mercoledì 27 novembre 2024

01 Dicembre 2024 – I DOMENICA DI AVVENTO


Lc 21,25-28.34-36 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina». «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

Inizia il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e ci prepara al Natale.
Sul piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita” possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. ciò non deve limitarsi ad un dato semplicemente rituale, cronologico, tradizionale, ma deve costituire per noi un fatto concreto, una realtà, un progetto che prende vita: Dio continua a nascere dove trova spazio e disponibilità. Ecco allora che l’avvento non dev’essere tanto un periodo dell’anno liturgico, ma uno stile di vita: la certezza che una nuova nascita sta per avvenire in noi. Dio, con la sua venuta, vuole sorprenderci, vuole meravigliarci, vuole portarci lontano, molto lontano, dalle nostre angosciose, dalle nostre derive di insicurezza.
Questo vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche Luca, l’evangelista scelto per il ciclo liturgico di quest’anno, usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche Lui ne descrive il ritorno su questa terra, in maniera apocalittica, alla fine del mondo.
Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo”?
Il termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele 7,13-14, in cui ad un “figlio d’uomo” viene conferito dal “Vegliardo-Dio”, potere, gloria e regno.
Applicandolo a sé stesso, alla sua persona divino-umana, Gesù ha voluto spostare l’attenzione dei contemporanei dall'immagine di un Messia autorevole e glorioso, come lo intendevano gli Ebrei, a quella di un Messia più umano, un “ben adam” (un figlio d’uomo) umile e sofferente, come quel “servo di Jahweh” di Isaia, immagine che meglio lo descrive nella sua missione redentrice del genere umano: rifiutato dai suoi contemporanei, rivendicava comunque per sé una prossima gloriosa rivincita sulla morte (Risurrezione) un suo rientro presso la maestà del Padre (Ascensione) e un suo ritorno nella potenza e nella gloria alla fine dei tempi (Giudizio universale).
Un termine, “figlio d’uomo”, che delinea un programma di vita anche per quanti aspirano a seguire le sue orme: mantenere un atteggiamento da “figli d’uomo” dev’essere infatti l’aspirazione di tutti noi, “uomini comuni”, ai quali con il battesimo è stata conferita una personale missione da compiere. Tutti noi siamo chiamati, infatti, a vivere qualcosa di grande, a dare alla nostra vita un significato più profondo e meritorio sia per noi che per il mondo.
Anche questo, però, come qualunque altro obiettivo vero, grande, potente, ha un suo costo impegnativo: la vita stessa di Gesù non è stata priva di sconvolgimenti, di ore di “angoscia”, di tradimenti, di sofferenze mortali: al punto che noi, figli d’uomo ben più fragili, guardando questa nostra investitura nella prospettiva delle difficoltà, dei pericoli, degli obblighi, del nostro personale esporci, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se pensiamo alla gloria, all’Amore, alla dignità divina cui siamo chiamati a condividere con Dio nel suo Regno, allora capiamo che nessuna contrarietà può distoglierci, che qualunque ostacolo diventa superabile. Perché lo scopo primario della nostra vita è meritare quaggiù ciò che potremo vivere in Cielo.
Certo, non è impresa semplice: dobbiamo evitare soprattutto di “addormentarci” sulle difficoltà, sulle fatiche, sulle contrarietà, che sono inevitabili.
Alcune persone dicono di star male, di soffrire tanto, di sentirsi vittime della loro vita. Ma in realtà dimostrano di trovarsi molto a loro agio, non muovono un dito per uscirne, per cambiare, per migliorare. Preferiscono continuare a dormire, auto giustificandosi con i vari “non ho tempo; è difficile, è troppo impegnativo”.
Altri, invece, impostano il loro cambiamento buttandosi a capofitto in mille iniziative: frequentano in parrocchia qualunque riunione, ogni incontro di spiritualità; sono onnipresenti, super impegnati, senza tregua: ma se si fermano un solo istante per guardarsi dentro, scoprono loro malgrado di essere sempre fermi al punto iniziale, non fanno un passo in avanti. Tutta la loro iperattività risulta completamente inutile, è come se dormissero profondamente.
A volte, purtroppo, i percorsi spirituali diventano una droga: ne facciamo tanti, troppi, ci muoviamo in ogni dove, pensando erroneamente di avere in questo modo maggiori possibilità per migliorare. Succede invece, paradossalmente, che queste iniziative individuali, frequentate al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo miglioramento, sono in realtà delle vie di fuga dalle nostre responsabilità, diventano un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle nostre comunità: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di “formazione” in un’altra sede, in quel Centro di spiritualità, al quale non posso mancare! E poi, diciamocelo francamente: quanto facciamo qui è troppo elementare, è poco istruttivo, non mi attira, non vedo “carismi” particolari, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli più impegnativi, più avanzati! Sento di poter incontrare Dio solo in quelle specifiche realtà”.
Quanto ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella città, in quella piccola porzione di Chiesa, in cui Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo nostro”, seguendo le “nostre” ispirazioni, non significa essere svegli, vigilanti; non vuol dire vivere nella giusta attesa della venuta di Dio, ma nell’attesa umana di auto-esibirci.
Per questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).
Il vegliare, lo stare vigili, il non “dormire”, è il presupposto per poter esprimere una preghiera attenta e gradita a Dio. Il verbo “pregare”, in greco “deomai”, significa pure “aver bisogno, necessitare, desiderare”: quindi noi, oltre che di pregare, abbiamo anche un “bisogno” vitale di stare svegli, di impedire al nostro cuore di prendere sonno e non provare più la gioia di sentirci figli, di chiamare Dio Padre nostro, di godere delle cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per la nostra “casa”, il luogo dove Dio ci ha chiamati; dobbiamo evitare che la nostra anima, stanca di cercare Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire più la Sua voce proprio là dove Lui ci ha chiamati e dove Lui si aspetta l’impegno laborioso della nostra risposta.
Non permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”, da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, rimaniamo nella nostra normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, tra i nostri fratelli più vicini. Perché quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro per chiederci quanto conosciamo di Lui, quanto abbiamo studiato per capirlo, quanto lo abbiamo cercato di qua o di là al seguito dei troppi pseudo-santoni; più semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in “casa nostra”, nella nostra comunità, a beneficio del prossimo; su quanto insomma siamo stati attivi nel conoscere, amare, servire Lui, attraverso i nostri fratelli, proprio in quell’angolo di mondo in cui Lui ci ha chiamato. Amen.



