giovedì 25 gennaio 2024

28 Gennaio 2024 – IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 1, 21-28 
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga [a Cafarnao] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

 È sabato, giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, seguito dai quattro discepoli appena scelti, entra nella sinagoga di Cafarnao e, senza tanti preamboli, si mette ad insegnare ai presenti. 
Per inciso: sappiamo dai vangeli che Gesù non è mai entrato nelle sinagoghe per pregare o partecipare a qualche riunione: qui lo fa, ma come sottolinea Marco, solo ed esclusivamente per insegnare!
Un comportamento il suo, con cui forse voleva farci capire che certe preghiere, certe catechesi o letture teatrali, oggi come allora, non sono per niente gradite a Dio.
Il che, tradotto in chiaro, ci porta a pensare: se le nostre preghiere, le celebrazioni e le liturgie delle nostre chiese non sono compiute con fede, esclusivamente a lode di Dio, se non si trasformano in vita cristiana vissuta, in amore, passione, coraggio, fiducia, in apertura e solidarietà verso i fratelli, rimangono soltanto delle “sacre” rappresentazioni, spesso neppure belle ed edificanti, che lasciano Dio completamente indifferente; se le nostre liturgie si limitano ad un insieme di movimenti sciatti, disordinati, meccanici, consunti dall’abitudine, se la nostra partecipazione è soltanto distratta ripetizione delle solite formule, senza alcuna convinzione, senza presenzialità, consapevolezza, spiritualità, ebbene: sono celebrazioni che non servono assolutamente a nulla, che non riusciranno mai a creare quella particolare atmosfera soprannaturale attraverso cui poter incontrare, ringraziare, lodare, il Dio della Vita.
Ecco perché le liturgie devono veramente emozionare, devono appassionare il nostro cuore, potenziare la nostra fede, le nostre risorse; devono soprattutto soddisfare la nostra anima creando quell’incontro specialissimo con l'Infinito, con il Dio Amore, che ha scelto di “rimanere” con noi, in noi.
Gesù dunque entra nella sinagoga, legge, spiega, in una parola, “insegna” e la gente si “stupisce”; rimane sorpresa, ammirata, (in greco “exeplessonto”, “sbalordivano, rimanevano sconvolti”), da ciò che dice, da come parla, perché lo fa con “autorità”, con credibilità, convinzione e fascino: la sua esposizione è decisamente superiore a quella degli scribi; tutti i presenti si rendono conto che, a differenza loro, le sue parole provengono direttamente da Dio, le sentono scendere in profondità nei loro cuori, cariche di umanità, di vita, di liberazione.
“Non come gli scribi”: un giudizio forte, pungente, quasi impietoso, questo di Marco, ma assolutamente veritiero, concreto, reale: con Gesù non c’è “scriba” che possa competere!
Un parere conciso, di quattro parole, che ci invita a riflettere seriamente: noi, che ci riteniamo cristiani osservanti, noi che partecipiamo assiduamente alle liturgie della Chiesa, che pensiamo di conoscere bene la sua Parola, che talvolta siamo chiamati anche a proclamarla nell’Eucaristia domenicale, ebbene proprio noi dobbiamo stare molto attenti a non trasformarci in altrettanti “scribi”; dobbiamo cioè svolgere sempre i nostri piccoli “ruoli” con grande umiltà, consapevoli dei nostri limiti, per evitare che un minuscolo servizio a Dio, diventi occasione di vani personalismi, di puerili protagonismi.
“Vigilate”, ci suggerisce tra le righe il vangelo: perché lo “spirito impuro” dell’orgoglio, può introdursi con grande facilità nell’animo di tutti.
Ma chi erano esattamente questi “scribi”? Inizialmente erano dei semplici funzionari incaricati a “trascrivere”, a ricopiare, i testi sacri (in greco “grammatèus” = scrivano, amanuense), che gradualmente si sono imposti nella comunità con una autorità così esclusiva, da ritenersi superiori allo stesso sommo sacerdote, superiori persino alla stessa Torah, della quale si dichiaravano infallibili interpreti, unici studiosi autorizzati a commentarla in pubblico nelle sinagoghe: quando parlavano era come se parlasse Dio stesso in persona. Solo che i loro interventi, i loro insegnamenti, erano diventati stucchevoli, monotoni, sempre uguali: praticamente consistevano in aridi interventi cavillosi, tenuti esclusivamente per lanciare accuse, critiche e rimproveri contro le inosservanze nella condotta dei presenti. Il risultato? Una tortura, poiché tutti, chi più chi meno, si sentivano colpevolizzati e mortificati: nessuno infatti avrebbe potuto ritenersi del tutto innocente di fronte ai 613 precetti della legge mosaica, particolarmente rigida e intransigente.
Poi nella sinagoga arriva Gesù: con le sue parole autorevoli, con la sua legge dell’amore, egli fa scoprire dai presenti un insieme di nuove emozioni, di sentimenti completamente nuovi, che in un attimo annullano quel clima rigido e terrificante che condizionava il loro rapporto personale con Dio. In sostanza Gesù dice: “Dio vi ama tutti, proprio tutti; vi ama come figli suoi, di un amore senza limiti; questa è la buona notizia (eu-anghèlion = il vangelo) che vi sto annunciando. Non ha importanza se pregate esattamente come ordina la legge, oppure no, se siete in regola con le purificazioni oppure no, se siete dei credenti perfetti oppure no: Dio vi ama, sempre e comunque, al di là di queste cose. Egli ama ciascuno di voi in maniera esclusiva, a prescindere da come siete, da come vi chiamate, da come vi presentate”.
Parole autorevoli, convincenti, completamente nuove e diverse da quelle degli scribi: parole che offrono nuove prospettive di salvezza; parole che infondono vigore nei cuori dei presenti, poiché hanno finalmente compreso il valore rivoluzionario, innovativo e risanante, di termini sconosciuti come “liberi, riscattati, apprezzati, amati da Dio”. E lo dimostrano apertamente, esternando a gran voce la loro profonda soddisfazione.
Nella sinagoga, tra i tanti, c’è anche un uomo “dallo spirito impuro”, che improvvisamente si mette a urlare; il suo spirito (ruah) non è quello di Dio, ma appartiene al male, è “impuro”, è contrario a Dio; egli inveisce con rabbia, con odio, contro la persona di Gesù, che ha appena parlato di salvezza, di misericordia, di amore: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”.
