martedì 25 settembre 2012

30 Settembre 2012 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva… Non glielo impedite, perché… chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa»( Mc 9,38-43.45.47-48).
Per inquadrare bene le proteste che Giovanni rivolge a Gesù, anche per conto degli altri discepoli, dobbiamo fare un passo indietro rispetto al testo del vangelo di oggi: solo qualche giorno prima, infatti, proprio loro, i discepoli più vicini a Gesù, non sono riusciti a scacciare il demonio da un ragazzino. Figuriamoci come ci rimangono quando si accorgono che un tizio qualunque, uno che non è neppure dei loro, ci riesce, eccome! Capite? Cosa non fa la gelosia! Cosa non fa pensare l’invidia: “ Ma come, noi che siamo suoi discepoli, i “chiamati”, gli “addetti ai lavori”, non ci siamo riusciti; e questo qui, che nessuno sa chi sia, che neppure segue Gesù alla lontana, invece sì; il minimo che possiamo fare è di farlo smettere!” Giovanni e gli altri sono ancora fuori dalla logica del “servizio”, sono ancora succubi della mentalità del settarismo, che pretendeva il monopolio della salvezza.
Esattamente come ci comportiamo anche noi, oggi, dopo oltre duemila anni: Non vi sembra di riascoltare le nostre petulanti lamentele? “Ma come, noi andiamo sempre in chiesa, ci sforziamo di osservare le leggi di Dio, non rubiamo, non uccidiamo, eppure siamo considerati come tutti gli altri; anzi Dio ci ama allo stesso modo di quelli che ne combinano di tutti i colori! Non è giusto!”.
Ebbene, fratelli, questo vangelo mette veramente in crisi il nostro modo di pensare.
Un modo di pensare che ci poneva al di sopra degli altri: lungo i secoli infatti, la chiesa ha finito col sentirsi un po’ come l’arca di Noè: fuori di lei non vi era possibilità di salvezza. Soltanto chi vi faceva parte, chi era cioè dentro la chiesa, aveva la possibilità di salvarsi. Soltanto chi era battezzato. Ci sentivamo un po’ onnipotenti, molto esclusivisti. E in proposito si citava il vangelo: “Chi non è con me è contro di me”. Parole sacrosante: ma altrettanto sacrosante sono quelle di oggi: “Chi non è contro di noi è per noi” (Mc 9,40) con cui Gesù, in sostanza, ci mette in guardia dal lanciare giudizi preconcetti, proprio perché un conto sono quelli che combattono, che sono ostili, che si schierano decisamente contro il Maestro, e un altro quelli che non fanno nulla di tutto questo, anzi che lo ammirano pur non appartenendo apertamente al “gruppo” dei discepoli.
L’appartenenza ad una “élite” esclusiva, non deve mai condizionare i criteri di giudizio. Dio non è questione di appartenenza, ma di spirito, di anima, di amore. Gesù abolisce decisamente il criterio: “Non è dei nostri”. Non è dei nostri, e allora? Gesù non guarda “con chi”; non ci chiederà mai a quale associazione apparteniamo, in quale movimento carismatico siamo impegnati; bensì cosa facciamo di buono per gli altri, come siamo dentro, nella nostra anima; con quanta carità trattiamo i nostri fratelli. Gesù non ha mai chiesto: “Tu sei dei miei? Sei cristiano? Da dove vieni? Di che nazionalità sei? Se non sei “dei nostri”, vattene, fuori, via. Sei un infiltrato maledetto!”. Al contrario non si stancava di insegnare: “Fa il bene, ama, sii disponibile, sii accogliente, ascolta, e Dio è sicuramente in te: tu sei benedetto”.
Quanto lontani siamo ancora da Gesù, fratelli miei: pensiamo solo per un attimo a cosa succede oggi intorno a noi: la corruzione dilaga, non esiste più la verità, non esiste più l’ascolto, il rispetto. Esiste solo l’egoismo, la corsa al potere, la faziosità, il preconcetto assoluto. Se chi parla appartiene ad uno schieramento diverso dal nostro, qualunque cosa dica, non ci va bene. Non ci interessa neppure sapere cos’ha da dire: ci basta sapere che è dell’altra corrente, che non è “dei nostri”. Viceversa se qualcuno della “nostra parte” delinque, ne combina qualcuna di veramente grossa, non ci tocca più di tanto, lo difenderemo sempre e dovunque ad oltranza, perché “è dei nostri”. Ma questa, fratelli, è legittimazione della falsità, del crimine, della delinquenza. E di esempi ne conosciamo a migliaia! Le pagine di cronaca di questi giorni ce ne offrono un triste e desolante florilegio.
È vero che l’attaccamento al proprio clan è un retaggio tribale; fondamentale, al pari dell’unione che si crea tra una madre e i suoi figli. Se una madre non sentisse come “suo” il figlio, il figlio non potrebbe sopravvivere. Solo se sentono “propria” la loro creatura, una madre e un padre affronteranno coraggiosamente ogni difficoltà e controversia per difenderlo da ogni pericolo. E in questo modo il piccolo si sentirà di appartenere a quella famiglia, si sentirà in qualche modo inserito nell’autorevole “proprietà” dei genitori. L’istinto di possesso, di attaccamento, di appartenenza è sicuramente fondamentale per la vita; senza di esso non ci sarebbe vita. Ma poi arriva il momento in cui ci viene chiesto di crescere. E sarà l’individuo che deciderà a quale gruppo, a quale famiglia, a quale comunità aggregarsi.
Gesù dice: “Anche se non è dei nostri, ma fa le nostre stesse cose, agisce cioè come noi, è comunque dei nostri”. Non apparterà fisicamente al nostro gruppo ma ha lo stesso nostro spirito. È comunque spiritualmente “uno” con noi; “Dio” e “Spirito”, in effetti, sono Uno.
Si può, allora, essere uniti a Gesù pur non appartenendo alla comunità dei discepoli.
Dio è anche fuori. Dio è anche negli altri, tanto quanto in me. Dio è anche in chi non si definisce cristiano. Il Bene è anche fuori della chiesa. Chiunque fa il bene viene da Dio: “Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome, non perderà la sua ricompensa” (9,41).