venerdì 22 novembre 2024

24 Novembre 2024 – SOLENNITÀ DI CRISTO RE DELL’UNIVERSO


Gv 18,33-37 

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Siamo arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico. Con domenica prossima entreremo nel tempo di Avvento. Oggi la liturgia celebra la festa di Gesù Cristo Re dell’universo, e il vangelo ci presenta il dialogo tra Pilato e Gesù. Siamo durante la Passione: Gesù è già stato catturato e si trova nel pretorio davanti a Pilato.
Pilato è il governatore della Palestina: un procuratore romano brutale, sanguinario, ci dicono gli storici. Il numero di persone che faceva uccidere e crocifiggere era così rilevante, che ad un certo punto Roma dovette richiamarlo!
Nella sua carriera politico militare in Palestina, ne aveva visti tanti di pazzi ed esaltati, ma l'uomo che gli hanno appena consegnato, e che ora gli sta davanti, è davvero singolare, unico: si definisce re!
A Pilato non interessa per nulla la questione di Gesù: gli hanno rifilato questo problema da risolvere, e lui cerca di uscirne senza troppi grattacapi: un caso di nessuna importanza, che però doveva trattare con attenzione per non alterare i già delicati equilibri diplomatici con i focosi ebrei.
Durante la scena del processo, così come descritta dai vangeli, c’è un particolare che va sottolineato: Pilato cioè continua ad entrare e ad uscire: entra nel palazzo, dove c’è Gesù, ed esce davanti alla folla. Da un lato è attratto da Gesù (entra), perché ne sente la verità e la bellezza, ma dall'altro teme i Giudei (esce); teme le conseguenze, teme di perdere l'immagine e il potere che ha. Il dubbio, l'inquietudine, sono il tormento di questo uomo, perenne  indeciso.
Un po’ come noi, gli eterni indecisi: sentiamo la bellezza di un percorso, intuiamo il fascino della meta, ma sappiamo che, seguirlo, significa abbandonare le nostre sicurezze, le nostre abitudini: sentiamo la verità di una cosa, ma sappiamo che aderirvi significa diventare impopolari; sentiamo la passione per qualcosa di “nostro”, ma seguirla vorrebbe dire cambiare vita; sentiamo che dovremmo cedere su certe posizioni, ma temiamo di soffrire o di vergognarci; sentiamo che dovremmo porci dei limiti, porci dei paletti, ma ne temiamo le conseguenze.
Insomma, di fronte ad ogni situazione impegnativa, ci comportiamo esattamente come Pilato, che, come ci dice il vangelo, “se ne uscì”; preferì non decidere, preferì rimanerne fuori, non farsi coinvolgere. Qualunque fosse stata la sua scelta, avrebbe avuto troppo da perdere.
E noi? Esattamente come lui! Ci barcameniamo, preferiamo tenere il piede su due staffe.
Al che Gesù ci dice: “se vi accontentate delle carrube dei porci (Lc 15,15) e non cercate, non desiderate qualcosa di meglio, Io non posso farci nulla. Se vi basta il superfluo, le cose terrene, inutili, io non posso farci nulla. Se vi basta vivacchiare, mangiare e bere, e non ascoltate il richiamo di nient’altro, se non date retta alla voce interiore che vi invita ad impegnarvi seriamente, a desiderare di più, io non posso proprio farci nulla. Però vi ricordo: da quello che scegliete apparirà quanto valete come uomini”.
Pilato dunque, ad un certo punto, chiede a Gesù: “Sei tu il re dei Giudei?” (v. 33).
La domanda ha il tono di una presa in giro, fatta con evidente ironia, come a dire: “Io sono il re della Palestina, tu di dove sei re?”. Pilato è interessato soltanto al ruolo sociale: “Sei per caso un nobile, un personaggio importante, un dottore della legge, uno scriba, uno che ha studiato molto?” Egli quindi non potrà mai capire Gesù: perché per lui “re” è solo chi ha potere.