Anche qui il testo ci porta a fare alcune riflessioni: prima di tutto, perché questo tizio parla al plurale? Che ruolo pensa di interpretare attribuendosi l’autorità di parlare a nome degli altri? È chiaro che anche qui, come sempre, il maligno intende rappresentare tutti gli uomini, ed è a nome della collettività che egli si esprime usando il plurale. Ma perché tanta avversione nei confronti di Gesù e del suo messaggio? In fin dei conti il Maestro entra nella sinagoga e predica tranquillamente; solo che, fatto singolare, questa volta la gente capisce perfettamente quello che l’oratore espone, lo apprezza e si immedesima immediatamente nella bontà delle sue parole: è questo il motivo cruciale dell’avversione di satana.
In pratica, con la sua travolgente novità di un Dio che ama l’umanità intera in maniera costante, profonda, gratuita, Gesù distrugge quella che è la teologia ufficiale, l'insegnamento tradizionale degli scribi. Da qui la furia dello “spirito immondo”, l’avversione rabbiosa contro Gesù, e contro quel Dio che Egli vuol far conoscere a tutti.
Le persone che lo stanno ascoltando, sono dei poveracci, imbottiti di tradizioni antiche, di superstizioni popolari, di leggi opprimenti: le autorità religiose hanno sempre insegnato loro che Dio è vendicativo, terribile, crudele, che può distruggere, in caso di peccato, intere città: e tutti, indistintamente, soggiogati dalla tradizione ebraica, ne sono fermamente convinti.
Sono l’immagine di chi non pensa: sono solo dei “pensati” da altri. Non vivono: sono gli altri che vivono per loro. Non possono neppure giustificarsi, dicendo: “Io faccio solo quello che mi hanno ordinato; obbedisco e basta!”, perché tutti abbiamo una testa con cui pensare e ragionare; e qualunque cosa facciamo, siamo solo “noi” che la facciamo, siamo noi gli unici responsabili delle nostre azioni, è nostra unica responsabilità accettare o rifiutare la voce di Dio.
Nei vangeli Dio non chiede mai l'obbedienza. Possiamo leggerli e rileggerli, e non troveremo mai, neppure una volta, Gesù che chiede di “obbedire” (upakòuein) a Dio. Mai!
Le parole “obbedire, obbedienza”, sono presenti due sole volte in Marco, e quattro in tutti gli altri vangeli (Cfr. Mc 1,27; 4,41; Mt 8,27; Lc 4,36; 8,25; Gv 3,36): ma non è mai riferita all’uomo; quelle che obbediscono sono sempre le forze della natura o quelle del male, ostili a Dio: una di queste volte è infatti presente nel vangelo di oggi: “gli spiriti impuri obbediscono (upakòuûsin) a Gesù!”. Gesù dunque non ci chiede mai di obbedire a Dio: ci chiede piuttosto, ripetutamente e caldamente, di assomigliare, di imitare Lui e il Padre (Cfr. per esempio Lc 6,36-38; Gv 13,14; 15,10.12); una cosa che, riuscendo ad attuarla, ci spalancherebbe nuovi orizzonti.
“Che vuoi da noi Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”. Domande folli, irrazionali, da dissennati, di chi non vuole arrendersi all’evidenza: eppure quante volte assomigliamo anche noi all’indemoniato della sinagoga! È proprio così: ce ne stiamo nascosti, indifferenti, ma quando Gesù ci smaschera, quando ci mette di fronte alle nostre responsabilità, ai nostri sotterfugi, reagiamo anche noi urlando: Che vuoi tu da me?”; ma Gesù, con uno sguardo, manda in frantumi la nostra arroganza, le nostre solide impalcature, i nostri progetti, i nostri alibi: come un uragano, spazza via ogni nostra illusione, e tutto ciò che noi credevamo vero, reale, remunerativo, si dimostra falso, inesistente, fallimentare!
“Taci! Esci da lui!” sono le parole risolutorie e salvifiche di Gesù: sono le Parole con cui Egli ci salva, ci libera dai nostri demoni; sono le uniche Parole che possono estirpare dal nostro cuore, dalla nostra mente, tutti quegli “spiriti immondi” che ci posseggono, e guarirci.
Guarire per mano di Gesù, venire risanati, perdonati sacramentalmente, è un evento di misericordia, di amore straordinario, meraviglioso: ci fa sentire nuovamente liberi, leggeri, ci restituisce la nostra identità, la nostra dignità, la nostra serenità, la nostra vita.
Ma guarire a volte “fa anche male”, è addirittura “straziante”, doloroso; perché significa strappare violentemente dal nostro cuore lo spirito impuro; dobbiamo cioè distaccarci radicalmente da tutto ciò che credevamo certezza, libertà, fantasia creativa, vita (spirito) e che, al contrario, si è rivelato nient’altro che insicurezza, schiavitù, distruzione, morte (impuro).
È un’esperienza dura, un’esperienza dolorosa che richiede coraggio: perché significa aprire, spalancare, quelle porte sbarrate, che ci rifiutiamo sempre di aprire, sapendo che nascondono realtà che ci fanno vergognare, scelte spiritualmente velenose, detestabili.
Inutile tentare la fuga, inutile opporci a tale purificazione: per risorgere a nuova vita, dobbiamo necessariamente scendere nel nostro intimo e con la fiamma del dolore, del rimorso, cauterizzare le ferite inferte dal maligno.
Percorrere la vita sulle orme di Cristo, non è un gioco; richiede tutto il nostro impegno: perché è molto meglio prevenire la cancrena, che dover poi ricorrere a dolorose amputazioni.
In questo non basta essere prudenti, aver timore, ma è necessario misurarci, combattere con coraggio, fronteggiare quel nemico che è sempre pronto a colpire, a lacerare, a straziare la nostra anima. Non permettiamogli scioccamente di anestetizzarci: è il suo mestiere, e lo sa fare molto bene.
Pietro, nella sua prima lettera, ci mette in guardia proprio da questo; scrive infatti: “adversarius vester diabolus, tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret”; come un leone ruggente va cercando qualcuno da divorare; “cui resistite fortes in fide”, resistetegli, saldi nella fede; infatti, prosegue Pietro, “dopo che avremo sofferto, Dio ci ristabilirà, ci confermerà, ci rafforzerà… (1Pt 5,8-10). Adottiamo questa raccomandazione come nostro programma di vita: perché, dopo la sofferenza, avremo anche noi da Dio, serenità, conforto, amore infinito. Amen.