Non esiste un unico modo di vivere. Non esiste un unico sistema per essere religiosi, né per salvarsi, né per arrivare a Dio. Esistono molte vie. Ciò che conta non è se le persone “sono come noi” ma se trasudano di verità, di sincera ricerca di Dio, di amore. Se sono così, anche se non si fregiano del nome, sono comunque “cristiane”.
“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo spirito” (Gv 3,8). Dio è più grande dei nostri schemi e delle nostre regole. Dio fa sorgere cristiani anche fra i non cristiani. S. Tomaso diceva: “Da qualunque parte venga, la verità è originata dallo spirito”. Dovunque c’è il bene; dovunque c’è qualcuno che ama; dovunque c’è un’anima grande e uno spirito profondo e onesto, lì immancabilmente c’è Dio.
“Ovunque tu incontri la verità – affermava Erasmo da Rotterdam - considerala sempre cristiana”.
Troppo spesso succede invece che noi ci comportiamo come dei bambini capricciosi: solo quello che facciamo noi va bene; solo come lo facciamo noi è fatto bene; solo il nostro pensiero è quello valido; solo il nostro Dio è vero. Solo noi, solo io, solo così, ecc. Il nostro punto di vista è soltanto la vista da un solo punto!
Eppure non è detto che le vedute degli altri siano tutte sbagliate; a volte semplicemente non sono come le nostre. Ecco perché dobbiamo innanzitutto ascoltare tutti, capirli, avvicinarci con rispetto e confrontarci. La religione (etimologicamente “legare insieme strettamente”) dovrebbe aiutarci proprio a questo: a legare insieme tutte le esperienze di vita, a trovare ciò che abbiamo in comune, a trovare ponti,collegamenti, riferimenti, a illuminarci su ciò che ci unisce e su ciò che ci divide, per farci finalmente incontrare.
Dobbiamo imparare a dire: “Non è migliore o peggiore di noi; è solo diverso”. Dobbiamo arrivare a pensare che le stesse cose possono essere fatte in molti modi e in modi completamente diversi dai nostri. La vita, la giornata, il lavoro, l’educazione dei figli, l’impostazione della vita, sono tutte cose che possono essere concepite in molti modi. E non è detto che un modo sia migliore o peggiore dell’altro; che uno sia giusto o sbagliato; che uno sia buono e uno cattivo. È un modo semplicemente diverso.
Poi il vangelo parla dello scandalo, di essere – come dice altrove – una pietra d’inciampo. Lo scandalo è come quel sassolino che entra nella scarpa e ci impedisce di camminare. “Scandalo” per il vangelo non è tanto qualcosa che ha a che fare con il sesso; è tutto ciò che non ci fa vivere, che ci soffoca, che ci impedisce di procedere nel nostro cammino.
E Marco qui riporta alcune situazioni estreme, riservate a ciò che è causa di scandalo: esempi molto semplici e chiari che comunque non vanno presi alla lettera, ma capiti nel loro senso profondo. Vogliono dire: “Se c’è qualcosa che ti fa male, che ti impedisce di continuare il tuo cammino di vita, che non ti fa libero, che ti paralizza, che ti blocca, è meglio per te toglierlo, tagliarlo, eliminarlo, anche se ciò ti è difficile e doloroso”.
Sono indicazioni, quelle di Gesù, che mettono comunque l’accento sulle caratteristiche che devono contraddistinguere le nostre scelte:
1. La scelta comporta un “taglio”; bisogna cioè cambiare rotta, modificare, recidere nettamente per neutralizzare ciò che ci fa male; da qui nasce l’importanza del discernimento, dell’esame personale, del chiarire con grande onestà intellettuale che cosa vogliamo in realtà, se quello che vogliamo è veramente un bene per noi.
2. La scelta è dolorosa; certe decisioni non sono certo facili, non si fanno a cuor leggero; ci possono far soffrire al punto da maledirci per averle prese. Esperienza insegna che le scelte indolori non sono importanti, fondamentali, non sono essenziali e di assoluta necessità per poter conseguire un risultato certo. Sono normalmente dei palliativi. Le scelte vitali straziano invece il cuore e l’anima.
3. La scelta è radicale. Non si può transigere. Non si può giocare. Quando bisogna operare, incidere, bisogna farlo. Senza anestesia. Non è bello, non è piacevole, anzi è maledettamente doloroso. Ma è vitale. Bisogna essere risoluti, decisi e fermi, altrimenti si muore. «Meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna…». “Chi ha orecchi da intendere, intenda”. Amen.

mercoledì 19 settembre 2012

23 Settembre 2012 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà... Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,30-37).
Gesù è stato un uomo che durante tutta la sua vita aveva ben presente l’idea della morte; in particolare la” sua” di morte: un evento drammatico, l'estrema dimostrazione del suo amore per l’umanità. Nel Vangelo di Marco, per ben tre volte, Egli torna esplicitamente sulla tragica conclusione della sua vita terrena, introducendo comunque la visione della sua vittoria finale sulla morte stessa. E puntualmente i discepoli reagiscono in maniera ottusa, dimostrando di non aver capito nulla: domenica scorsa Pietro si preoccupava di rimproverare Gesù, insegnandogli a fare il messia; oggi i discepoli discutono tra loro su chi sia il più grande; al terzo annuncio, Giacomo e Giovanni si avvicineranno a Gesù e gli chiederanno una cosa incredibile: “Di stare uno alla destra e uno alla sinistra nel suo regno”. Poveretti, sono ancora lontani anni luce dallo stravolgimento della loro vita e delle loro idee per opera dello Spirito, per cui ogni volta danno prova della loro impossibilità di capire e di immedesimarsi nelle parole di Gesù.
Purtroppo quello della morte è un discorso che anche noi non amiamo molto; cerchiamo in tutti i modi di evitarlo; è tabù. Eppure verrà un giorno in cui non ci saremo più; un giorno in cui dovremo abbandonare i nostri cari, il lavoro, le nostre attività, le nostre passioni, le cose più care; saremo costretti a fare un salto nel vuoto, verso l’ignoto, assolutamente da soli.