Ma Gesù parla di un altro mondo; Pilato, anche volendo, non potrebbe neppure immaginare a cosa alludano le parole di Gesù.
A certe persone è inutile parlare di anima, di verità, di Dio, di dare un senso alla vita, di fuoco interiore, di libertà: non capirebbero; ascoltano solo se si parla di soldi, di case, di investimenti, di guadagni, di divertimenti.
E Gesù di rimando: “Dici questo da te oppure altri te lo hanno detto sul mio conto?” (v. 34). Pilato crede di poter salvare Gesù: ma è Gesù che invece tenta in tutti i modi di salvare lui; tenta cioè di farlo uscire dalla spirale di paura, di imbarazzo, in cui si trova. Vorrebbe che si ascoltasse, che desse retta alla sua coscienza. Vorrebbe che non ragionasse spinto solo dalla paura di compromettersi, preoccupato per le conseguenze politiche che deriverebbero da una sua decisione veramente libera. Vorrebbe che almeno una volta egli fosse davvero sovrano della sua vita. Ma non è così.
Pilato, “re” della Palestina, è ancora condizionato, schiavo dell'opinione pubblica e della ragion politica. La sua risposta è banale, distratta, superficiale: “Sono forse io Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cos'hai fatto?” (v. 35).
Gesù aveva tentato di riportare Pilato dentro di sé; ma Pilato scappa e si rifà a quello che dicono, a quello che fanno gli altri; non riesce a guardarsi dentro, non riesce a stare con sé, a porsi domande vere, a fermarsi.
E se ne lava elegantemente le mani (Mt 27,24).
Ma, “chiunque è dalla verità” (v. 37), non può far finta di niente, non può stare tranquillo.
Non lo possiamo fare più neppure noi. Per questo dobbiamo cercare; dobbiamo aprire gli occhi e far cadere le nostre false illusioni di vita, a cambiare direzione: anche quando ci accorgiamo che “la verità” è portatrice di dolore, che la verità va oltre la nostra conoscenza, perché solo in questo modo potranno riemergere quelle emozioni, quei sentimenti che tenevamo nascosti dentro di noi.
Non esiste l'amore in astratto: esistono persone che amano. Non esiste la libertà in quanto tale: esistono persone che si liberano, persone che sono libere perché liberate. Non esiste la verità in sé: esistono persone vere, autentiche. Solo Dio è essenzialmente Amore, Verità, Libertà.
Pilato si sottrae alla questione, esce. È questo il grande rischio anche per noi: trovare soluzioni facili, veloci, uscire dalle questioni in fretta, evitarle, risolverle magari con la violenza delle parole, senza lasciarci coinvolgere nei fatti concreti.
“Il mio regno non è di questo mondo…”.
Gesù e Pilato non potranno mai incontrarsi, perché viaggiano (e parlano) su due binari diversi. Per Pilato “regno” vuol dire esercito, armi, potenza e territori. Per Gesù “regno” vuol dire verità, dominio di sé, essere liberi di amare, di esprimere ciò che si sente, di avere Dio come unico punto di riferimento, e non dipendere passivamente dagli altri.
A volte i nostri ragionamenti sono esattamente identici a quelli di Pilato: anche noi viaggiamo su un piano diverso rispetto alla Parola di Gesù: e questo ci rende impossibile l’incontro con lui.
“Dunque tu sei re?”, insiste Pilato, nascondendo dentro di sé un sorriso di commiserazione: “Ma guardati! Senza esercito, senza soldati, senza appoggi politici; dove vuoi andare? Sei qui davanti a me, ti posso uccidere o salvare, e tu mi sfidi dichiarandoti re? Ti rendi conto di quello che dici? Sei qui incatenato, tutti ti odiano, tutti non vedono l'ora di metterti in croce e tu ti proclami re davanti a me, l'unico che, tutto sommato, potrebbe salvarti! Sei proprio senza attenuanti!”.
E Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (v.37).
Pilato si crede re, ma non si comporta da re. Si crede re, ma condanna un uomo pur ritenendolo innocente. Si crede un re libero, ma è costretto ad assecondare una folla assetata di sangue: pur di salvare la sua “ragione di stato”, si sottomette vigliaccamente al volere altrui. Si crede sicuro di sé ma non sa come uscire da questo imbroglio.
Perché Gesù è veramente “Re”. Solo che lo è in maniera diversa da come i Giudei se l’aspettavano. Gesù è re perché nel suo regno immateriale è Lui, l’unico in assoluto, che regna; Lui solo è al comando; è Lui che decide, lui che ha il controllo su tutto. Non esistono forze nemiche che possano batterlo. Lui è il re della vita, il vincitore della morte, il re della Luce, della Speranza, dell’Amore. È il nostro re. Il nostro Salvatore, il nostro Maestro.
È Lui che ci ha insegnato ad essere anche noi “re” di noi stessi, della nostra anima. Purtroppo per noi non è un’impresa semplice; essere re, dominatori incontrastati del nostro cuore, non è certo cosa facile se ci lasciamo sopraffare continuamente dai nostri compagni di viaggio: paura, dubbio, disperazione, angoscia, odio, vergogna, aggressività.
Come possiamo definirci re, se non riusciamo a dominare i nostri istinti? Come possiamo definirci re, se ad ogni occasione scarichiamo tutta la nostra rabbia su chi è più debole, su chi ci sta più vicino? Come possiamo dirci re, se continuiamo a fare meccanicamente e stupidamente ciò che ci proponiamo di non fare più? Come possiamo dirci re, sovrani della nostra vita, se sistematicamente ci inganniamo, nascondendoci per paura la verità?
Chiudiamo per un istante gli occhi e riviviamo mentalmente le ultime ore di Gesù: un Re innalzato sul patibolo, inchiodato sul trono della croce, esposto allo scherno dei suoi nemici: lo vediamo spogliato di tutto: privato della sua dignità, della sua reputazione, della sua credibilità, di quella fama di santità che faceva accorrere le folle piene di ammirazione.
Abbiamo davanti ai nostri occhi il nostro vero Re, libero, maestoso, invincibile: e in Lui possiamo contemplare la nostra nuova condizione di essere umani, affrancati da tutto ciò che ci rende schiavi, da tutto ciò che distrugge la nostra felicità.
Sì, perché noi siamo ancora schiavi: siamo schiavi del mondo, della nostra cattiveria, della nostra sfiducia, del giudizio degli altri; schiavi di ciò che gli altri possono dire e pensare di noi.
Siamo schiavi del successo evitando qualunque sfida del bene, per paura e ignavia.
Siamo schiavi del benessere, del consenso umano, della gloria, delle lusinghe di questo mondo, sempre pronto a colmare ogni nostra solitudine interiore.
Siamo schiavi anche di Dio: non del Dio di Gesù, ma di quel Dio fasullo che ci siamo costruito su misura. Un Dio che pieghiamo continuamente al nostro egoismo, un Dio che ci serve solo per tranquillizzarci e renderci sicura e indolore la vita; un Dio soprattutto che non interferisca con noi, che ponga sul nostro cammino ostacoli e antipatiche condizioni.
Ecco: questi siamo noi!
Alla fine dell’anno liturgico, facciamo un bilancio serio e onesto della nostra vita cristiana: affranchiamoci definitivamente da queste schiavitù reali, torniamo ad essere uomini liberi, re di noi stessi: e preghiamo col cuore, pieni di ammirazione e di pietà, il vero Re, Colui che ha conquistato il Regno dell’universo attraverso la passione e la morte: quel Re, che una volta lassù, sulla croce del Golgota, con un ultimo grido di immenso amore, ha attirato a sé tutto e tutti. Amen.

