«Quando furono compiuti i giorni
della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il
bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore…» (Lc 2,22-40).
La Famiglia
che festeggiamo oggi è una famiglia unica, irripetibile; “sacra”, perché
composta da un figlio, Gesù Cristo, Figlio di Dio; da una madre, Maria, la
tutta pura, santa ed immacolata; da un padre, Giuseppe, sposo castissimo e padre
“putativo-adottivo” di Gesù. Tre
persone sante, a vario grado, che compongono appunto questa famiglia esemplare,
a cui devono guardare e ispirarsi tutte le famiglie del mondo.
Il
Vangelo di Luca, che la liturgia ci propone oggi, è piuttosto scarno di
particolari sul ménage familiare di queste persone. In particolare non fa alcun
cenno sui loro sentimenti reciproci; anzi ignora completamente la figura di
Giuseppe; non spende una parola sulla loro vita di coppia; né tantomeno sul
loro stato d’animo, sulle loro inevitabili reazioni emotive in seguito a tutte
le recenti vicende che li avevano visti protagonisti.
L’unica cosa
che a Luca interessa evidenziare è la loro scrupolosa fedeltà alle tradizioni,
alle prescrizioni legali della loro religione; in altre parole a Luca interessa
dimostrare soprattutto il rapporto imprescindibile che questi due sposi
intrattengono con Dio, unico ispiratore della loro vita, centro assoluto della
loro famiglia.
Il testo
infatti ci racconta i particolari della presentazione al tempio di Gesù, un
rito della legge mosaica, che completava tutti gli obblighi religiosi previsti per
la nascita di un primogenito maschio.
A Luca dunque,
i sentimenti personali di Maria e Giuseppe, non interessano: leggendo infatti il
testo, si ha l’impressione che i fatti straordinari della nascita del loro
figlio, in situazioni estremamente precarie, la stalla, il coro degli angeli, i
pastori che accorrono, tutto quello insomma che era successo soltanto pochi
giorni prima, fosse già completamente dimenticato. Che tutto fosse rientrato
nella normalità: cose passate, inutile parlarne.
Ma possibile
che non si siano ancora resi conto della vera identità di quel loro Figlio? Possibile
che Maria non abbia ancora capito, o abbia dimenticato, le parole dell’angelo? Sembra
proprio di si! Infatti cosa fanno? Assolutamente nulla di straordinario: siccome
erano stati educati ad obbedire alla Legge, siccome era tradizione che tutti facessero
così, anch’essi continuano a fare così. Portano cioè Gesù, Colui che è venuto a
rompere con la tradizione e con il passato, a sottomettersi alla tradizione
antica, a diventare figlio di Abramo secondo la legge di Mosè! Otto giorni dopo
la nascita e la prevista circoncisione, Lo portano cioè nel tempio, per “presentarlo”
al Signore. Un atto che consisteva nel riconoscimento formale della sua appartenenza
a Dio, e nel suo riscatto mediante l’offerta di una coppia di tortore o di due giovani colombe. Punto.
Maria e
Giuseppe eseguono a puntino tutto quanto previsto dalla loro legge religiosa. E
Luca sottolinea questo particolare, nominando per ben cinque volte proprio la
parola “Legge” (2,22.23.24.27.39). Quasi
a sottolineare l’impossibilità di sottrarsi alle usanze, ai costumi, alle tradizioni.
È infatti estremamente difficile buttarsi tutto alle spalle per seguire una
nuova strada suggerita dal cuore. È difficile dar voce al nuovo che si agita dentro;
è difficile prendersi le responsabilità delle proprie scelte; è difficile
staccarsi da ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, da quello che si è
sempre fatto, da ciò che tutti fanno. Questo è un dato di fatto.
Anche
Giuseppe e Maria, nonostante le recenti traumatiche esperienze, si sono
adeguati, sottoponendo il loro primogenito ad un rito oltretutto immotivato e
inutile: perché non c’era bisogno di offrire a Dio “quel” primogenito: era già
di Dio, lui stesso era Dio. Né Maria, Madre immacolata, aveva alcunché di cui
purificarsi.
Perché
allora Luca descrive proprio questi adempimenti nel tempio? Forse non tanto per
la loro effettiva importanza, quanto perché gli offrivano l’opportunità di
introdurre qui l’incontro con due personaggi singolari: “un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la
consolazione d’Israele” e una donna molto anziana, Anna, la quale, da
quando era rimasta vedova, “non si
allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e
preghiere”. Un incontro straordinario, perché entrambi questi personaggi
sanciscono pubblicamente la vera identità del bambino: identificano cioè in
Gesù il Cristo, il Messia annunciato dai profeti come il riscattatore, il
liberatore, il redentore, il salvatore del popolo. Anzi, specificherà Simeone, quel
bimbo sarà la salvezza non solo del popolo di Israele, ma di tutti i popoli, del
mondo intero, superando così una volta per tutte l’ottica nazionalistica di
quanti pensavano Dio come proprietà esclusiva di Israele. Un grande futuro
dunque: ma che comporterà anche seri problemi e dolori, poiché la sua persona
sarà inevitabilmente “segno di
contraddizione”. Che voleva dire? Il senso è chiaro alla luce delle
successive vicende a noi ben note: già dalla persecuzione di Erode, con la
conseguente fuga in Egitto, e poi via via durante tutta la sua vita pubblica,
sino alla conclusione tragica e gloriosa sul Golgota, Gesù ha portato ogni
singolo uomo a prendere nei suoi confronti una posizione netta: stare con Lui o
contro di Lui. Una situazione difficile che avrebbe procurato alla madre,
costantemente al suo fianco, inevitabili strazianti dolori: “a te una spada trafiggerà l’anima”.