 

giovedì 18 gennaio 2024

21 Gennaio 2024 – III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 1, 14-20 
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch'essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

Gesù dopo il Battesimo e la sua successiva permanenza nel deserto “delle tentazioni”, per recarsi a Cafarnao, passa lungo le rive del “mare” di Genezareth; è qui che incontra Simone e Andrea, due fratelli pescatori, che stanno gettando le reti, e li invita a seguirlo per diventare suoi discepoli.
Non sappiamo cosa Gesù abbia notato di tanto interessante in loro: due poveretti che stavano semplicemente facendo il loro lavoro: un lavoro povero, umile, indispensabile per la sopravvivenza, che non aveva assolutamente nulla in comune con la missione che Gesù voleva loro affidare. Ma Egli vede più lontano di noi; capisce al volo le possibilità, i pregi e i difetti di quanti incontra; lo capisce dalle piccole cose, dai piccoli gesti. Egli dunque li osserva (“vide”) mentre svolgono il loro lavoro, come affrontano le difficoltà del momento, come si comportano, e ciò gli basta.
“Se mi seguirete, Vi farò diventare pescatori di uomini”, dice loro a bruciapelo. 
È una proposta sconvolgente, un programma di cambiamento radicale che avrebbe rivoluzionato totalmente la loro esistenza. Ma loro accettano. Piantano tutto e lo seguono.
Anche se in seguito li troviamo a fare lo stesso lavoro con le reti, (Lc 5,1-11; Gv 21,1-8), anche se continuano a fare le stesse cose di prima, anche se intrattengono gli stessi rapporti con i loro familiari, i loro amici, tuttavia non sono più gli stessi: perché è la loro mentalità, è il loro modo di vedere le cose, che è cambiato: ciò che è completamente cambiato, è il loro modo di rapportarsi col mondo. Se prima la barca e la casa erano l’assoluto, ora non lo sono più. Hanno capito che nella vita la cosa più importante, l’unica, è l’Amore; e l’amore lo puoi ricevere solo dalle persone, non da un lavoro, non da una casa! Una casa non ci può amare: può essere grande o piccola, in ordine o in disordine, in centro città o in campagna, ma non può in alcun modo amarci. Così pure una barca, una professione, un lavoro, non possono amare. Il lavoro semmai ci fornisce i mezzi per vivere, ci garantisce un certo benessere, un qualche prestigio sociale. Ma non può amarci!
Ma se i beni, il lavoro, le ricchezze, non ci possono amare, e senza amore non possiamo essere felici, perché continuiamo a sognare dimore sontuose, ricchezze e beni incalcolabili? Perché continuiamo a lavorare come dissennati, ponendo il lavoro, la carriera, la produzione, al di sopra di tutto e di tutti?
Ecco, proprio in questo deve consistere il nostro cambiamento, la grande “conversione” della nostra vita. Se siamo convinti che la felicità risieda in quello che facciamo, in quello che abbiamo, stiamo costruendo la nostra vita su una bolla di sapone.
È vero: la società consumistica di oggi continua a bombardarci di messaggi fasulli, ci ripete ossessivamente che il denaro, la ricchezza, il piacere, è tutto, è l’assoluto; ci investe continuamente con i soliti paroloni, sempre gli stessi, che si rincorrono con frequenza e precisione maniacale: lavorare, produrre, consolidare la carriera, orari sempre più lunghi, impegni sempre più gravosi, concorrenza sfrenata, libero mercato, globalizzazione, soldi, tanti soldi. Ma sono chimere, soltanto stupide chimere! La ricchezza, il benessere, la carriera non fermano il tempo: la vita continua a scorrere inesorabile, e solo se rientreremo in noi, capiremo che tutto ciò, tranne l’amore, è solo spazzatura.
Se scorriamo le pagine del vangelo, troviamo forse scritto che Gesù ha lavorato senza sosta, che è stato ansioso o angosciato per le consegne, intrattabile per la produzione o le scadenze? Che ha perso la calma per non aver raggiunto qualche “target”? Assolutamente no; lo troviamo invece sempre impegnato a dare e ricevere amore e amicizia, ad usare carità, tenerezza, comprensione, sicurezza. Gesù infatti non era ricco: ma come uomo era sicuramente molto amato e molto felice, proprio perché era “libero” da preoccupazioni temporali.
Ecco: non potremo mai essere autentici discepoli di Cristo, non potremo mai essere la sua Chiesa, se non ci allontaneremo anche noi dalla mentalità del mondo. Il termine stesso di Chiesa, in greco “Ecclesìa”, vuol dire letteralmente “i chiamati fuori”, persone speciali, uniche, cioè, che non agiscono per far piacere agli altri, per avere la loro approvazione; persone, al contrario, che si sono completamente “affrancate” da qualunque tipo di pressione interiore, persone che non hanno altro interesse se non quello di fare umilmente e fedelmente quello a cui sono state chiamate, con amore e generosità, spinte non dall’ansia di ottenere ricompense, ma dalla sicurezza di fare la volontà di Dio.
“Il tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,15).
Per noi però non è così facile convertirci, rinunciare a noi stessi: non siamo per nulla entusiasti ad abbandonare ciò che siamo, ciò che sappiamo, ciò che viviamo, per incamminarci verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, di impegnativo: noi siamo abituati nella nostra vita a muoverci sempre con garanzie, certezze, assicurazioni; vorremmo cioè che il mondo girasse sempre come vogliamo noi; siamo reticenti, non ci sentiamo ancora pronti a seguire Gesù, preferiamo rimanere seduti lungo la riva del lago, a riparare le nostre reti sdrucite!
