l’amore gratuito di Dio.
Mentre
Zaccaria e i sacerdoti del Tempio volevano conquistarsi l’amore di Dio
con le preghiere, i riti e la santità, Maria non fa nient’altro che dirgli:
“Sì”. Perché l’amore di Dio è immeritato, è sempre gratuito.
L’angelo
poi le dice: «Concepirai un figlio, lo darai alla luce, e lo chiamerai Gesù».
Ma le donne ebree non potevano mai mettere il nome ai figli: erano sempre e
solo i padri che lo facevano! Questa volta però sta succedendo veramente
qualcosa di straordinario: Dio rompe completamente con ogni tradizione
precedente, inizia un nuovo corso, qualcosa di completamente nuovo.
È Dio infatti
che si manifesta come il totalmente nuovo: nessuno lo può controllare,
nessuno può chiedergli spiegazioni, rassicurazioni, perché nessuno conosce
questo “nuovo”. Qual è allora l’unica cosa da dire? La stessa di Maria:
“Non so dove, non so come, non so perché, non so quando, ma mi fido di te”.
Tutto qui.
E Maria
risponde all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo!». Zaccaria era
stato incredulo, Maria no. Lei vuole soltanto sapere il come, come avverrà
tutto questo. In passato qualcuno, appellandosi proprio a questa frase,
affermava che Maria avesse fatto voto di verginità. Ma questa cosa è
impossibile per il mondo ebraico. Noi invece sappiamo perché Maria ha delle
perplessità: perché era nella prima fase del suo matrimonio: era cioè
fidanzata, già sposata, ma non ancora convivente: oltretutto risultare incinta
in quel periodo, significava condanna e morte sicura.
E
l’angelo spiega: «Lo Spirito Santo scenderà su di te». Emblematica
questa frase; Luca mette qui in parallelo la discesa dello Spirito Santo su
Maria, con la discesa dello Spirito Santo sulla prima chiesa. E chi è presente
ora, come anche allora? Sempre Maria (At 1,14)!
Per il
vangelo, dunque, Maria è la donna dello Spirito, è colei che vive, dall’inizio
alla fine, guidata sempre dallo Spirito. Lui la guida e lei lo segue.
«Sono
la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». I “servi del
Signore”, nella Bibbia, sono quelli che hanno obbedito ai comandi di Dio e
che lo hanno seguito. Maria è l’ultima serva del Signore. È colei che
chiude un tempo: dopo di lei nessuno sarà più “servo”, ma soltanto “figlio”.
Maria quindi affida all’angelo il
suo “Sì” da riferire a Dio; anche se non sa esattamente a cosa dice sì; il suo
è un sì totalmente nuovo, totalmente diverso da ciò che lei poteva pensare e
capire. Ma apre comunque il suo cuore, offre la sua piena disponibilità. Perché
Lei si fida di Dio. È per questo che apre un tempo nuovo, un nuovo corso
storico: il tempo della fiducia. “Mi fido di te”. Essere uomini e donne
“dello Spirito”, vuol dire appunto fidarsi di Dio: significa rispondere
ad ogni sua chiamata con un “Sì” pieno e generoso.
Al contrario noi ci chiudiamo
ermeticamente, recalcitriamo, dubitiamo, non ci fidiamo: siamo diffidenti
perché guardiamo solo a noi stessi e non a Lui. Non vorremmo avere problemi: ma
i problemi li troviamo, e numerosi anche, se continuiamo ad assecondare il
nostro egoismo, se ascoltiamo solo noi stessi. Per questo dobbiamo rinforzare la
nostra fede. Perché solo una fede sincera, disinteressata, umile, potrà far
sgorgare, dal profondo del cuore, il nostro “si” a Dio: “Sì, Signore, mi fido
di te!”. Sull’esempio di Maria. Amen.