  

giovedì 14 novembre 2024

17 Novembre 2024 – XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 13,24-32 
«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. 
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

Il vangelo di oggi è uno di quei testi che viene preso come l’annuncio della fine del mondo. Ci sono dei gruppi, come i testimoni di Geova o i gruppi religiosi apocalittici, che parlano frequentemente di “prepararsi”, di “vegliare”, di “essere pronti”, di “fine del mondo”, vedendo segnali premonitori in ogni dove. 
Ma questo passo del vangelo, come tanti altri dello stesso tenore, non alludono affatto alla fine del mondo. Parlano, è vero, della fine di “un mondo”; ma non della fine “del mondo”.
Il testo di oggi parte improvvisamente dal v. 24 del capitolo 13 di Marco: Gesù, riferendosi ad un discorso già iniziato col versetto 1 dello stesso capitolo, lo completa e lo chiarisce: un discepolo, cioè, uscendo con Gesù dal tempio, gli dice: “Maestro guarda che pietre e che costruzioni” (Mc 13,1): di fronte a tanta bellezza, a tanta maestosità e potenza del tempio di Jahweh, il poveretto rimane rapito, estasiato, convinto come tutti che se Gerusalemme si fosse trovata in difficoltà, Dio sarebbe intervenuto in prima persona proprio lì, nel tempio, per salvarla.
Ma Gesù gli risponde: “Vedi queste grosse costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non venga distrutta” (Mc 13,2). E più avanti, ribadendo il concetto, dice: “Ciò sarà il principio dei dolori” (Mc 13,8): in realtà il testo greco dice: “sarà il principio delle doglie”; cioè: sarà doloroso, come il partorire; in altre parole, che Gerusalemme venga distrutta, è un bene, è un fatto positivo, poiché questo tempio, impedisce di fatto la comunione vera tra Dio e gli uomini (Dio era presente solo nel Sancta Sanctorum, il cui accesso era negato ai fedeli).
Inoltre questo tempio, fatto da mani d’uomo, verrà distrutto perché non serve più, perché ora Dio stesso, con Gesù, si è fatto presente nella storia umana.
Già dall’inizio del capitolo 13 si parla quindi di cadute di elementi ritenuti simboli di certezze, elementi indistruttibili. “Infatti sorgeranno falsi cristi e falsi profeti i quali daranno segni e prodigi per sedurre, se possibile, gli stessi eletti” (Mc 13,22). È un avvertimento. Il male c’è nella storia. Tocca a noi affrontarlo e combatterlo: dobbiamo essere noi a farcene carico in prima persona, tocca a noi riscattarlo con i nostri sacrifici, con la nostra croce, per meritare a nostra volta la resurrezione.
Ma vediamo il testo del vangelo di oggi. Gesù dunque, alludendo a quanto successo in precedenza, prosegue: “In quei giorni, dopo quella tribolazione (cioè la distruzione del tempio) il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,24).
Cosa vuol dire qui Marco? Egli si riferisce semplicemente a quelle espressioni religiose molto presenti nella storia dell’Antico Testamento, in cui il sole, la luna, gli astri erano oggetti di culto, venivano adorati dalla gente.
Noi, quando parliamo di religione ebraica, pensiamo subito ad una religione rigidamente monoteista, una religione cioè che adorava in Jahweh l’unico loro Dio. Ma se andiamo a vedere, non è stato sempre così: all’inizio anch’essi credevano nel sole, nella luna e in tante altre divinità; soltanto con il tempo sono arrivati a credere in un solo Dio. C’è stato, cioè, nel corso dei secoli un lungo processo di purificazione, anche se in certi periodi la religione politeista cananea riprendeva il sopravvento.
Allora cosa sono questi “astri” che cadranno dal cielo? Qui, lo ripeto, la fine del mondo non c’entra: nessuna calamità, nessun giudizio, nessun sconvolgimento cosmico. Il caos, la catastrofe, riguardano solo le entità celesti (gli dei) che abitano nei cieli, non la terra.
In altre parole, tutte queste divinità pagane (sole, luna, stelle) sono destinate a cadere giù definitivamente: quel tipo di religione pagana, cioè, finirà, perderà il suo splendore e l’idolatria entrerà in crisi. Prima però è necessario che “il vangelo sia proclamato a tutte le genti” (Mc 13,10). In altre parole: quando il vangelo sarà accolto da tutti, queste divinità pagane finiranno, perché di fronte al vangelo, alla paternità dell’unico Dio, tutta questa pseudo-religiosità è destinata a scomparire.
Ecco perché “le stelle cadranno” (Mc 13,25); meglio: “gli astri si metteranno a cadere”: il verbo greco indica un cadere continuo): ma qui non c’è una pioggia di asteroidi, di stelle, di pianeti, ma semplicemente la caduta progressiva e inarrestabile delle divinità celesti costruite dall’uomo di ogni tempo; quel cadere di continuo, attualizza l’azione del cadere fino al presente; nel senso che vale anche per i potenti, per i prìncipi, per i re, cioè per tutte quelle persone che si ritenevano e si ritengono “divine”, intoccabili, uniche: nessuno potrà frapporsi ostacolando l’annuncio e l’espansione del vangelo; tutti gli ostacoli prima o poi subiranno la stessa tragica fine.
Un versetto di Isaia, esattamente il 12 del c. 14, ci aiuta a capire meglio questa profezia nel suo vero significato. Scrive il profeta: “Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli?” (Is 14,12).
Questo “astro del mattino” (identificato con Lucifero, precipitato dall’alto dei cieli) altri non era che il re di Babilonia, che arrogandosi la condizione divina, era “salito in cielo” diventando, oggi diremmo, una vera “star”, era cioè convinto di essere Dio, una divinità.