Ma quando Gesù chiama, questo non è ammissibile, è semplicemente assurdo!
La vita che Gesù ci prospetta, è invece completamente diversa: dobbiamo semplicemente abbandonarci, fidarci, lasciar fare a Lui, senza alcuna pretesa, senza alcun diritto, senza calcoli pretestuosi.
Dobbiamo convincerci, che quel “venite dietro a me”, più che un ordine, è una proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, un’offerta di incalcolabile valore: non è un invito ad un giro turistico, ma l'invito ad una “imitazione”, ad una “sequela”, sicuramente non facile, ma sempre commisurata alle nostre possibilità: dobbiamo solo avere il coraggio di seguirlo, di fare il primo passo, di non resistergli, e come i primi discepoli, Lui trasformerà anche noi in “pescatori di uomini”.
Già, perché è proprio questo che noi, oggi, dobbiamo essere nella sua e “nostra” Chiesa: “pescatori di uomini”. La necessità è evidente: oggi infatti la Chiesa sta rinunciando al suo mandato divino di essere “mater et magistra”, alla sua fondamentale missione pastorale: si lascia irretire dalle tentazioni mondane, dalla notorietà, dal desiderio di essere “diversa”, di esibirsi, di ottenere facili consensi dal mondo, applausi e ovazioni mediatiche; si illude che spalancando semplicemente le sue porte, i figli lontani, i non credenti, i senza Dio, meravigliati e spinti da questa sua innovativa, affrancante, generosa accoglienza, si precipitino in massa a riempire i suoi spazi: ma non è così! Perché “seguire Cristo come suoi discepoli”, consiste in ben altro: noi tutti, infatti, siamo stati scelti e chiamati non per inseguire e giustificare le paradossali e futili scelte di vita del mondo attuale, ma per annunciare, diffondere, proclamare con fermezza i valori intangibili della nostra fede, quei principi irrinunciabili che la moderna società, refrattaria a qualunque suo adeguamento alla morale cristiana, rifiuta e oltraggia, giudicandoli deliranti, farneticanti, anticaglie d’altri tempi.
Oggi anche nella Chiesa la parola d’ordine è “libertà”, autonomia di giudizio, adattabilità e apertura su tutto, a tutti: la Chiesa deve materialmente aprirsi, deve spalancare le sue porte al mondo, deve uscire nel mondo, deve identificarsi col mondo, percorrendo strade e crocicchi, invitando chiunque alle nozze dello Sposo: solo che purtroppo, in tanto marasma, nessuno dei suoi “messaggeri” si ricorda più di fare qualche cenno all’obbligo di indossare la “veste nuziale”; oggi, nel moderno banchetto ecclesiale, è completamente scomparsa la figura magistrale del “responsabile di sala” con il compito specifico di “vigilare” preventivamente che il cibo servito ai commensali, provenga rigorosamente dalle scorte del Vangelo, evitando così che la moltitudine accorsa si nutra di cibo avariato, intossicato dal relativismo ateo e gaudente della società contemporanea.
La Chiesa cattolica sta purtroppo progressivamente allontanandosi dalla sua regale e divina prerogativa, di essere cioè immagine vivente, espressione visibile di Cristo, suo fondatore; sembra cioè che le sue urgenze siano altre, che abbia in particolare rinunciato del tutto al suo compito di “nutrire” con la Parola le folle, di “guarire” i feriti dal maligno, di “risuscitare” i peccatori, morti alla Grazia, esattamente come Gesù ha insegnato di fare.
Così, però, quel “fumo di satana”, tanto temuto dai santi pastori di un tempo, sta progressivamente invadendo, ammorbando e soffocando i suoi settori vitali.
Ci consola e ci sostiene la promessa di Cristo: “Io sarò con voi fino alla fine del mondo - èos tès suntelèias tù aiònos” (Mt 28,20). Ed è vero: perché ci sarà sempre nella Chiesa un insopprimibile manipolo di umili e santi profeti, che con la loro voce, le loro preghiere, la loro predicazione e la loro vita esemplare, riusciranno ad epurare ogni sudiciume e, come già il profeta Giona per la biblica Ninive, scongiureranno la totale distruzione della Casa di Dio terrena.
È quindi al seguito di questi degni, instancabili e fedeli “pescatori”, che anche noi dobbiamo prontamente tornare al “metodo” insegnato da Gesù; non abbiamo più molto tempo, non abbiamo secoli a nostra disposizione, perché, come ci ricorda Paolo, “il tempo si è fatto breve!” (1Cor 7,29). Ma esattamente qual è questo “metodo” di Gesù? È amore, misericordia, condivisione, fraternità, formazione: Egli per tutti è stato padre, pastore, medico, taumaturgo: guardava le persone, le amava, le conquistava.
Il suo era un amore profondo, concreto; un amore misericordioso, fatto di accoglienza, di ascolto, di empatia, di conforto, di emozioni, di pianto, di gioia, di fiducia; ma era anche, non dimentichiamolo mai, un amore esigente, esclusivo, severo, attento, un amore che quando necessario, rovesciava banchi e mercanzie, sferzava venditori e ladri che occupavano vergognosamente l’area del sacro Tempio.
L’uomo contemporaneo, galvanizzato, stordito dal falso e indecente edonismo ateo, vive pertanto nella necessità vitale, di percepire, di sentire, di “toccare” con mano, questo amore, questa agàpe che è Dio stesso; ha estrema urgenza di questo amore che, unico nella sua simbiosi di misericordia e giustizia, riesce a illuminare la sua mente, trasformare il suo cuore, risanare la sua anima. Noi per primi, abbiamo personalmente bisogno di questo amore. La Chiesa tutta, comunità di cristiani, ne ha assoluto bisogno! Amen.