Per questo la morte ci crea angoscia. Molte persone credono di risolvere il problema non pensandoci: si ubriacano di presente, per non pensare al futuro inesorabile. Ma anche così non funziona. Questo continuo lavorare, questo continuo affannarsi per tutto e per niente, questo continuo aggrapparsi in ogni cosa all’attimo fuggente è il loro inefficace antidoto contro la paura della morte.
Possiamo ricorrere ad ogni mezzo per non pensare, ma questo non cambia la realtà. Perché questa è la vita, la “nostra” vita, che deve fare i conti con una indiscutibile realtà: “Tu ora vivi ma prima o poi morirai”.
La morte purtroppo è angosciante, è una realtà che non vorremmo esistesse, ma c’è! E non possiamo vivere senza confrontarci con essa. Dobbiamo essere consapevoli che vivere giorno dopo giorno è avvicinarci alla fine, è un po’ come morire a piccoli passi. Il celebre psicologo Carl Gustav Jung diceva: “Un uomo che non si ponga seriamente il problema della morte, e non ne avverte il dramma, è un uomo che ha bisogno di essere curato”.
Un confronto profondo e onesto con la morte ci farà vivere in maniera più intensa, più vera: è un confronto che sviluppa in noi la saggezza del vivere. Il filosofo Montaigne diceva: “Insegnando all’uomo che deve morire, gli si insegna soprattutto a vivere”.
Viviamo dunque l’essenziale: che senso hanno infatti tutte le nostre “paranoie”, le nostre “fisime”, dal momento che dobbiamo morire?”. Lavoriamo e diamoci da fare. Ma ricordiamoci sempre che un giorno “lasceremo qui tutto!”. Evitiamo allora, fratelli, di vivere solo per lavorare, perché è da stupidi. Accumulare denaro e ricchezze per il piacere di possedere, è l’atto più insensato che un uomo possa fare: che senso ha? Non porterai nulla con te dopo la morte. Lavoriamo invece per vivere onestamente e dignitosamente.
Se oggi fosse l’ultimo giorno della nostra vita, cosa faremmo? Forse che sistemeremmo la casa? Puliremmo il bagno? Ci preoccuperemmo dei nostri soldi in banca? O cercheremmo piuttosto di stare con le persone che amiamo? Di gustare fino in fondo le ultime ore, apprezzando ogni singolo minuto di vita?
Dobbiamo pertanto individuare quelle che sono le cose essenziali nella nostra vita, e tenerle sempre presenti ogni giorno e ogni ora.
Sulla tomba di Alessandro Magno fu scritto: “Questa piccola fossa basta ora all’uomo cui non bastava il mondo intero”. Di fronte a certe ambizioni, a certe competizioni irrefrenabili, a certi orgogli, viene proprio da ridere. La morte è la “grande livella”, come scrisse il comico Totò, che rende tutti uguali, che tocca a tutti, ricchi e potenti, poveri e inermi.
Viviamo oggi le piccole cose che rendono felice la nostra vita. Se non lo facciamo oggi, domani forse non lo potremo più fare. Chi vive intensamente tutte le emozioni del suo cuore non teme di morire. È solo chi è sterile, chi conduce una vita arida e inutile che ha paura di morire, che non vuole morire. Ed è ovvio: perché la morte gli preclude qualunque possibilità di cambiare. Ecco perché, fratelli, tutto quello che dobbiamo fare, lo dobbiamo fare oggi: il tempo passa, meglio non sprecarlo.
Sistemiamo oggi tutte le questioni che abbiamo in sospeso, domani potrebbe essere tardi. Diciamo oggi ai nostri figli quanto siano preziosi per noi e quanto sia bella la loro presenza, cosa sarebbe la nostra vita senza di loro. E ringraziamoli per tutto ciò che ci hanno dato, soprattutto per la felicità che hanno portato nel nostro cuore e nella nostra casa. E non ci importa nulla se a volte è stato faticoso! Diciamo oggi al nostro sposo, alla nostra sposa: “Ti amo. A volte non lo faccio capire, ma ti amo tanto”. Diciamo oggi ai nostri amici, ai nostri fratelli, a quelle persone che ci sono vicine, che sono state importanti per noi, che ci hanno in qualche modo aiutato a crescere: “Grazie: perché tu hai contato molto nella mia vita”. Cosa aspettiamo? Aspettiamo di non avere più tempo? La vita passa.
Cominciamo a vivere per qualcosa che abbia veramente senso. Ma facciamolo in fretta, facciamolo già da oggi, perché il tempo a disposizione è limitato. E allora più che preoccuparci di “quanto” dobbiamo vivere, preoccupiamoci di “come” dobbiamo vivere! Vivere tanto per vivere, senza pensare il fine per cui si vive, significa sprecare inutilmente il dono del tempo che ci è concesso.
Se i nostri giorni finiscono, dobbiamo trovare un significato profondo da dare alla nostra vita. La nostra vita deve essere un dono da lasciare ai nostri cari, ai nostri fratelli. Se siamo un frutto che nessuno vuol mangiare, allora non serviamo a nulla; allora vivere o non vivere è la stessa cosa. Dobbiamo essere invece un frutto appetibile e gustoso, che altri potranno mangiare; e allora ci sentiremo utili, importanti, necessari. Allora anche se moriamo, non moriremo invano.
Vale la pena di osare, fratelli. Salire sulla barca della nostra vita e dire: “Duc in altum, Prendi il largo”. Poter dire al termine della vita, con Paolo: “Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede (2Tm 4,7)”. In altre parole potremo dire: “Ho vissuto”.
Allora non avremo rammarichi per quello che avremmo potuto fare ma che non abbiamo fatto, per quello che avremmo potuto essere ma che non abbiamo neppure provato a diventare, per quello che avremmo potuto realizzare ma che, per paura, non abbiamo fatto. Non lasciamoci condizionare dal rischio di sbagliare, di morire, di essere deriso o giudicato; pensiamoci bene: non è forse maggiore il rischio di non vivere? E non è forse vero che chi non vive, è già morto dentro?.
Dio ci ha fatto un dono preziosissimo: la vita. Non ci ha chiesto di preservarla, né di salvarcela (lo fa Lui!). Ci ha chiesto solo di viverla, di non sottrarci alle sfide e alle avventure che incontreremo: “Sei un essere vivente, vivi!”.