Seguire
Gesù non è mai indolore. Non è come camminare su un bel sentiero pianeggiante,
all’ombra, con fontanelle d’acqua e panchine su cui riposarsi, uccellini, sole:
un semplice “vogliamoci bene e amiamoci” e tutto va avanti da solo, alla
meraviglia. Nossignori: Gesù ci pone di fronte a scelte difficili, a dei bivi
inevitabili, a delle rotture spesso dolorosissime; ci mette di fronte a noi
stessi, davanti a verità dure e radicali, che non ammettono vie di fuga. Seguire
Gesù è un cammino progressivo di liberazione, di guarigione, di apertura, di
smascheramento di noi stessi. Egli non ci lascia sonnecchiare tranquilli: è un aut-aut:
il suo vangelo è vita per alcuni, morte per altri.
Maria,
la madre di questa famigliola santa, ascolta anche se non ha neppure la più
pallida idea di cosa vogliano dire le parole di Simeone. Maria non è una
profetessa, non è una donna onnisciente, a conoscenza di quanto doveva dire e
fare, in diretto collegamento col padreterno. Anzi, Maria e Giuseppe non
capivano assolutamente nulla di quanto veniva detto nei confronti del loro
figlio: “si stupivano profondamente”.
Maria, è vero, aveva accolto il messaggio di Dio (“Avvenga di me secondo la tua parola”), ma non immaginava certo cosa
sarebbe poi successo, quanto le sarebbe costato, e soprattutto dove tutto
questo avrebbe portato lei e Giuseppe. Maria non capì quel che le stava
accadendo. Maria non capì neppure suo figlio Gesù: semplicemente lo seguì. Questo
è stato il suo grande merito: da madre, diventare umile discepola di suo
figlio. Si è cioè fidata ciecamente di lui.
La
pagina evangelica si conclude infine offrendoci poche pennellate di vita di
questa straordinaria famigliola: poche parole che giustificano la scelta di questo
testo di Luca proprio nella festa dedicata alla sacra Famiglia: “Fecero ritorno in Galilea, alla loro città
di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la
grazia di Dio era su di lui”.
Vorremmo
certamente saperne di più; ma questo è sufficiente per delinearne una chiara fisionomia:
anche se per ovvi motivi è definita straordinaria, dobbiamo tuttavia immaginare
quella di Gesù, Maria e Giuseppe, una famiglia tutto sommato come tutte, con le
sue gioie, i suoi dolori, i suoi segreti: una famiglia che ha vissuto di fede, che
ha provato la gioia della nascita di un figlio, di vederlo crescere sano e
forte, costretta a fare i conti con le problematiche di un futuro difficile.
In tutte
le famiglie infatti non sempre gli anni scorrono tranquilli: prima o poi si
affacciano problemi, sofferenze, preoccupazioni; tanto più dolorosi se
provocati dalla mancanza di amore.
Ebbene:
la famiglia di Nazaret ci prospetta l’unica strada da seguire, quella giusta, quella
cioè di fare ogni cosa “secondo la legge
del Signore”.
Certo
imitare il ménage familiare di Gesù, Giuseppe e Maria, non è sicuramente
impresa facile, ma uno sforzo si impone a tutti noi che ci professiamo
“cristiani”.
In
proposito gli altri testi della Parola di Dio, scelti dalla liturgia odierna,
ci porgono una mano, offrendo alla nostra attenzione uno stile comportamentale che
deve essere la base solida su cui costruire una sana convivenza. Dice infatti il
Siracide: “Il Signore vuole che il padre
sia onorato dai figli. Chi onora il padre espia i peccati; chi onora la madre è
come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà
esaudito nel giorno della sua preghiera. Figlio, soccorri tuo padre nella
vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno,
compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore. Poiché la pietà
verso il padre non sarà dimenticata, ti sarà computata a sconto dei peccati”. Ma
anche e soprattutto le parole di Paolo mettono in risalto l’esperienza positiva
di una vita famigliare fondata sui valori dell’amore e della comprensione: “Fratelli, rivestitevi di sentimenti di
misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi
a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi
nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi.
Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E
la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati
in un solo corpo. E siate riconoscenti! Voi mogli,
state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le
vostre mogli e non inaspritevi con esse. Voi, figli, obbedite ai genitori in
tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli,
perché non si scoraggino” (Col 3,12-21).
Sono parole
che meritano tutta la nostra attenzione e la nostra riflessione. Sì, perché di
fronte alla crisi irreversibile della famiglia dei nostri giorni, di fronte allo
sforzo satanico della nostra società che pretende di distruggere
definitivamente il concetto stesso di “famiglia”, noi dobbiamo guardare in
maniera seria e sistematica alla Famiglia di Nazareth, vera sorgente spirituale
di ogni famiglia cristiana. Una famiglia che con il suo esempio ci permette un
positivo recupero in termini di slancio, fiducia, dialogo, amore, perdono e
tolleranza. Inoltre la presenza di Cristo in essa, è certezza e garanzia della
sua stessa presenza in tutte le nostre famiglie, a condizione ovviamente che
ciascun componente gli apra le porte del suo cuore; perché se vogliamo continuare
sulla strada di una vera, irrinunciabile felicità familiare, abbiamo bisogno di
un costante colloquio interiore con il Signore. Amen.