 

giovedì 11 gennaio 2024

14 Gennaio 2024 – II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 1, 35-42 
In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi - che, tradotto, significa maestro -, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui: erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» - che si traduce Cristo - e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa», che significa Pietro.

Il Vangelo di oggi ci descrive la “vocazione” dei primi discepoli di Gesù. Del primo conosciamo il nome: è Andrea, fratello di Pietro; il secondo dovrebbe essere proprio colui che descrive i particolari dell’incontro, Giovanni l’evangelista. Essi sono entrambi discepoli del Battista: ed è sufficiente che quest’ultimo, vedendo passare Gesù, dica: “Ecco l’agnello di Dio”, che i due, senza dire una parola, quasi attratti magneticamente dalla sua personalità, abbandonino il loro maestro e si mettano silenziosamente al seguito di Gesù, felici in cuor loro di poterlo seguire. 
Andrea corre poi dal fratello Simone e cerca di coinvolgerlo nel suo entusiasmo: “Abbiamo trovato il Messia!”, ma deve fare i conti con la diffidenza di quest’ultimo: Simone infatti segue il fratello senza dimostrare al momento alcuna eccitazione, alcun interesse o curiosità. Non per nulla Gesù, vistolo arrivare, gli cambia subito il nome in “Cefa”, ossia “Testa dura, testa di pietra”. Simone poi, nonostante sulle prime sia rimasto un po’ sospettoso, diffidente, superato il momento, si entusiasmerà come e più degli altri, raggiungendo col tempo vette di pensiero, di amore e di intuizione, inarrivabili da tutti gli altri.
Cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù bisogna appassionarsi, lasciarsi entusiasmare, lasciarsi andare. La sua chiamata riguarda il cuore non la mente. Rispondere alla sua chiamata, significa seguirlo senza fare calcoli, senza compromessi, spinti solo dalla forza del cuore, dai sentimenti, dalle emozioni.
È successo e succede così anche per noi? Siamo veramente gente appassionata? Gente entusiasta? Siamo felici di essere “Chiesa”? Viviamo con trasporto e partecipazione le liturgie di lode? Ci emozioniamo? Beh, dobbiamo riconoscere che a volte è piuttosto difficile scorgere nei nostri volti energia, interesse, emozione, vitalità, entusiasmo: è più facile vedere persone che ogni tanto sbirciano l’orologio…
Dobbiamo capire invece l’importanza del lasciarsi appassionare da Gesù: perché solo se siamo entusiasti, convinti, gioiosi, potremo a nostra volta coinvolgere altri a seguirlo, come hanno fatto i primi discepoli del vangelo: il Battista con Andrea e l'altro discepolo, Andrea con suo fratello Simon Pietro, Filippo con Natanaele, e così via.
Del resto è una cosa naturale: se incontriamo qualcuno o qualcosa che ci rende felici, che ci fa vivere bene, soddisfatti, ne parliamo subito volentieri con gli altri, desideriamo che anch’essi facciano la nostra stessa esperienza.
A volte però siamo ancora più diffidenti di Simone, preferiamo rispondere: “No, grazie, non mi interessa, non fa per me!” e lasciamo cadere la cosa. Anche se non abbiamo neppure provato! Infatti non è vero che non fa per noi: è che siamo sospettosi, abbiamo paura, non vogliamo metterci in gioco. Ciò significa purtroppo che dentro di noi, nel nostro cuore, non c’è entusiasmo, non c’è vita, siamo già morti!
Che cosa cercate?”, chiede Gesù ai due discepoli: una domanda che continua a ripetersi molto spesso anche in noi.
Attenzione alle parole: Gesù non chiede “chi” cercate, ma “cosa” cercate. Sembra irrilevante, ma la differenza è fondamentale: perché sono le “cose” che cerchiamo, che desideriamo, quelle che stabiliscono se, alla fine, siamo degni del “chi” vogliamo incontrare.
Sappiamo per esperienza che in genere il nostro cercare, il nostro desiderare, non va oltre alcune “cose” concrete, come: l’auto nuova, i vestiti eleganti, gli oggetti che fanno “tendenza”, un buon lavoro, vacanze e divertimenti, un cospicuo conto in banca, una casa signorile.
Ma sappiamo anche che queste “cose” non placano il nostro desiderio: sembra, ma non lo fanno! Una volta raggiunto l’obiettivo, infatti, veniamo nuovamente presi dall’insaziabile voglia di “altro”, e continueremo a trascinarci nell’insoddisfazione, alla ricerca angosciante di “cose” sempre nuove.
C’è però un “desiderio” profondo, vero, originale, di origine soprannaturale, celestiale (desiderio, da “de-sidera”; letteralmente: “che riguarda le stelle, le cose celesti, il divino”); un desiderio quindi inciso nella nostra anima, veramente speciale, senza limiti, che ci appassiona, che crea appunto una tensione continua verso il divino, verso Dio, al quale il nostro cuore anela inquieto fin dalla nascita, come ci spiega sant’Agostino: “inquietum est cor nostrum donec requiescat in te, il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te” (Confessioni, 1,1,1).
È solo questo che Gesù vuol sapere da noi: “Cosa cercate?”, una domanda che espressa in altre parole, vuol dire: “Se cercate, se desiderate la vita vera, quella immortale, la libertà assoluta, la completa felicità, allora seguitemi, perché questo è proprio ciò che Io vi offro. Se invece cercate “altro”, se cercate solo cose di questo mondo, provvisorie, instabili, inutili, cercatele altrove!”.