Quante persone per paura di sbagliare lavoro, di innamorarsi, di perdere l’approvazione della gente, di fare una cosa e poi accorgersi che si era sbagliato, di perdere il controllo, di rimettersi in gioco, non hanno vissuto, non ci hanno mai provato.
Ricordate la parabola dell’uomo con un solo talento (Mt 25,14-30)? Il padrone lo punisce perché non ci ha provato. Ha avuto paura e l’ha nascosto (si è nascosto). Al padrone non avrebbe importato se l’avesse perso, perché l’importante era che ci avesse almeno provato.
Abbandoniamoci e abbiamo fiducia. La morte è incontrollabile. Siamo impotenti, deboli, vulnerabili. È una lotta impari: vince sempre lei. Allora dobbiamo imparare a fidarci. Dobbiamo imparare che non possiamo controllare tutto; che non possiamo gestire tutto; dobbiamo fidarci senza avere garanzie, non possiamo avere certezze o assicurazioni. Dobbiamo solo fidarci.
Penso che ogni uomo, sul punto di nascere, abbia detto tra sé: “Oddio che sta succedendo? Dove sto andando? No, no, no, non voglio uscire da qui, non voglio lasciare questo mondo, sto così bene qui dentro! Fuori è la fine!”. E invece no, fratelli miei: fuori era non la fine ma l’inizio della vita. Ci fidiamo e sentiamo che sarà così.
Ma torniamo al nostro vangelo di oggi. Dunque: mentre Gesù sta parlando della sua morte – e capite che angoscia doveva avere dentro – che fanno i suoi amici, i discepoli? Discutono su chi fra di loro potrà sedersi nel Regno al posto d’onore, su chi sarà il più grande, il migliore.
A questo punto a Gesù cadono le braccia, si deve sedere; deve cioè interrompere il suo cammino, il suo andare, perché i suoi discepoli, pur seguendolo, di strada ne hanno fatta ben poca; sono ancora molto indietro e belli fermi. E deve spiegare loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Poi prende un bambino e lo abbraccia: “Quando accoglierete un bambino, accoglierete me e mio Padre”.
Il bambino (dobbiamo calarci nel contesto culturale di quel tempo), non aveva nessun diritto. Il bambino era l’ultimo di tutti. Dietro ad un bambino non c’era nessuno. Non aveva potere, non poteva parlare, non poteva dire la sua, doveva solo ubbidire. Il bambino era l’ultimo in assoluto.
Allora: “se tu accogli un bambino”, che è l’ultimo, tu accogli tutti (gli altri che stanno più avanti). Se tu sei l’ultimo (così come il servo è a servizio di tutti) non sei superiore a nessuno, non ti metti più al di sopra di qualcuno, non ti ritieni di più o migliore di nessun altro: sei l’ultimo. Ma essere gli ultimi non vuol dire sentirsi inferiori, né rifiutarsi, né denigrarsi o disprezzarsi, né essere quelle persone servizievoli che si umiliano per gli altri e che si ritengono indegni di tutto. Gesù era l’ultimo, ma non era inferiore a nessuno. Essere ultimi vuol semplicemente dire avere rispetto per tutti cioè non sentirsi superiori, avanti a nessuno.
I discepoli per il fatto di essere famosi, conosciuti, o anche semplicemente vicini a Gesù (e Gesù era molto famoso!) si considerano più dei altri, superiori agli altri. Essi cercano cioè lo stesso potere del loro “padrone”.
Il padrone (dominus: signore, padrone, proprietario) domina. Il padrone (dominus) gestisce, controlla, dispone, perché si sente di più, superiore agli altri, che considera chiaramente inferiori. Il padrone si sente legittimato a umiliare, a decidere per gli altri, a stabilire, a condurre, ecc. In quanto padrone, decide lui, perché lui si sente “di più”.

Ma noi non dobbiamo essere di questi padroni: dobbiamo essere servi perché nessuno ci è inferiore (né superiore). Il servo è colui che rispetta tutti, che lascia liberi, che non vuole gestire gli altri per i propri interessi. Il servo non è colui che si umilia, ma colui che si può chinare su tutti perché non si sente superiore a loro.
Noi tutti siamo in qualche modo padroni: abbiamo cioè il potere di gestire, di dominare sugli altri. Dobbiamo quindi stare molto attenti quando esercitiamo questo potere. Pensate al potere che hanno i genitori con i propri figli; di un capo con i suoi operai; di un dirigente con i suoi dipendenti.
Ci sono persone che si sentono autorizzate di infierire sugli altri, fanno fare loro quello che vogliono: sono dei padroni e non dei servi. Ogni volta che noi anche solo iniettiamo un senso di colpa nell’altro, stiamo facendo una mossa subdola e malevola: stiamo tentando di prenderci in maniera oscura e nascosta ciò che non riusciamo a prenderci in maniera chiara e trasparente.
L’amore non ha bisogno di dominare, perché dominare è possedere. Se abbiamo bisogno di mettere in rilievo la nostra superiorità, vuol dire che stiamo nascondendo la nostra inferiorità e che la camuffiamo con il bisogno di superiorità. Quando facciamo pesare e “notare” agli altri quello che abbiamo fatto per loro, stiamo tentando di dominarli. Cerchiamo di gestirli, di aver potere su di loro.
Quanta gente incontriamo che “se la tirano”, fanno i preziosi, non ci danno mai una risposta o devono essere pregati per darci una mano? Quante persone ci fanno notare che loro “hanno”, che “sono laureate”, che possono permettersi questo e quell’altro: sono tentativi di dimostrare la loro superiorità facendoci notare la nostra inferiorità. Sono padroni. Si domina anche facendo notare sempre all’altro i suoi difetti, i suoi sbagli e i suoi limiti. Così facendo lo si tratta sempre da inferiore, da incapace.
E allora concludo: il nostro comportamento è da “signore”, o siamo dei “signori”? Abbiamo rispetto per tutti, o ci sentiamo “più” degli altri? Siamo come il Signore che non gestiva nessuno, che non chiedeva niente a nessuno, che non accampava diritti, o siamo signori, padroni, che vogliono, pretendono, decidono per gli altri, li manipolano? Dunque: Signore o signori? Amare o possedere? Riflettiamo. Amen.

