giovedì 14 maggio 2015

17 Maggio 2015 – Ascensione del Signore

«Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti…» (Mc 16, 15-20).
Oggi la chiesa celebra la festa dell’Ascensione, la salita di Gesù in cielo. Marco ce ne fa una descrizione molto particolareggiata. Sarà successo tutto come lui racconta? No! La sua non è una cronaca, ma una descrizione teologica (oltretutto queste righe sono un’aggiunta successiva al vangelo di Marco). In pratica il testo qui vuol dire: “Io me ne vado, non ci sarò più; ma rimarrete voi. Io non parlo più, non opero più, ma continuerò a farlo attraverso voi. Voi siete le mie labbra, le mie mani, i miei piedi, i miei occhi e il mio cuore. Io sarò ancora materialmente presente in questo mondo grazie a voi”.
Quindi l’ultima raccomandazione: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura». Per ben due volte il testo usa il verbo andare e per due volte predicare; l’invito è seguito dal suo compimento: Allora essi partirono e predicarono dappertutto (16,15.20). Un compito che nessuno in futuro dovrà mai dimenticare.
Chi c’era prima che andava dappertutto? Chi era prima il maestro e predicatore? Gesù, ovviamente. Ma adesso Lui non c’è più e manda i suoi discepoli. Loro sono i nuovi Gesù. E attenzione: “In tutto il mondo... ad ogni creatura... dappertutto”: il vangelo (eu-anghelion = buona/bella notizia) è per tutti.
Cos’aveva fatto Gesù? Mentre i religiosi ebrei discriminavano e dicevano: “Questi sì e quelli no; questi sono buoni e quelli cattivi; questi sono degni e quelli no; questi in paradiso perché puri, quelli all’inferno perché impuri (donne, peccatori, pubblicani, pastori, pescatori, lebbrosi, ammalati, usurai, ecc.)”, Gesù invece diceva: “Io vado da tutti. Io non guardo in faccia nessuno, non guardo la carta d’identità, la bellezza, la simpatia; io guardo il cuore. Ho un messaggio da proporre al tuo cuore, un messaggio di luce, di vita, d’amore, di riconciliazione, di pace, di verità. E vengo da te. Se lo accogli, bene; se non lo accogli vado da un’altra parte. Ma Dio è per te e per tutti”. E proprio per questo Gesù dice: “Andate da tutti, dappertutto, da ogni creatura”.
Una volta si interpretavano queste parole dicendo: “Bisogna convertire il mondo. Bisogna rendere cristiani tutti gli abitanti del mondo. Bisogna battezzare tutti”. Ma Gesù non voleva fare né proseliti, né servi. Gesù voleva solo portare a tutti il vangelo, il suo annuncio di salvezza. Voleva dire: “Guarda, Dio è dentro di te; tiralo fuori, fallo vivere, esprimilo. Non hai neppure idea che forza, che potenza, che energia tu abbia dentro di te. Tu sei già di Dio, sei “divino”: io non vengo per importi qualcosa ma solo per convincerti a guardarti dentro, ad esprimerti, a renderti conto di ciò che tu, senza saperlo, già sei; a convincerti che se tu vuoi, puoi dimostrare a tutti quello che sei realmente”. Chi gli credeva, guariva dalle malattie del corpo (ciechi, zoppi, lebbrosi, ecc.), guariva dalle malattie della vita (depressione, attaccamento, paura di ogni cosa, indifferenza, voglia di morire), guariva dall’aridità del cuore, dalla freddezza e dalla rigidità interna. Alcuni di questi credenti erano così “presi”, così entusiasti, così “toccati” da questa nuova prospettiva, che lasciavano tutto (casa, famiglia, moglie, figli, lavoro, giudizio della gente) e lo seguivano. Erano così cambiati, da chiamare “vita vera, vita autentica” perfino la morte corporale.
Quindi non si tratta tanto di “andare” a convertire il mondo intero, ma di “proclamare il vangelo”, di far capire che il Dio del vangelo è veramente il Dio di tutti, di quelli che credono e di quelli che non credono, di quelli vicini e di quelli lontani, dei buoni e dei non buoni, dei giusti e dei non giusti.
In particolare, cosa vogliono dire queste parole? Che Dio è di tutti: soprattutto lo è già di tutti. Non si tratta di mettere dentro al loro cuore un qualcosa di nuovo; al contrario di tirar fuori qualcosa che già hanno dentro! Dio è la possibilità di un incontro, di un’esperienza che tutti possiamo fare con lui, perché egli vive già, dormiente, in ciascuno di noi.
Nessuno ha l’esclusiva di Dio. Dio non appartiene a nessuno: non è né mio né tuo. Non è neppure della Chiesa cattolica: semmai è la chiesa cattolica che appartiene a Dio, non Dio alla Chiesa. Nessuno può dire: “Io conosco già tutto di Dio, e questo mi basta”; al contrario: “Io voglio vivere fino in fondo tutto quello che conosco di Dio”.