Alla domanda esplicita di Gesù, però, i due discepoli rispondono con un’altra domanda, altrettanto chiara ed esplicita: “Maestro, dove dimori?”. Una domanda peraltro che viene un po’ banalizzata dalla traduzione italiana, che non rende perfettamente il significato profondo della richiesta dei due: il testo greco dice infatti: “Pù mèneis? dove rimani?”; quindi non “dove abiti, dove stai di casa, dove dimori”, una domanda cioè fatta con indifferenza, con distacco, tanto per sapere, per pura curiosità; ma “Dove ti trovi? Dove vai? Dove rimani? una domanda che questa volta dimostra interesse, coinvolgimento, voglia di seguirlo. Certo, il lettore distratto difficilmente può cogliere la differenza, ma non l’autore del testo. Perché Giovanni conosce perfettamente il profondo significato del verbo greco “mèno” (rimanere): tant’è che nel capitolo 15 del suo Vangelo, in soli 7 versetti, lo fa ripetere da Gesù, quasi con ostinazione, per ben 10 volte, volendo sottolineare appunto la vitalità del rapporto che deve unire intimamente maestro e discepolo! Così: “Rimanete in me (mèinate en emòi) come io in voi”; “Chi rimane in me” (o ménon en emòi)”; “Rimanete nel mio amore” (menèite en tè agàpe mou) e via dicendo (Gv 15,4-10).
In pratica, Gesù ci invita a “rimanerecon Lui; anzi in Lui: perché è proprio in quel luogo privilegiato ed esclusivo che tutti noi dobbiamo raggiungerlo; è lì, nel suo amore, nel suo e nostro cuore, che egli “rimane”: quindi non di un luogo fisico si tratta, ma di uno stile di vita, di una vita dinamica, fertile, fruttifera, ad imitazione della sua. Dobbiamo cioè vivere, pensare, agire, conformandoci alla sua Parola, per seguirlo nel suo amore verso il Padre, raggiungendolo in lui, e custodirlo con Lui nel “nostro cuore”: perché è lì che Gesù ora “rimane”, è lì che ci aspetta.
Ecco, questo è il grande, unico desiderio che dobbiamo realizzare nella nostra vita di discepoli: “rimanere” con Gesù nell’amore di Dio, smettendo di cercare “fuori”, Colui che va cercato “dentro”.
La vera felicità non sta nell’avere, nell’ottenere sempre più cose, nel crogiolarsi nei piaceri, ma nel cercare, nel muoversi, nell’andare insistentemente alla ricerca del Padre, dell’Amore assoluto, seguendo la strada indicataci dalla Parola, dal Vangelo.
Per questo Gesù risponde: “Venite e vedrete”. Non dà alcuna indicazione precisa, ma: “Vuoi sapere dove sono? Vieni e vedi! Vuoi seguirmi? Vieni e vedi. Vuoi conoscermi a fondo? Vieni e vedi! Venire”, infatti, è un verbo di movimento, un verbo dinamico: Gesù non invita nessuno a starsene seduto a pensare, aspettando che passi il tempo; il suo è un invito perentorio: dovete muovervi, dovete uscire dalle vostre posizioni, dalle vostre idee, dalle vostre convinzioni!
Il motivo per cui Dio ci fa paura è sicuramente perché ci vuole protagonisti, responsabili. Non possiamo ignorare la sua chiamata, è un fuoco che ci brucia dentro: non sono ammesse mezze misure, compromessi, non sono tollerati “distinguo” o astuzie mentali: con Lui dobbiamo sempre arrivare al “tutto”, il “poco o niente” non sono accettati. Con lui dobbiamo tendere sempre al massimo, perché chi si accontenta del poco, rischia di non ottenere neppure quello.
Quindi, tutti dobbiamo “andare e vedere”; tutti dobbiamo fare piena esperienza di Lui, dobbiamo calcare esattamente le sue orme, dobbiamo renderci conto di persona di ciò che vuole da noi: non è ammesso fermarsi al “mi pare” al “si dice”; ciascuno deve “andare e verificare”, deve controllare con i propri occhi. Dobbiamo insomma poter dire come Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio; ma ora i miei occhi ti vedono!(Gb 42,5).
Sapere tutto sull'amore è sicuramente una cosa buona; ma provare l’Amore, vivere l'Amore è tutt'altra cosa. Conoscere interi trattati di teologia non ci autorizza a dire di conoscere Dio. Ma solo quando abbiamo superato cristianamente le prove e i dolori della vita, solo quando abbiamo provato la cruda sofferenza per la perdita di un figlio, di un genitore o di una persona cara, possiamo capire cosa significhi rifugiarsi nell’amore di Dio, cosa voglia dire fare esperienza del suo amore.
Per vivere il vangelo ci vuole coraggio, determinazione. Il vangelo non è rassicurante: non ci dirà mai: “Andrà tutto bene, tutto filerà liscio come l'olio”. Non è così.
Dio non ci dirà mai: “Vivi tranquillo, non avrai mai problemi!”; ma: “Non aver paura della tua debolezza, dei tuoi dubbi, delle difficoltà che incontrerai, perché io sono sempre con te!”. Crediamo nelle sue Parole rassicuranti: le ha dette anche a San Paolo, quando durante la sua missione era costretto a misurarsi con i Giudei minacciosi: “Noli timere, non temere, continua a parlare, non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male!” (At 18, 9s); una certezza che più tardi lo farà esclamare: “Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, disperati, perseguitati, ma non siamo abbandonati!” (2Cor 4,9).
E allora, anche noi, di cosa dobbiamo aver paura? Si Deus pro nobis, quis contra nos? Se Dio è dalla nostra parte, chi può mettersi contro di noi? (Rm 8,31). Ecco, questa è anche la nostra certezza. Amen.