 

mercoledì 12 settembre 2012

16 Settembre 2012 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: La gente, chi dice che io sia? […] E Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo» (Mc 8,27-35).
Gesù sta andando verso Cesarea di Filippo e strada facendo parla con i suoi discepoli.
Del più e del meno. Sa di essere qualcuno per la gente; sa di essere sulla bocca delle persone; sa che si parla di lui; ed è naturale quindi che il discorso cada anche su questo, sull’opinione cioè che la gente ha di lui, chi dicono che egli sia. Ognuno riferisce il sentito dire: qualcuno dice Giovanni il Battista, chi Elia, chi un altro profeta. Ma Gesù non si accontenta e riformula la richiesta: Ma “voi chi dite che io sia?”. Bella domanda. Anche per noi. Tu che leggi, cosa dici? Chi è Gesù per te?
Nella vita arriva un momento in cui tutto ciò che abbiamo imparato, che sappiamo, che conosciamo, non conta più nulla; l’unica cosa che conta è una nostra risposta. Risposta che nessuno può dare al posto nostro.
Nelle questioni essenziali della vita siamo sempre soli, soli con noi stessi e con le nostre decisioni prese o rimandate. Nelle questioni essenziali non conta più niente ciò che ci circonda, ciò che fanno o non fanno gli altri: la domanda inevitabile e improrogabile è rivolta solo a noi e la risposta che conta è solo quella nostra.
L’episodio evangelico di oggi segna una svolta decisiva, un momento cruciale nel vangelo di Marco: Gesù capisce che è arrivato il momento di lasciare tutto e di andare a Gerusalemme; Egli sa bene che laggiù non può contare né sui capi religiosi, né sull’appoggio della gente; e neppure su quello degli apostoli. Quello che lo attende a Gerusalemme è una questione sua, solo sua.
Pietro però comincia proprio qui a capire chi Lui sia veramente. E decide di buttarsi per Lui. Egli improvvisamente percepisce, sente che lì, al suo fianco, c’è la Vita, c’è l’ebbrezza della Vita, c’è il sapore della Vita, e si butta a capofitto, anima e cuore. Da questo momento in poi, pur facendo errori non da poco (lo rinnegherà per ben tre volte!) Pietro non tornerà più indietro su questa decisione. Ha trovato la Vita: come può lasciarla?
Ma veniamo a noi; tocca anche a noi rispondere, fratelli, con altrettanta franchezza e onestà; chiediamoci ancora: “Ma io cosa provo per te, Signore? Chi sei tu per me? Quanto sei importante nella mia vita? Quanto sono disposto a giocarmi per Te?”.
Pietro non ha avuto esitazioni: “Tu sei il Cristo!”; “Tu sei per me la vita, la luce, la sicurezza, la via, il faro, il mettermi in gioco, la verità; tu sei qualcosa che mi ha cambiato la vita, che l’ha resa diversa, piena, intensa, pericolosa”. Ma noi?
Gesù a questo punto ordina ai suoi il silenzio; raccomanda “severamente” di non parlarne con nessuno, di non farne parola con altri. Perché questa raccomandazione? Perché sono risposte private, che riguardano solo Lui e noi, non si possono buttare in pasto alle chiacchiere della gente: sono strettamente personali, ciascuno le deve rispondere per sé. Ciascuno deve scoprire dentro di sé chi è per lui il Cristo. Ciascuno deve trovare da sé la propria risposta.
Nel nostro cammino di apostoli, sapere che Gesù è stato l’amore di tutti i santi, non ci fa avanzare neppure di un millimetro; tocca solo a noi dare spazio alla passione che dorme dentro di noi. Sapere che Gesù è stato la fiamma che ha incendiato il cuore di tutti i mistici, non ci serve a nulla se anche noi non ci lasciamo contagiare da quel fuoco, se non lasciamo bruciare dentro di noi quella fiamma!
Questo è il punto. Pure Pietro non si limita alle belle parole, a fare una bella professione di fede, ma prende una importantissima decisione: economicamente non stava certo male (aveva una famiglia, le sue barche, i suoi garzoni); ma ora decide di lasciare il sicuro, di lasciare le certezze, per un ideale, per quello che Gesù gli offre. E quindi rischia tutto.
È il momento che prima o poi arriva puntualmente anche per noi, fratelli: anche noi, quando avremo trovato la Vita, colui che ci riempie l’anima, dobbiamo deciderci. Dobbiamo seguirlo, dobbiamo abbandonare i nostri dubbi, le nostre paure. Deciderci. E andare.
“Decidere” significa indirizzare le nostre energie e le nostre scelte verso un obiettivo; vuol dire “tagliare, tagliare via, far accadere” (dal latino de-caedo). “Decidere” è fare un taglio netto: una volta fatto, non si può più tornare indietro. Sono le decisioni che ci guidano, che determinano le svolte alla nostra vita. Le nostre decisioni trasformano il caso in destino. È con il nostro decidere che iniziamo a costruire la nostra vita. Perché quando decidiamo, scegliamo di seguire solo una strada. Quando invece non decidiamo, non ne scegliamo nessuna; anzi, peggio, ci facciamo andar bene quella che altri hanno scelto per noi; e poi, anche il non voler decidere è pur sempre una decisione; discutibile, ma una decisione.
“Decidersi” implica sempre una rinuncia. È la rinuncia consapevole di chi sa che non può fare tutto, e quindi rinuncia a ciò che potrebbe fare di non importante, vitale, e sceglie ciò che per lui è fondamentale, ciò per cui merita veramente di vivere.
Quanta gente si lamenta della sua situazione, fratelli miei: ma chi si lamenta, lo fa perché non ha deciso. Non vuole o non sa decidersi. La nostra vita non ci va bene? Cambiamola! “Ma è difficile! È impegnativo, pieno di imprevisti, di pericoli!”: e allora stiamo come stiamo, ma smettiamola, non lamentiamoci, non facciamoci compatire.
Desiderare di cambiare non vuol dire volerlo: una preferenza, un desiderio, non è una decisione. Decidersi è scegliere e agire in quel senso. Senza ripensamenti.