La catechesi, la predicazione, non devono aggiungere niente di nuovo; devono soltanto far emergere, far risvegliare, far risplendere quel Dio che nella sua grandezza, nella sua potenza, nel suo amore infinito, vive già in ogni creatura umana.
Tutti abbiamo Dio in dono (siamo di Dio!). Ma tutti lo abbiamo in maniera “diversa”, con particolari personalissimi carismi: “Tu hai la tua esperienza di Dio; io la mia. Non devi darmi ad ogni costo la tua; aiutami soltanto a trovare la mia”. Dio non è una formula, né una preghiera, né una pagina di catechesi: Dio è una presenza. Educare a Dio vuol dire mettere gli altri in collegamento, in relazione, col Dio che già vive in loro. Altrimenti non facciamo “annuncio”, ma “costrizione”, vogliamo cioè imporre soltanto la nostra idea, la nostra immagine di Dio (piena tra l’altro delle nostre proiezioni), senza pensare che così facendo allontaniamo la gente dal loro Dio.
Noi siamo i nuovi Gesù. Lui non c’è più, ora ci siamo noi. Gesù ha vissuto un tempo storico, circa trentatre anni, ventun secoli fa. Poi se ne è andato. Adesso ci siamo noi, tocca a noi continuare la sua opera.
Il vangelo è chiaro: “Essi (cioè noi) partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (16,20).
Sono le ultimissime parole del vangelo di Marco: la storia di Gesù finisce qui; da questo momento inizia quella della chiesa, inizia la “nostra” storia. Ma Lui comunque c’è sempre, Lui vive in noi, vive attraverso le nostre mani, i nostri piedi e le nostre labbra. Lui “opera” con noi, attraverso di noi. In pratica è Lui che “conferma” quello di buono che facciamo.
“Operando insieme” (16,20) in greco è “sinerguntos”, da “sin-ergo”: collaborare, cooperare, essere coadiutore, socio, collega: praticamente agiamo in “sinergia”, noi siamo il telaio, le ruote, il volante; Lui è il motore, la potenza, la forza motrice, la nostra energheia.
Eppure, quante volte diciamo: “Ma tu Signore, di fronte a tutto ciò che mi succede, non fai proprio niente? Perché non intervieni direttamente come facevi una volta? Perché non fai qualcosa? Perché non sistemi le cose?”, e ci arrabbiamo, non ci rendiamo conto che ora siamo noi che dobbiamo metterci in gioco per primi, siamo noi che dobbiamo cercare una soluzione: non possiamo pretendere sempre la soluzione già pronta, il risultato finale già in tasca. C’è in atto una stretta cooperazione: Lui fa sempre la sua parte; ma noi? Lui ci ispira, ci da il coraggio, la forza, la costanza di insistere, la “rassegnazione” finale se qualcosa non riesce come noi vorremmo. Tutto nella nostra vita ha un perché, una motivazione, una spiegazione: spetta a noi semplicemente trovarla e capirla.
Con l’Ascensione Dio non agisce più direttamente, in prima persona: lo fa solo attraverso di noi.
Purtroppo il nostro cristianesimo è ancora troppo bambino: chiediamo tutto a Dio: che faccia questo, che ci tolga il dolore, che ci cambi la vita, che cambi il mondo e gli altri, che ci mandi il miracolo o quello che ci serve. Siamo come i bambini che chiedono, chiedono, chiedono sempre e tutto alla mamma e al papà. I piccoli, è vero, hanno bisogno di ricevere il biberon e la pappa pronta. Ma noi siamo grandi e il nostro cristianesimo, la nostra fede, devono essere adulti.
Dio non c’è più, non è più materialmente qui per fare al nostro posto le cose che dobbiamo fare noi. È asceso in cielo. Dio, in questo mondo, non interviene più, non scende più. Non possiamo più appellarci a Lui. Ma attenzione, Dio c’è ancora, eccome! È Lui la forza che c’è in noi, la fiducia e la vita che abitano in noi; a Lui possiamo ricorrere, da Lui possiamo attingere la grazia a piene mani. Da questo punto di vista, dunque, Lui è sempre con noi; interviene e lavora sempre, ma solo con noi, (sin-energia), attraverso noi.
“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (16,15).
Per Gesù “salvezza” è vivere alla luce del vangelo, avere cioè una vita vibrante, appassionata, una vita che esprime gioia, in cui l’amore fluisce e scorre, la tristezza e il pianto escono, la voglia di cantare e di vivere si sprigionano, una vita in cui poter andare con la fede oltre noi stessi, in cui, insomma, poterci sentire vivi, realizzati, accolti.
In questo infatti consiste il nostro “credere”: infiammarci quando incontriamo Dio, bruciare di vita nuova sentendolo vicino. Prima eravamo freddi, di ghiaccio, morti; con la fede ci riscaldiamo, ci sciogliamo e diventiamo terribilmente vivi, infuocati.