Prosegue infatti Isaia, alludendo a lui: “Tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio, innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi (=sotto terra), nelle profondità dell’abisso” (Is 14,13-14); il potente re di Babilonia, che si credeva un Dio, è finito anch’egli nell’Ade, letteralmente nello Sheol, il regno dei morti!
Lo stesso concetto è ripreso anche dalle parole poste sulla tomba di Alessandro Magno: “Ora basta questa terra all’uomo a cui non bastava il mondo”; cioè, tutta la potenza sterminata di quell’uomo, è finita sotto due metri di terra!
Allora si vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26). “Venire sulle nubi”: le nubi non sono il mezzo di trasporto di Dio, ma indicano la realtà di Dio; è infatti proprio attraverso una nube, che nella trasfigurazione di Gesù, la voce di Dio Padre dichiara: “Questi è il figlio mio prediletto” (Mc 9,7). In altre parole: mentre “gli astri, le stelle” cadono, il Figlio dell’uomo “sale”, si innalza lassù, sulle nubi.
È una realtà, una regola, che trova la sua conferma sempre, in ogni tempo: ogni volta che qualche potenza ingiusta, disumana cade, viene meno, la dignità dell’uomo, si afferma, si nobilita. La caduta di un sistema oppressore o di una ideologia iniqua, di qualunque genere siano, è una liberazione per l’uomo: non si verificherà una seconda venuta fisica del Figlio dell’uomo: ma ci sarà un nuovo risplendere di Dio in noi, nella nostra cultura, nella nostra società, nelle nostre relazioni, nel nostro vivere personale e sociale.
Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino alle estremità del cielo” (Mc 13,27).
Ma chi sono questi angeli? Per Marco sono dei messaggeri, delle persone come il Battista: riferendosi a lui infatti dice: “Ecco, io mando il mio “ànghelon”, il mio messaggero, davanti a te” (Mc 1,2). Sono cioè quelle persone che diventano “annunciatori” di una vita piena, sono i messaggeri umani di Dio: questi “angeli” non trasmettono una dottrina ma un’esperienza: essi sono quindi delle persone che hanno già conosciuto Dio, che l’hanno già sperimentato nella loro vita, e pertanto sono in grado di comunicarlo agli altri. Saranno essi che “riuniranno gli eletti”, riuniranno cioè tutti coloro che hanno vissuto operando il bene per il prossimo.
Pertanto: mentre le potenze dei cieli (gli oppressori), coloro che hanno combattuto contro la Vita, cadranno dai loro “cieli”, tutti quelli che hanno combattuto per alimentare la Vita, per farne fare esperienza agli altri, saliranno in cielo, vivranno in eterno.
Ebbene: questo è il senso del vangelo di oggi; ma a noi, per la nostra vita, cosa può insegnarci di particolare? Che dobbiamo saper valorizzare gli eventi contrari che ci capitano nella vita, perché essi in realtà sono occasioni positive per noi, occasioni da non perdere. È in questo modo, infatti, che troveremo la forza di compiere quelle soluzioni difficili, che non vogliamo o abbiamo paura di affrontare.
Cadono il sole, la luna, gli astri: crollano cioè tutti i nostri punti di riferimento. Può sembrare la fine, ma al contrario è il ritorno in noi dello Spirito del Figlio di Dio, è la rinascita cioè di quella parte di noi molto più vera, più autentica, quella parte che avevamo trascurato e che altrimenti non avrebbe mai potuto rinascere. Perché è il Signore che guida le vicende umane, anche le più contrastate e penose, e lo fa seguendo il suo disegno di salvezza.
Noi nella vita tentiamo di controllare tutto: decidiamo, pianifichiamo, progettiamo, facciamo delle previsioni, coltiviamo dei sogni; cerchiamo di raggiungere sempre ciò che ci prefissiamo e, per farlo, impieghiamo tutte le nostre energie.
Questo è sicuramente un bene: ma in tutto questo nostro attivismo, ci ricordiamo di Dio? Ci ricordiamo che lui ha un ruolo fondamentale nella nostra vita? Certo, i suoi interventi sono imprevedibili, si attuano all’improvviso, nella sorpresa, in tempi assolutamente non sospetti; ma questo è l’unico modo che gli rimane per agire, visto che noi siamo sempre super impegnati, avendo già pianificato ogni momento, ogni attimo della nostra vita. Del resto per farci capire qualcosa che altrimenti non vogliamo capire, l’unico modo è sorprenderci, darci all’improvviso anche qualche sberla per indurci a pensare, capire, rimediare.
Quando il buio si fa più fitto e il male raggiunge il suo parossismo, noi non dobbiamo disperare: sappiamo infatti che il sole sorge dopo le tenebre della notte, che la raccolta dei frutti avviene dopo la fatica della semina. Per questo dobbiamo andare avanti con coraggio e fiducia senza mai arrenderci, con un occhio al presente e l’altro puntato verso la meta.
Allora, quando stiamo bene, quando tutto va per il verso suo, viviamo questi momenti con intensità, con umiltà: e ringraziamo Dio! Quando invece tutto ci crolla addosso, viviamo queste nostre sconfitte non come un castigo, ma come un’occasione, una spinta energica, per ricominciare: e ringraziamo Dio! Quando c’è l’amore, viviamolo e ringraziamo Dio; quando c’è il rifiuto, viviamolo e ringraziamo Dio; quando c’è vita, viviamola e ringraziamo Dio; quando la morte ci tocca da vicino, quando capiamo di essere arrivati al capolinea, viviamo dignitosamente quei momenti tremendi; e ringraziamo Dio. Viviamo insomma tutta intera la nostra vita, ringraziando Dio per ogni singolo istante che ci concede: viviamolo degnamente, perché ogni istante della nostra vita è un suo dono immeritato. Amen.