Le grandi decisioni nascono dentro: “Come voglio vivere? A che livello, a che profondità? Voglio o no faticare per finalmente trovarmi e andare avanti? E poi, soprattutto, quanto lo voglio? Quanto sono disposto a lottare, a soffrire, a cercare? Quanto lo voglio?”.
È la risposta a queste domande, fratelli, che genera le decisioni, nascoste e invisibili, ma che cambiano la nostra vita e ne determinano la qualità.
Anche Gesù fa la sua scelta: sceglie “Dio”. E decide di andare a Gerusalemme. Eppure sa che questa decisione comporterà pericolo, lotta, scontro e, perfino, la morte. Lo sa, e lo dice anche chiaro chiaro ai suoi discepoli.
Ma essi non capiscono ancora. Di fronte alle sue parole, Pietro quasi lo rimprovera. Egli ha altre idee su Gesù. Ha intravvisto la sua divinità, la sua messianicità. Gli dice: “No Signore. Abbiamo tanto successo qui, tanta gente ti segue, sei amato da molti. Perché rischiare così tanto? Se tu muori finirà tutto: che senso ha che tu vada a morire?”. Ma Gesù lo zittisce seccamente: “Via da me satana. Questi sono i tuoi calcoli ma non quelli di Dio. Io devo rimanere fedele a me stesso. È vero, potrei guarire tantissima gente, vivere ancora per tanti anni, essere utile a tante persone. Ma a che serve tutto questo se non sono fedele alla mia missione, a ciò che ho dentro? A che serve tutto questo se tradisco ciò che sono, la mia strada, il mio mandato?”. E nel versetto successivo (che oggi non leggiamo) spiega meglio: “ A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?” (8,36). Già; a che serve?
A che serve voler “salvare”, cioè fermare, cristallizzare, immobilizzare la vita, quando così facendo la perdiamo? È la legge della vita, fratelli. Se non vogliamo cambiare, se non vogliamo crescere, se non vogliamo svilupparci, automaticamente moriamo. Se non vogliamo ascoltare le esigenze profonde, le chiamate della Vita, abbandoniamo la Vita, ci stacchiamo dalla Sorgente della Vita, ci perdiamo, moriamo.
La vita non si può fermare. Non ci possiamo attaccare né alle relazioni umane né alle grandi idee, ai grandi progetti. Chi vuol seguire Gesù, deve dire semplicemente “no” a quell’atteggiamento naturale dell’uomo che vorrebbe fermare le cose; chi vuol seguire Gesù deve invece muoversi, librarsi in alto, mettere in gioco le proprie idee, le proprie convinzioni, e seguire il Signore della Vita là dove vuole portarci.
Dobbiamo cambiare mentalità, fratelli. Una mamma rimprovera il suo bambino: “Lo sapevi che quando hai rubato i biscotti dalla dispensa, Gesù ti vedeva?”. “Sì”, risponde lui. “E cosa pensi che ti stesse dicendo?”. “Visto che non c’è nessuno, prendine un po’ anche per me!”.
Ecco, dobbiamo fare come quel bimbo: dobbiamo essere creativi, pieni di iniziative, dobbiamo cambiare prospettive, cambiare idee, non possiamo rimanere attaccati sempre alle convinzioni degli altri! Dobbiamo essere critici, aperti e onesti con noi stessi.
La linfa vitale scorre continuamente, va e viene, è Vita; ma nel momento stesso in cui noi blocchiamo questo scorrere, iniziamo irrimediabilmente a scivolare verso la morte. Non possiamo bere acqua putrida, ristagnante; solo l’acqua che scorre, viva e zampillante, è in grado di dissetarci. Amen.

mercoledì 5 settembre 2012

9 Settembre 2012 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«… E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!» (Mc 7,31-37).
Dopo aver constato la preconcetta chiusura mentale degli scribi e dei farisei nei confronti della sua Parola, come ci ha testimoniato Marco nel vangelo di domenica, Gesù volta loro le spalle e se ne va. La sua è una decisione esemplare: non intende farsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno. È un uomo assolutamente libero Gesù. Non tiene in alcun conto ciò che le persone rappresentano (la posizione sociale, i loro titoli, il loro alto rango, la loro autorità), siano pure “sacerdoti del tempio”, dotti scribi o pii farisei. Ai suoi occhi tutti quelli che lo seguono sono semplicemente “persone”. Ciò che a lui preme, ciò che lo colpisce, non è il livello sociale, ma il cuore dell’uomo, i sentimenti che ognuno ha dentro di sé. Di fronte pertanto ai meschini attacchi degli “eletti”, Gesù cambia territorio, e va in terra pagana, a Tiro e Sidone.
E proprio qui, non tra gli eletti ebrei, Egli incontra una fede esemplare. Un fenomeno abbastanza usuale anche oggi: è più facile imbattersi in una fede genuina e profonda tra i non credenti, che tra le persone che si professano “religiose”: la religione infatti può essere seguita anche solo attraverso pratiche di pietà esteriori, che non coinvolgono l’adesione della mente e del cuore; la fede no: la fede è la convinzione interiore e profonda che guida il nostro agire, determina le nostre opere; la fede è ciò che viviamo dentro, è la fiducia che abbiamo nella Vita, quella Vita che ossigena continuamente il nostro cuore; è l’Amore che pulsa e scorre nelle nostre vene.
E dunque qui, in terra “straniera”, Gesù rimane sorpreso da tanta fede, e la premia: dapprima guarisce la figlia di una donna “siro-fenicia”, quindi pagana, non di origine ebraica; quindi, commosso dalla fiducia degli accompagnatori, restituisce la parola al sordomuto, come ci racconta oggi Marco.
Un sordomuto è dunque oggi il beneficiario della bontà divina. In che modo possiamo ritrovarci noi in quel sordomuto? Che riferimenti per la nostra vita possiamo trarre da questo episodio? Dobbiamo leggerlo soltanto come un esempio della bravura di Gesù nel guarire ogni tipo di malattia, anche tra i pagani, oppure è un formale invito a metterci seriamente in discussione?
