Oggi
la Chiesa celebra la festa della Trinità. Un titolo che non esiste nei Vangeli;
un concetto teologico sconosciuto agli apostoli: essi annunciavano soltanto la
loro grande verità: “Quello che è stato crocifisso, Gesù, non è morto, ma è
vivo. Noi lo abbiamo veduto, lo abbiamo incontrato; lo sentiamo dentro di noi”.
Punto. Questa era la loro fondamentale testimonianza. E per la Chiesa nascente
questo bastava.
Col
passare degli anni però i primi cristiani cominciano a chiedersi qualcosa di
più sulla persona di Gesù: “Cosa vuol dire che è Figlio di Dio?”. E poi: “In
che modo Gesù è il Figlio di Dio?”. E ancora: “Chi è Dio?”. Per noi questa è una verità trinitaria definita e raggiunta, ma all’inizio non fu affatto così. I primi secoli furono tormentati dal tentativo di capire chi era Dio e il suo rapporto con Gesù. C’era chi diceva: “Il Padre è divino, il Figlio (Gesù), in quanto Figlio, viene dopo. Gesù è un Dio minore rispetto al Padre”. Altri dicevano: “Il Padre, il Figlio e lo Spirito sono solo tre modi con i quali Dio si è manifestato”. Altri ancora: “Gesù era un uomo uguale a tutti gli altri: poi Dio si è incarnato su di lui e lo ha scelto per farlo suo Figlio. Gesù quindi non era da sempre Figlio di Dio”.
Nel 325 a Nicea ci fu finalmente un concilio che stabilì: “Il Padre e il Figlio sono della stessa sostanza”, usando per “sostanza” il temine greco “omousios” che vuol dire esattamente “della stessa essenza”. Il concilio di Costantinopoli, infine, nel 381 stabilì che anche lo Spirito Santo è “omousios”, cioè della stessa sostanza del Padre e del Figlio.
Ma colui che chiarì in maniera chiara, accessibile a tutti, il mistero della Trinità, fu Sant’Agostino, che nel suo “De Trinitate” spiegò: il Padre è l’Amore (Amans), il Figlio è l’Amato (Amatus) e lo Spirito è l’Amore (Amor) reciproco tra Padre e Figlio.
Le tre persone divine non sono quindi assolutamente statiche (cioè tre dei diversi, che se ne stanno per conto loro), ma sono dinamiche, sono cioè in continua relazione tra loro. “Dio è Amore; Dio è Relazione”. Una verità inesprimibile, teologicamente abbastanza ostica per noi: tant’è che per parlare di questa relazione che intercorre tra i tre, Padre, Figlio e Spirito Santo, il Concilio usò la parola “pericoresi”: dal greco “peri-coreo” che vuol dire andare attorno, girare intorno, danzare. La Trinità è pertanto Vita, Relazione, Danza, Divenire, Amore, Comunicazione, un Darsi e Riceversi continuo, persistente, eterno.
La prima grande verità della festa di oggi è quindi che, ad immagine della Trinità, tutta la vita, tutto il creato, tutto ciò che ci riguarda, tutto ciò che accade è in costante relazione: quindi è sbagliato pensare che le nostre azioni, tutto ciò che facciamo, riguardi solo noi. Al contrario, ciò che facciamo, nel bene e nel male, si ripercuote immancabilmente anche su tutti gli altri, su ogni creatura. Ugualmente, tutto ciò che gli altri fanno, ricade inevitabilmente anche su di noi.
Pertanto, se noi diventiamo più consapevoli, tutto il mondo diventerà più consapevole; se diventiamo più fiduciosi nella Vita, più coraggiosi nelle scelte, più illuminati o più maturi nel nostro essere uomini di fede, tutto il mondo diventerà così. Quando noi odiamo qualcuno, non solo noi ma tutto il mondo subirà gli effetti del nostro odio. Quando malediciamo la vita, malediciamo tutta la Vita. Quando nutriamo pensieri omicidi per qualcuno, tutto il mondo subirà l’onda lunga di questi nostri pensieri. Così quando amiamo, tutto il mondo godrà dell’onda lunga del nostro amore.
Identica cosa succede soprattutto quando noi preghiamo, quando il nostro cuore è unito a Dio: i benefici che ne traiamo da questa unione soprannaturale, non sono riservati solo a noi, ma ricadono per davvero anche su tutto il mondo. E in questo modo tutto il mondo diventerà più aperto, più spirituale, più profondo, più vicino al Cuore di Dio.
Purtroppo noi non pensiamo mai abbastanza a questa potenza vitale della preghiera! Ma se pregassimo di più, se i nostri cuori viaggiassero più spesso sulla frequenza dell’Amore di Dio, tutto il mondo (oltre ovviamente noi) diventerebbe decisamente migliore, più santo, più elevato, più umanamente sostenibile.
Tutto è collegato al Tutto. Tutto è Uno e Trino; cioè tutto è interconnesso, comunicante, con il Tutto, con l’Amore assoluto (Gv 17,11). Per cui nulla può esistere di separato, di isolato, di “al di fuori”; niente e nessuno può esistere, se non entrando in relazione con il Creatore e con il resto del creato.