Il vangelo, a questo proposito, enumera anche i segni che distingueranno coloro che credono (16,17). Quando leggiamo la vita dei Santi ci viene spontaneo dire: “Che uomini straordinari! Come hanno fatto a fare tutto quello che hanno fatto?”. E rimaniamo stupiti, meravigliati; li consideriamo degli uomini “superiori”, dei super eroi. La verità invece è un’altra: non sono loro ad aver vissuto da supereroi, ma siamo noi che viviamo al di sotto delle nostre possibilità. Quello che hanno fatto loro, è esattamente quello che noi, se vogliamo, possiamo fare.
E vediamo allora questi segni rivelatori: prima di tutto saper “scacciare i demoni”. Nel vangelo i demoni parlano e hanno voce. Nella nostra vita c’è tutto un vociare, un ammasso di programmi, di discorsi, di prediche, di schemi inutili; un peso superfluo che ci appesantisce, che ci impedisce di volare in alto, che ci uccide d’inedia, che ci fa morire di sovrappeso. Ebbene noi possiamo scacciare tutti questi demoni, queste voci, questi schemi: possiamo liberarci di tutta questa zavorra che non ci conduce a Dio, ma lontano da lui. Gli schemi, le parole, sono solo schemi e parole: si possono cambiare, sostituire, eliminare.
“Parlare lingue nuove”. Abbiamo mai ascoltato i nostri discorsi? Di cosa parla la gente? Del tempo, di ciò che ha fatto il vicino, il collega, il capoufficio, dell’ultimo gossip; e poi tante “chiacchiere” inutili, insinuazioni, discorsi vuoti, spersonalizzati, senza un’anima. La gente, parlando, crede di comunicare, di esprimersi; ma non fa altro che moltiplicare linguaggi! Quali sono allora le lingue nuove di cui si parla qui? Semplice: è il linguaggio del silenzio, il grande linguaggio del frenare la lingua, chiudere la bocca e ascoltare: “Sto in silenzio e ti ascolto. Ascolto le parole della tua anima, del tuo cuore. Ascolto la natura, il canto degli uccelli, ascolto il mio e il tuo cuore che batte, il mio e il tuo respiro vitale.
È il linguaggio degli occhi: fermiamoci e guardiamoci negli occhi. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima. È il linguaggio del cuore: parlarsi intimamente, esprimere le proprie emozioni, le proprie paure, i propri bisogni, i propri desideri. È il linguaggio dell’anima: piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi, essere felici. Le persone neppure immaginano quale vibrazione, quanta vita, quanta energia, quanta forza, diano quelle parole, che non sono “parole”, ma effusioni dell’anima.
Altro segno che caratterizza l’uomo di fede è “Prendere in mano i serpenti”. Il serpente è pericoloso, a volte mortale. Quante volte evitiamo cose e persone perché ci sembrano viscide, sfuggenti come serpenti: ci fanno ribrezzo, paura, pensiamo di non farcela ad affrontarle; sono situazioni troppo impegnative per noi, troppo pericolose, troppo insidiose. Ma la nostra è solo paura. “Con me puoi tutto”, dice il Signore. “Prendi in mano ciò che ti fa paura!”. Prendiamo in mano i nostri serpenti: non crediamo più in niente, non andiamo più in chiesa, ci siamo stancati di sentire sempre le stesse prediche, i preti non ci trasmettono più nulla? Esaminiamo il problema! Non abbiamo più fiducia né stima per i nostri colleghi, i nostri vicini, i nostri parenti, i nostri amici, non li sopportiamo più, la loro presenza ci arreca fastidio? Fermiamoci: affrontiamo la questione, prendiamo in mano il serpente, analizziamo la nostra fede, la nostra carità, la nostra coerenza. Svegliamoci dal nostro torpore, scuotiamoci dalle nostre paure; chiediamo a Lui nuova forza, nuovo vigore, nuovo entusiasmo. Perché tiriamo avanti fingendo che tutto vada bene? Non permettiamo che il serpente si nasconda, strisciando nella nostra vita. Pensiamo che un nostro richiamo, un nostro rimprovero, una nostra ramanzina nei confronti di qualcuno sia utile e necessaria? Facciamola! Cosa aspettiamo? “Ma non so come reagirà! Ho paura che se la prenda a male, temo che intervenire sia peggio!”. Le nostre sono solo scuse, delle bugie belle e buone! Se abbiamo fede, se ci comportiamo come ha fatto Gesù, se usiamo la Sua carità, il Suo amore, troveremo sicuramente la forza, il modo giusto e indolore per rendere inoffensivi i nostri serpenti! Lui è sempre con noi, lo sappiamo: e con Lui possiamo affrontare tutto.
È vero: l’uomo Gesù se n’è andato da questa terrà, è asceso in cielo, ha raggiunto il Padre; ma ora qui ci siamo noi. E in noi, sue membra, scorre la sua stessa forza vitale, il suo stesso Spirito. Quello che Lui, il Figlio di Dio, ha umanamente fatto, noi lo possiamo ripetere. Se siamo convinti di questo, se la nostra fede è tale da smuovere le montagne, niente ci sarà impossibile. Gesù stesso lo ha detto: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi perché io vado al Padre” (Gv 14,12). Meditiamo e preghiamo. Amen.

 

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