Chiediamoci prima di tutto: chi è un sordomuto? Per dire sordomuto Marco usa qui due termini: κωφος (kòfos) che vuol dire ottuso, spento, senza energia, sordo, insensibile, stolto, pazzo; e μογιλαλος (moghilàlos) che invece indica uno con difficoltà di parola, balbettante, uno che tartaglia, che non parla perché ha difficoltà a farlo correttamente. Molto probabilmente quindi non alluderebbe tanto ad un sordo totale fin dalla nascita, ma di qualcuno che ha perso gradualmente la sua facoltà di sentire e, riferito a noi, uno che è diventato incapace di “sentirsi”. Ora, spiritualmente parlando, chi è sordo è sempre muto: perché solo se “ci sentiamo” possiamo esprimere qualcosa di noi. Non possiamo esprimere quello che non sentiamo. E allora? Se non ci sentiamo più, fermiamoci, fratelli: cerchiamo di riscoprire quello che abbiamo dentro, ascoltiamoci con maggior attenzione, scrupolosamente. Fuggiamo il “rumore” assordante del mondo. Il silenzio, cioè smettere di ascoltare i rumori esterni per ascoltare le voci e i suoni interiori, è la base di ogni crescita spirituale, di ogni conoscenza, di ogni progresso umano.
Alcuni pagani portano dunque davanti a Gesù questo sordomuto: e lo pregano di “imporgli la mano”. Non hanno le idee chiare, non gli chiedono espressamente di guarirlo: a loro basta che Gesù lo tocchi. Ancora una volta dei pagani dimostrano più fede dei religiosi ebrei. E Gesù premia la loro fiducia. Come tante altre volte, Egli interviene con la sua grazia laddove trova la giusta predisposizione, sia nei confronti di persone religiose, che di chi non viveva secondo la religione del Tempio.
Confortati da tale certezza, fratelli, guardiamo anche noi con rinnovata fede e umiltà all’Amore divino: anche se non siamo completamente “di chiesa”, anche se i nostri rapporti con la religione sono un po’ conflittuali, anche se nella nostra vita abbiamo avuto esperienze negative, anche se siamo “tiepidi”, non praticanti, anche se ci siamo allontanati magari decisamente da Lui, Gesù ci può sempre e comunque guarire. Se ci avviciniamo e ci fidiamo di Lui, Lui può cambiare la nostra vita. Non dobbiamo coltivare pregiudizi o diffidenze. Gesù ci salva, ci guarisce non perché esibiamo l’etichetta di “cristiani” ma perché crediamo nel suo amore infinito, confidiamo totalmente in esso, perché siamo certi che se Lui vuole può guarirci, nonostante i nostri demeriti. Soltanto questo dobbiamo credere fermamente; solo in questo dobbiamo porre la nostra fiducia.
Succede però che a volte siamo così sordi, così “ostruiti”, da non percepire neppure la gravità della nostra situazione, non ce ne rendiamo neppure conto. Abbiamo bisogno che qualcuno, con più fede di noi, “ci porti”. Ecco perché è tanto importante avere una “guida” spirituale che ci accompagni nel nostro andare verso Gesù.
A questo punto cosa fa Gesù con il sordomuto? Per prima cosa lo trascina lontano dalla folla. È una cosa che Gesù fa spesso (Mc 5,40; 8,23); la folla sono i condizionamenti dell’ambiente circostante, è il giudizio impietoso delle persone vicine, che magari amiamo pure. Finché rimaniamo succubi del loro giudizio, delle loro valutazioni, non possiamo guarire.
La “folla” ci dice: “Tu devi fare così; devi fare come dico io”. Ricordate? Quante volte abbiamo sentito la frase: “No, così non va bene”; che poi vorrebbe dire: “Non fai come va bene a me”!
La folla cerca di condizionarci, di determinarci, di dirigerci, di farci fare quello che vuole lei. E finché non ci sottraiamo al suo influsso, non ne usciamo, non ne veniamo fuori, non possiamo ascoltarci, non possiamo essere noi stessi. La folla in altre parole è quel “condizionamento” interiore che ci impedisce di agire liberamente, di fare le nostre scelte, di seguire le nostre ispirazioni per paura che qualcuno ci disapprovi, per paura di rendere scontento qualcuno, di farci rifiutare da qualcuno.
Ma non possiamo seguire due padroni, dice Gesù: o seguiamo noi stessi, la nostra coscienza, o seguiamo gli altri, la “folla”. O facciamo felici noi stessi o gli altri; o realizziamo noi stessi o quello che gli altri vogliono per noi stessi: dobbiamo scegliere!
La “folla” è tremenda, fratelli, ha un potere enorme. Noi, per una legge naturale, siamo attratti dalla “maggioranza”. Cioè: noi pensiamo che quello che fa la maggioranza sia giusto e, proprio poiché lo fanno tutti, sia sicuramente lecito. Quindi, se facciamo qualcosa di diverso dagli altri, pensiamo subito che sia sbagliato. La maggioranza ha il potere di influire in maniera categorica su di noi. E, credetemi, c’è bisogno di una grande maturità, di una forza interiore enorme, per affermare noi stessi, la nostra coscienza, e staccarci da una maggioranza che agisce in maniera diversa dalla nostra.
Una volta che i due si sono appartati, Gesù inizia il trattamento di guarigione del sordomuto. Prima di tutto gli tocca le orecchie con le dita; deve cioè aprirgliele materialmente,deve stappargliele, deve eliminare qualunque diaframma che ostacoli un perfetto ascolto, una percezione minuziosa e totale.
Infatti, se noi non “sentiamo”, non percepiamo la nostra malattia, come facciamo a guarirla? Se non sentiamo la nostra insoddisfazione, come facciamo a eliminarla? Se non sentiamo il nostro dolore interiore, come facciamo ad uscirne? Se non sentiamo che stiamo morendo, in che modo possiamo intervenire per continuare a vivere? Non è un caso che la nostra società sia zeppa di anestetizzanti e psicofarmaci; non è un caso che la gente corra sempre e che non si fermi mai; non è un caso che non si sappia più fare silenzio e che il rumore sia il nostro compagno di sempre. Sono tutte cose che servono a non farci “sentire”, a non farci pensare: perché in fondo in fondo noi abbiamo paura di sentire, di pensare.