 

giovedì 7 novembre 2024

10 Novembre 2024 – XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 12,38-44 
Diceva loro nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

Gesù si trova nel tempio. E guarda, osserva quello che gli accade intorno. E commentando ciò che vede, impartisce una profonda lezione di vita.
“Gli scribi amano passeggiare in lunghe vesti…”. Al tempo di Gesù, per andare a pregare nel tempio, tutti indossavano il tallit, una specie di scialle; quello degli scribi però si distingueva dagli altri perché era molto ampio, lungo e sontuoso. Era impossibile non notarlo, non ammirarlo. Un simile abbigliamento, da solo, qualificava già la persona che lo indossava, ne stabiliva l’alto grado sociale, ne sottolineava le cospicue possibilità finanziarie; essi camminavano lentamente tra la folla, per “ricevere saluti nelle piazze”, per essere ammirati, riconosciuti, temuti; incutevano, nella gente semplice che incontravano, un senso di inferiorità, di soggezione, di sudditanza. Nelle sinagoghe ovviamente avevano un posto riservato, un posto d'onore, di fronte a tutta l'assemblea. Promettevano preghiere e sostegno spirituale alle vedove, che nella società di allora costituivano l’elemento più debole, più sfruttato. In realtà la promessa di difenderle era solo un pretesto per spillare loro quattrini, spogliandole di quei miseri averi che le mantenevano in vita. Insomma erano delle persone poco raccomandabili, questi scribi: pieni di loro stessi, erano tutta e sola apparenza.  
Essi riceveranno una condanna più grave”. Gesù non ha pietà per questo genere di falsari della vita, della religione e del culto, per questi amanti dell'apparire, della pubblica ostentazione delle loro “sontuose vesti”, della loro facciata, del loro apparente benessere, della loro inesistente superiorità. Personaggi che la gente ammira e invidia comunque; personaggi che amano fare notizia, apparire sempre sulle prime pagine dei giornali: sono in pratica gli “scribi” del ventunesimo secolo, quelli che la gente comune ritiene “fortunati” perché hanno tutto dalla vita, quelli che “possono”, gli “arrivati”, i “potenti”, quelli del “lei non sa chi sono io!” 
Il mondo è pieno di questi “vip”, miseri commedianti della vita, affamati di “divismo”, che barattano la loro dignità pur di “apparire”, pur di esibirsi nei salotti televisivi, nelle manifestazioni mondane, cercando ad ogni costo l’applauso mediatico, l’ammirazione di quella massa decerebrata che li adora, estasiata dal fascino fasullo della loro immagine! Una pletora di personaggi che si illudono di essere insostituibili alla cultura, opinionisti “di tendenza”, sostenitori di qualunque iniziativa anomala, insulsi parolai dei vari salotti televisivi: trasmissioni una volta interessanti e valide, che oggi, grazie al gossip e al turpiloquio di questi "esperti", si distinguono per la loro stomachevole idiozia. 
Siamo purtroppo caduti tutti decisamente in basso! Ci lasciamo abbagliare anche noi non dalla Luce vera, ma da fuochi fatui, e non ci rendiamo conto che in realtà, dietro una facciata splendida, spesso si cela un abisso di solitudine, un cumulo di cattiverie, di vuoto, di violenze, di lacerazioni interiori. Anche noi, piuttosto che dal calore dell’Amore divino, ci lasciamo sedurre dal gelido scintillio di una vita senza senso! 
Noi tutti siamo in qualche modo gli “scribi” di oggi, disponibili a tutto, pronti a qualunque compromesso spirituale, purché la nostra immagine esteriore risulti sempre affascinante, luminosa, attraente, purché il nostro nulla, il nostro vuoto di personalità, di amicizia vera, di amore, si trasformi in brillante fascino per gli altri. Siamo uomini di cartapesta, autentici pupazzi, fenomeni da baraccone.
Ce ne rendiamo anche conto, ma ci sta bene così: non vogliamo cambiare, non vogliamo metterci veramente in gioco. Dimostriamo di non aver capito che essere individui veri, genuini, coraggiosi protagonisti della vita, non vuol dire sovrastare gli altri, apparire, essere osannati, ma piuttosto essere sé stessi, essere i primi in basso, nell’umiltà; vuol dire fare il bene nel silenzio, senza guardare ai riconoscimenti, agli applausi; vuol dire insomma primeggiare nella carità, nell’amore.
Agli scribi Gesù dice: “Guai a voi, guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità” (Mt 23,27-28).