 

giovedì 4 gennaio 2024

07 Gennaio 2024 – BATTESIMO DEL SIGNORE



Mc 1,7-11 
In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni.
E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento". (Mc 1,7-11).

Marco inizia il suo vangelo presentandoci Giovanni Battista che, nel territorio posto in prossimità del Giordano, va predicando a tutti la necessità di sottoporsi al battesimo. Un battesimo piuttosto impegnativo il suo, un battesimo fondato sulla metànoia, sulla “conversione”, ossia su di un radicale cambiamento di mentalità e di valori. Un battesimo insomma che costituisce il segno, il simbolo, dell’avvenuta conversione. In pratica il Battista dice: “Io, con il battesimo, vi tolgo i peccati di un passato sbagliato, ma siete voi che dovete cambiare vita, cambiare mentalità, modo di pensare, altrimenti che senso ha venire da me per una semplice abluzione esteriore? non serve assolutamente a nulla”. 
Il Battista conosce perfettamente i propri limiti e rilancia il suo messaggio in una prospettiva nuova: egli sta con le spalle rivolte al passato, ma con il dito puntato in avanti, per indicare l’arrivo imminente della nuova economia, quella dell’amore, della grazia, non del provvisorio lavaggio delle colpe, ma del loro totale e definitivo perdono.
È a questo punto che succede qualcosa di impensabile, di imbarazzante. Confuso tra la folla accorsa da lui al Giordano, gli compare improvvisamente lo stesso Gesù; e anche lui, come tutti gli altri, si mette in fila per farsi battezzare, per farsi “lavare” i peccati. Un fatto che poi metterà in difficoltà i primi discepoli della giovane Chiesa: “che bisogno aveva Gesù di “lavare le colpe”, di farsi togliere i peccati? Che voleva dimostrare con questo gesto? Che forse anche Lui aveva peccato? Impossibile! E allora perché ricorrere al battesimo di Giovanni?”.
Marco non si pone queste domande. È lapidario: “Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazareth”. In quel verbo “accade” egli fonda tutta la spiegazione dei fatti. Egli intende dire cioè che nella persona di Gesù si concentra il compimento, la realizzazione, di tutte le promesse fatte da Dio nell’antica alleanza: non a caso Gesù ha la stessa radice di Giosuè: di colui cioè che, come leggiamo nella Bibbia, ha condotto il popolo dalla schiavitù alla terra promessa; e qui Gesù, come Giosuè, conduce infatti tutti i popoli dalla schiavitù del peccato, alla terra promessa dell’amore e della libertà.
Marco dunque dice che Gesù si fa battezzare: all’inizio del suo ministero, cioè, si presenta in fila come gli altri peccatori, in tutto solidale con gli altri uomini. Ma egli non confessa i suoi peccati, come fanno loro: Lui si fa battezzare soltanto per trasformare il battesimo di Giovanni, simbolo di morte, in un battesimo nuovo, simbolo di vita.
Giovanni fa immergere le persone perché “muoiano” al peccato, perché inizino una nuova vita, un passaggio dalla morte del peccato, alla vita della conversione: tutto ciò che c’è stato prima deve morire, deve venir estirpato, cancellato, eliminato. Ma Gesù non vive questo battesimo di morte. Lui vive un battesimo di resurrezione. Marco infatti fa notare questa differenza ricorrendo ad un verbo particolare: per dire che Gesù “esce” dalle acque del Giordano, usa anabàinon, che vuol dire uscire, ma “salire”, lo stesso verbo usato quando, dopo la resurrezione, dopo aver vinto la morte, Gesù esce, lascia questa terra per “salire” in cielo. Stesso verbo, stesso significato.
Lo scopo del Battesimo di Gesù, quindi, non è tanto quello di affrancarsi dal peccato originale, di purificarsi dai peccati (che lui non aveva), quanto piuttosto, come ci dicono tutti i vangeli, nel far discendere sulla sua persona, e con Lui su ogni uomo, il dono dell’amore del Padre.
Marco infatti continua: “E subito salendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli”; letteralmente, vide i cieli “skizomènus”, squarciati, spaccati, aperti, rotti in modo irrecuperabile: l’allusione alla convinzione biblica sulla “chiusura” ermetica dei cieli, è chiara: fino ai tempi di Gesù si credeva infatti che Dio, indignato per i peccati del popolo, si fosse ritirato nella sua dimora celeste, sigillandone ogni ingresso. Dio non si concedeva più, non si comunicava più al suo popolo. Non c’era più comunicazione fra Dio e gli uomini. I cieli, luogo della dimora di Dio, erano stati sbarrati per sempre. Per questo il profeta Isaia implorava: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi!” (Is 63,19). Era la speranza, il desiderio, che Dio tornasse finalmente a comunicare con l’uomo, a rapportarsi ancora con lui, in un colloquio interminabile, eterno, senza l’interposizione di altre chiusure.