Poi Gesù gli tocca la lingua con la saliva. Deve cioè renderla fluida, deve insegnargli a parlare, ad esprimersi, a “dirsi”. In altre parole Gesù gli dice: “Devi tirare fuori tutto quello che hai dentro. Devi dare un nome a ciò che provi. Devi definire la tua gioia, la tua rabbia, il tuo dolore, la tua emozione. Devi raccontarti. Devi vincere la paura di essere giudicato, di essere rifiutato, deriso. Devi tirare fuori da te chi veramente sei”.
Quindi, guardando in cielo, Gesù emette un forte sospiro; si può dire che urla quasi al sordomuto un ordine secco e perentorio: “Apriti”. Ora, se i primi due gesti erano riservati alle orecchie atrofizzate del poveretto, l’ordine “Apriti” è rivolto direttamente e unicamente all’uomo. Gesù cioè lo scuote, lo strattona; è quasi arrabbiato, gli urla addosso perché si è caparbiamente rinchiuso in se stesso e non vuole fare nessuno sforzo (ha tanta paura!) per “aprirsi”, per tornare a vivere. Gli va bene così, è soddisfatto della sua condizione: da qui l’urlo di Gesù per svegliarlo dal suo torpore, per spaccare quella corazza in cui si è rinchiuso.
Quante volte Gesù deve urlare per svegliarci, per scuoterci dal nostro sonno, dal nostro torpore!
E quante altre volte noi, puntualmente, lasciamo risuonare a vuoto dentro di noi l’urlo di Gesù: “Apriti… apriti… apriti!”.
E il sordomuto guarisce. E nessuno può trattenere i presenti dal gridare al mondo l’entusiasmo e la gioia per quanto Gesù ha operato. Neppure Gesù: perché più egli cerca di zittirli, più essi proclamano al mondo le meraviglie di Dio: “Ha fatto bene ogni cosa…”.
Aprirsi, fratelli, significa dare una dimensione alla nostra vita. Aprirsi vuol dire far entrare e incontrare il nuovo. Aprirsi è vivere. Aprirsi è cantare e proclamare Dio Amore. Chiudersi significa ignorarlo, è morire.
Apriamo dunque il nostro cuore. Evitiamo di ripetere “Non ce la faccio!”: non è vero; abbiamo soltanto paura di soffrire. Non ci rendiamo conto che chiudendoci preferiamo tenerci dentro sofferenze ben più gravi? “Apriti”.
Perché condannarsi a portare certi pesi e certe pietre? Perché privarsi della gioia e dell’intensità dell’Amore solo per paura di soffrire? “Apriti”. Apriamo la nostra mente. Leggiamo, impariamo, frequentiamo nuovi corsi e nuove esperienze. Non diciamo: “Questo mi basta”. Non dobbiamo aver paura di perdere le nostre vecchie idee, di doverle cambiare, di doverle verificare. “Apriti”.
Apriamo i nostri discorsi. Non parliamo sempre delle solite cose: il tempo, i prezzi, la salute, il mangiare, le cose da fare, il calcio, la politica, ecc. Parliamo di noi, di quello che sentiamo dentro, di quello che pensiamo veramente. Allarghiamo le nostre amicizie. Incontriamo persone nuove, stili di vita diversi: ascoltiamo e impariamo. Non dobbiamo temere di non essere all’altezza di altre esperienze di vita.
Ci sono ragazzi che sono perennemente assorti nei giochetti elettronici, smanettano convulsamente la consolle dei loro minuscoli apparati, come se al mondo non ci fosse null'altro da vedere, da pensare o da fare: non possono che sclerotizzarsi. Non esiste solo quello: frequentate gli amici, i gruppi, conoscetene di nuovi; se possibile uscite dal vostro paese, andate alcuni mesi all’estero, accostatevi a nuove esperienze. “Apritevi”!
C’è una coppia di giovani sposi che tutti i sabato sera si ritrovano con gli stessi amici nella solita pizzeria; tutte le domeniche sono a pranzo dai genitori di lei e la sera dai genitori di lui. Non dite: “Li amiamo!”. È che avete paura di sperimentarvi diversamente. “Apritevi”!
C’è una famiglia che da ventisette anni va in vacanza sempre nel solito posto. Non dite: “Qui è bello”. È un'abitudine pigra bella e buona, è non voler affrontare la fatica di cambiare. “Apritevi”!  
Quanti di noi, fratelli, facciamo sempre le solite cose, i soliti incontri, i soliti riti fatti sempre alla stessa maniera. “Apriamoci!”.
Ecco: a questo invito costante e quasi assillante di Gesù, dovremmo sempre rispondere: “E perché no?”. Di fronte ad un nuovo progetto di vita, di fronte ad una nuova esperienza, ad una nuova idea, ad un nuovo incontro, prima di rifiutarlo chiudendoci a riccio, chiediamoci: “E perché no?”. Se rimaniamo aperti, la Vita entrerà dentro di noi e ci colmerà con la sua forza. “Io sto alla porta e busso” (Ap 3,20), ci dice Gesù: apriamogli dunque!
Vedete, noi siamo come un forziere. Un forziere nascosto. Conteniamo un tesoro preziosissimo, disponiamo di perle preziose, gioielli, monete d’oro. Ci scopriamo ad immaginare lo stupore e la gioia di chi ci scoprirà, di chi riuscirà a forzare la nostra serratura. Ci perdiamo a fantasticare su tutte le cose che il fortunato potrebbe fare o diventare grazie alle nostre ricchezze. Immaginiamo, fantastichiamo… Ma se non accogliamo l’invito di Gesù nessuno, anche trovandoci, potrà mai aprirci! Siamo un tesoro di indicibile valore, ma rimaniamo un tesoro inutile.
Si, fratelli: perché se non siamo noi ad aprirci, nessuno potrà mai farlo, nessuno potrà mai conoscerci, confrontarsi con noi. Se non ci apriamo, chi ci potrà amare? Chi potrà condividere i suoi progetti, le sue aspirazioni con noi? Se non ci apriamo, è come se vivessimo tutta la vita con un altro nome! Rischiamo di venire amati per una persona che non siamo! Se non ci apriamo, non saremo mai niente: viviamo come se fossimo già morti. Amen.