Quando la cronaca ci informa di delitti, di tragedie, di malcostume, la nostra miopia ci porta a considerarci sempre personalmente estranei, come se ciò fosse possibile (cfr. Mt 13,24-30). E una volta trovato il colpevole, tiriamo un sospiro di sollievo, e tutto torna come prima nella spensieratezza: tutti ci sentiamo più tranquilli, sereni, a posto, visto che il colpevole è stato individuato e assicurato alla giustizia; e purtroppo non ci rendiamo conto che la società intera è individualmente coinvolta in quei delitti; tutti indistintamente ne siamo responsabili.
La festa della Trinità ci insegna oggi anche un’altra grandissima verità: che “l’Amore sostiene ogni cosa”.
Cosa significa: abbiamo detto che la Trinità è l’Amore; dire Trinità è infatti un altro modo per dire Amore (ricordate? Pater Amans, Filius Amatus, Spiritus Amor).
L’amore è dunque la realtà ultima e più profonda di ogni cosa. Tutti cerchiamo l’amore. Tutti vogliamo essere felici; tutti siamo “sostenuti” dall’amore.
Ma perché allora siamo così spesso tristi, disperati, infelici? Perché, avendo un cuore “marchiato” dall’Amore, non riusciamo ad amare così come Gesù ci ha insegnato, e conseguentemente non ci sentiamo amati come vorremmo. In pratica non abbiamo ancora una sufficiente esperienza del Vero Amore, di quello autentico, di quello di Dio, vero, totale, sincero: e ciò procura uno scompenso nella nostra vita, un’intima inquietudine, un tormento profondo, un vivere quasi nell’anticamera dell’inferno.
L’amore divino è infatti quella forza-debolezza che ci sostiene, che è dentro di noi, che ci riscalda e ci guarisce. È forza, perché se ci sentiamo amati, possiamo affrontare qualunque cosa, possiamo superare qualunque difficoltà, niente più ci incute timore o insicurezza. Ma è anche debolezza, delicatezza, nel senso che l’amore di Dio è dolce, sensibile, gratuito, talmente appagante da commuoverci; un amore che non ci viene imposto, che non possiamo comprare, che non possiamo pretendere, che non possiamo comandare. È una forza, quella dell’amore di Dio, che infonde coraggio, potenza, entusiasmo, autorevolezza, ma solo per consentirci di ri-amare gli altri con umiltà, discrezione, tatto e gentilezza. Come ci ha insegnato l’uomo Gesù. Il suo amore è stato un amore crocifisso; un amore che non si è difeso contro le infamie dei suoi carnefici, che non ha voluto sottrarsi all’odio dei suoi persecutori. Che c’è infatti di più debole, di più fragile, di più esposto alla cattiveria umana di questo amore? Che c’è di più vulnerabile, di più indifeso di questo amore? Eppure questo è l’amore che ha salvato il mondo: e che continuerà a salvarlo fino alla fine dei tempi. Gesù amava in questo modo: con dolcezza, con comprensione, con garbo; ma anche con forza, con grande chiarezza, con onestà, con determinazione: non si imponeva, non faceva paura alle persone, non le terrorizzava; faceva una proposta e se non era accolta, non ne faceva una questione personale; non era aggressivo, non manipolava nessuno. Gesù avvicinava i più deboli, i più derelitti, i più indegni, i peccatori più incalliti, e diceva a ciascuno: “Sono qui per amarti: ti và di aprirmi il tuo cuore?”. Non forzava e non buttava giù la porta; sapeva benissimo che a volte la paura di aprirsi, di abbandonarsi, di lasciarsi amare nonostante una vita miserabile, era talmente così grande e invalidante, che le persone interpellate preferivano rifiutare.
A tutti, in ogni caso, egli diceva: “Anche se ora tu non mi ami, non preoccuparti, perché io aspetterò: non rinuncerò mai ad amare proprio te”.
Pensiamo allora anche solo per un minuto alla meraviglia di questo amore divino, così forte e così debole insieme; pensiamo al dono impareggiabile che Dio mette a nostra disposizione, amandoci come solo Lui sa fare; un modo di amare assolutamente appagante e totalmente gratuito, che noi purtroppo sistematicamente ignoriamo: ma – scusate - che c’è di più forte, di più entusiasmante, di più corroborante, del sentirci dire da Dio: “Io ti amo!”. “Ma io Signore sono indegno, ho fatto le peggiori cose, mi sono macchiato delle colpe più infamanti”. “Non importa, io ti amo comunque; ti amo per quello che sei, qualunque errore, qualunque delitto tu abbia commesso”; e che c’è di più debole, di più dolce, di più affettuoso che sentirci rassicurare: “Non voglio niente da te, non mi aspetto niente, non ti chiedo niente, non ti impongo niente: io sono qui con te, sarò sempre alla porta del tuo cuore: entrerò solo se e quando tu vorrai”.
Straordinario! Vi ricordate la scena del figliol prodigo, quando tornò dal Padre? Si era preparato per bene il suo discorso: “Gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te: e bla... bla... bla...”. Ma prima ancora che aprisse bocca, il Padre, appena lo vede da lontano, gli corre incontro, lo abbraccia, e nel suo commosso silenzio gli dice: “Ti aspettavo”. Nient’altro: nessun rimprovero, nessuna recriminazione, nessuna accusa.
Ebbene, in quel preciso istante il figlio disgraziato capisce l’amore: la debolezza del Padre gli entra dentro l’anima, gli invade il cuore. Sì, perché l’amore è la forza esplosiva più potente che esista: ma è anche la più debole, la più fragile, delicata: perché ci basta un nulla per vanificarla. Amen.