Ebbene: questa speranza si concretizza con il battesimo di Gesù: è qui, infatti, nel momento stesso in cui lui “sale” dalle acque, che i cieli si squarciano: Dio, in Gesù, attraverso Gesù, polverizza ogni diaframma e torna a comunicare con l’uomo, torna a donarsi all’uomo, e lo fa in maniera totale, radicale, definitiva. Marco non dice “i cieli si aprono”: perché come si sono aperti, potrebbero anche chiudersi nuovamente; egli usa un termine che richiama il senso di irreparabilità: la differenza tra apertura e squarcio sta tutta qui: lo squarcio è un’apertura definitiva, violenta, irrimediabile; da quel momento qualunque tentativo di chiusura sarà impossibile, il passaggio creato da uno squarcio è destinato a rimanere aperto per sempre. Ricordate? Marco usa questo stesso verbo “squarciare” anche quando descrive i fenomeni avvenuti al momento della morte di Gesù: “il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso”: il velo enorme che nascondeva alla vista del popolo la presenza e la gloria di Dio, improvvisamente, si squarcia in maniera irreparabile, definitiva. L’evangelista cioè intende sottolineare nuovamente, come il Dio velato, il Dio nascosto, si sia rivelato definitivamente in Gesù crocifisso. Lui stesso è l’immagine visibile di Dio: è il Crocifisso, infatti, il segno tangibile dell’amore di Dio per gli uomini, reso ormai visibile a tutti e per sempre; un segno che non potrà più nascondersi alla nostra vista, anche se lo rifiutiamo, anche se non lo vogliamo più, anche se lo umiliamo, se lo disprezziamo, se lo crocifiggiamo di nuovo. Dio, dopo Gesù, non potrà mai più smettere di amare l’umanità. 
La spiegazione? È la discesa dello “Spirito”. Marco qui usa l’articolo: “to pneuma”: non uno spirito qualunque, ma “Lo Spirito”. L’articolo determinativo indica la totalità della forza e della vita di Dio: ed ora tutto questo è in Gesù. Cioè tutto lo Spirito è su Gesù. Non una parte, tutto. Gesù è il possessore dell’intero “Spirito”. In Gesù si manifesta, non una parte di divinità, ma la pienezza della divinità: l’essenza della divinità.
Ecco perché analizzando il Battesimo di Gesù, è impossibile non rilevare la stretta correlazione con il racconto della sua morte: quando Gesù “muore” (Mc 15,37) si dice infatti che “spirò” (ek-pneuo). Gesù, nei vangeli, in realtà non “muore” mai, nel senso che questo verbo non viene mai usato; non si dice mai che Gesù muore, ma che emette lo spirito. È chiaro che Gesù è morto, ma usando questo termine gli evangelisti vogliono contemporaneamente dire che il suo Spirito non muore, non può morire; egli rimane vivo, è già risorto, lui vive già da allora e vivrà per sempre: lui non è mai morto. Sulla croce Gesù ha "reso", ha restituito lo Spirito al Padre. Cosa vuol dire? Vuol dire che lo Spirito che Gesù riceve qui durante il Battesimo, è quello stesso Spirito (pneuma) che egli emette alla sua “morte”, è quello Spirito che uscito da Lui, continuerà a vivere su tutti coloro che vivranno come Lui; quello stesso Spirito d’Amore che Egli dispenserà in dono a tutti nella Pentecoste, lasciandolo in eredità alla sua Chiesa.
Poi Marco aggiunge: “E ci fu una voce (phoné) dal cielo”. Anche prima di “emettere lo Spirito” sulla croce, Gesù dà un forte grido (phoné): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?(Mc 15,34). È la “voce” dell’amore di Dio. Tutta la vita di Gesù è immersa nell’amore del Padre che lo sostiene, lo protegge e lo spinge a realizzare, a compiere, il suo progetto di salvezza.
Ed è quest’amore, questa voce di Dio che, attraverso Gesù, ci fa sentire al sicuro, protetti, amati, sorretti. Noi abbiamo bisogno di un amore che ci ami al di là di tutto, un amore che ci sia sempre e in ogni caso; un amore che non venga mai meno per nessun motivo; un amore che sia impossibile perdere. Solo così, forti di questo amore, potremo affrontare qualunque difficoltà.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma io non lo sento questo Dio che parla!”. Certo, ma se non lo sentiamo, non è perché Lui non parla, ma perché noi siamo sordi. Non lo sentiamo, perché siamo distratti da mille altre voci, da altri frastuoni, dai tantissimi rumori che coprono la sua voce. E poi, soprattutto, “dobbiamo volerlo” sentire. Cosa che non è automatica. Perché troppo spesso abbiamo paura di conoscere quello che potrebbe dirci; preferiamo quindi non sentirlo, preferiamo fare i sordi, preferiamo coprire la sua voce con i mille rumori di questo mondo.
Ma è proprio qui che sbagliamo: perché se vogliamo sentire la sua voce, dobbiamo creare intorno a noi il cosiddetto “silenzio dell’ascolto!”. Dobbiamo cioè mettere a tacere tutte le voci inutili, gli urli sguaiati, assordanti. Dio non ama il frastuono da discoteca: Dio ama il silenzio, il raccoglimento, la calma interiore. Vi ricordate l’incontro di Elia con Dio? “Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era in una brezza leggera” (1Re 19,11-12): questo deve succedere anche per noi: perché Dio non è lontano, non ha bisogno di gridare, è “dentro” di noi: e parla, “sussurrando”, alla nostra coscienza.
E concludo con due verità, entrambe consolanti: Dio ci ama di un amore incondizionato. E quando noi ci sentiamo amati, troviamo la forza per affrontare qualunque cosa. Quando ci sentiamo nell’amore di Dio, diventiamo assolutamente irresistibili.
L’amore umano, anche il più grande, il più bello, pone sempre delle condizioni: abbiamo imparato che per essere amati, dobbiamo sempre dare qualcosa in cambio. Ma Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, perché dobbiamo contraccambiare. Dio ci ama semplicemente perché siamo “noi”, siamo quella “sua” particolare creatura. Non dobbiamo temere di aprirci con Lui, di non dirgli certe “nostre cose” per farlo contento ed evitare qualche “penitenza”. Con Dio non è così. A Lui possiamo raccontare veramente tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo di più, anche ciò che ci fa più male, che ci ripugna di più, che ci fa veramente schifo. Lui ci ama sempre e comunque. Lui ci ama sempre e nonostante tutto: ci ama di un amore vero, sincero, gratuito: un amore che sgorga dal suo cuore e che si chiama “grazia”. Ma noi cosa dobbiamo dargli in cambio? Assolutamente nulla! Dobbiamo dirgli soltanto: “grazie, Padre mio!”. Amen.