Ciò che fa infuriare maggiormente Gesù è che queste persone false, non sono persone anonime, insignificanti; sono “scribi”, sono gli esperti della Scrittura, della Bibbia, di Dio, i custodi e amministratori della legge. Sono persone che parlano continuamente di Dio, che hanno sempre il consiglio pronto su come ci si deve comportare, su cosa si deve fare; persone che si vantano di saper interpretare la volontà di Dio, ma che lo fanno soltanto per gli altri. Hanno sempre in bocca il nome di Dio, ma il loro cuore è vuoto, arido. Lo conoscono benissimo con la mente, ma lo ignorano totalmente nel cuore.
Un atteggiamento purtroppo molto comune: possiamo infatti sapere tutto di Dio, rispettare tutte le regole formali e andare a messa tutte le domeniche e confessarci ogni mese, essere insomma “uomini di chiesa”; ma se il nome di Gesù non ci fa sussultare l'anima, se le sue parole non ci fanno vibrare il cuore, se il suo pensiero non ci trasmette desiderio di verità e di ricerca, in una parola se non ci “prende”, se non ci appassiona l'anima, a che ci serve tutto quello che sappiamo, che ce ne facciamo di tutte le nostre conoscenze?
Ebbene, sono proprio questi sedicenti “uomini di Dio”, questi “scribi e farisei”, le persone che Gesù considera false, senza fede, eretiche e ingannatrici. E a tutti noi dice: “State attenti”, non fatevi ingannare: chi ama Dio, non si vede dal vestito o dalla tonaca; da come si esibisce nel tempio, da come predica bene o dal colore dello zucchetto. Chi ama veramente Dio si riconosce dalle opere, dalla coerenza con cui vive, dalla forza d'animo, dall'amore e dalla bontà che gli traspare luminosa dagli occhi e dal cuore.
Concluso questo sfogo contro gli scribi, nauseato, irritato per il loro comportamento, Gesù va a sedersi in prossimità dell'ingresso del tempio, dove stazionavano gli incaricati alla raccolta delle offerte libere. Era lì che i ricchi, con grande sfoggio, contrattavano con i sacerdoti l'entità delle loro cospicue donazioni, accolte dai suddetti con soddisfatti sorrisi di compiacimento; ed era sempre lì che i poveretti, in particolare le povere donne, disponendo di somme molto esigue, erano costrette a subire dagli stessi un malcelato biasimo e disprezzo.
Essere vedove, all’epoca, significava essere senza reddito, senza un minimo di sostentamento: le donne non lavoravano, erano costrette a vivere di elemosina, di carità, di quel poco che altri donavano loro. Le vedove vivevano mendicando. Non avevano niente di niente se non due tre figli sempre affamati da nutrire.
Probabilmente i pochi spiccioli offerti dalla vedova notata da Gesù, costituivano l’intera somma della sua giornata di elemosina. Agli occhi superficiali e boriosi degli addetti, quella donna non offre praticamente nulla, una cosa irrisoria, un'inezia. Ma agli occhi profondi e misericordiosi di Gesù, quella donna offre il massimo, tutto quello che possiede, tutto quello di cui dispone, tutto di tutto. Il criterio di valutazione di Dio è molto diverso dal nostro. Dio non vuole mai “qualcosa” di noi, Dio vuole “tutto” di noi. Dio non vuole da noi “cose”; vuole soltanto noi. Dio vuole stare al centro della nostra vita. Egli vuole che noi, per Lui, ci mettiamo completamente in gioco. Vuole che noi per Lui, cambiamo radicalmente il nostro modo di pensare, di relazionarci, di amare, di vivere, di credere; vuole che diamo un ordine diverso alle nostre priorità.
Se non fosse stato per lo sguardo amorevole di Gesù, nessuno mai avrebbe saputo di questa donna. Quello che per gli addetti al culto era dozzinale, insignificante, senza valore, per Lui non lo era affatto. Perché anche le cose più umili, più insignificanti, al suo sguardo acquistano valore, lucentezza, splendore!
Agli occhi di Dio tutto si trasforma: il nostro buio e le nostre sofferenze, in Lui acquistano luce e gioia; la nostra povertà, per Lui è inestimabile ricchezza; il nostro nulla, per Lui è un tesoro prezioso. Ai suoi occhi, il tanto è nulla, il niente è tutto!
Scegliamo allora la vita e non la morte: noi siamo “vita”! Accettiamo la nostra realtà, la nostra vita: l’amore di Dio vive in noi: conosciamolo, sperimentiamolo, usiamolo verso di noi e verso gli altri, con misericordia, tenerezza, compassione.
Scegliamo di donarci piuttosto che di venderci: realizziamoci nel dono di noi stessi. La nostra vita ha bisogno di essere data, versata, spesa per una grande causa: solo allora ci sentiremo al servizio del mondo e di Dio; solo allora saremo utili e, vivere, acquisterà finalmente il suo senso autentico e profondo. Amen.