mercoledì 5 settembre 2012

9 Settembre 2012 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«… E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!» (Mc 7,31-37).
Dopo aver constato la preconcetta chiusura mentale degli scribi e dei farisei nei confronti della sua Parola, come ci ha testimoniato Marco nel vangelo di domenica, Gesù volta loro le spalle e se ne va. La sua è una decisione esemplare: non intende farsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno. È un uomo assolutamente libero Gesù. Non tiene in alcun conto ciò che le persone rappresentano (la posizione sociale, i loro titoli, il loro alto rango, la loro autorità), siano pure “sacerdoti del tempio”, dotti scribi o pii farisei. Ai suoi occhi tutti quelli che lo seguono sono semplicemente “persone”. Ciò che a lui preme, ciò che lo colpisce, non è il livello sociale, ma il cuore dell’uomo, i sentimenti che ognuno ha dentro di sé. Di fronte pertanto ai meschini attacchi degli “eletti”, Gesù cambia territorio, e va in terra pagana, a Tiro e Sidone.
E proprio qui, non tra gli eletti ebrei, Egli incontra una fede esemplare. Un fenomeno abbastanza usuale anche oggi: è più facile imbattersi in una fede genuina e profonda tra i non credenti, che tra le persone che si professano “religiose”: la religione infatti può essere seguita anche solo attraverso pratiche di pietà esteriori, che non coinvolgono l’adesione della mente e del cuore; la fede no: la fede è la convinzione interiore e profonda che guida il nostro agire, determina le nostre opere; la fede è ciò che viviamo dentro, è la fiducia che abbiamo nella Vita, quella Vita che ossigena continuamente il nostro cuore; è l’Amore che pulsa e scorre nelle nostre vene.
E dunque qui, in terra “straniera”, Gesù rimane sorpreso da tanta fede, e la premia: dapprima guarisce la figlia di una donna “siro-fenicia”, quindi pagana, non di origine ebraica; quindi, commosso dalla fiducia degli accompagnatori, restituisce la parola al sordomuto, come ci racconta oggi Marco.
Un sordomuto è dunque oggi il beneficiario della bontà divina. In che modo possiamo ritrovarci noi in quel sordomuto? Che riferimenti per la nostra vita possiamo trarre da questo episodio? Dobbiamo leggerlo soltanto come un esempio della bravura di Gesù nel guarire ogni tipo di malattia, anche tra i pagani, oppure è un formale invito a metterci seriamente in discussione?
Chiediamoci prima di tutto: chi è un sordomuto? Per dire sordomuto Marco usa qui due termini: κωφος (kòfos) che vuol dire ottuso, spento, senza energia, sordo, insensibile, stolto, pazzo; e μογιλαλος (moghilàlos) che invece indica uno con difficoltà di parola, balbettante, uno che tartaglia, che non parla perché ha difficoltà a farlo correttamente. Molto probabilmente quindi non alluderebbe tanto ad un sordo totale fin dalla nascita, ma di qualcuno che ha perso gradualmente la sua facoltà di sentire e, riferito a noi, uno che è diventato incapace di “sentirsi”. Ora, spiritualmente parlando, chi è sordo è sempre muto: perché solo se “ci sentiamo” possiamo esprimere qualcosa di noi. Non possiamo esprimere quello che non sentiamo. E allora? Se non ci sentiamo più, fermiamoci, fratelli: cerchiamo di riscoprire quello che abbiamo dentro, ascoltiamoci con maggior attenzione, scrupolosamente. Fuggiamo il “rumore” assordante del mondo. Il silenzio, cioè smettere di ascoltare i rumori esterni per ascoltare le voci e i suoni interiori, è la base di ogni crescita spirituale, di ogni conoscenza, di ogni progresso umano.
Alcuni pagani portano dunque davanti a Gesù questo sordomuto: e lo pregano di “imporgli la mano”. Non hanno le idee chiare, non gli chiedono espressamente di guarirlo: a loro basta che Gesù lo tocchi. Ancora una volta dei pagani dimostrano più fede dei religiosi ebrei. E Gesù premia la loro fiducia. Come tante altre volte, Egli interviene con la sua grazia laddove trova la giusta predisposizione, sia nei confronti di persone religiose, che di chi non viveva secondo la religione del Tempio.
Confortati da tale certezza, fratelli, guardiamo anche noi con rinnovata fede e umiltà all’Amore divino: anche se non siamo completamente “di chiesa”, anche se i nostri rapporti con la religione sono un po’ conflittuali, anche se nella nostra vita abbiamo avuto esperienze negative, anche se siamo “tiepidi”, non praticanti, anche se ci siamo allontanati magari decisamente da Lui, Gesù ci può sempre e comunque guarire. Se ci avviciniamo e ci fidiamo di Lui, Lui può cambiare la nostra vita. Non dobbiamo coltivare pregiudizi o diffidenze. Gesù ci salva, ci guarisce non perché esibiamo l’etichetta di “cristiani” ma perché crediamo nel suo amore infinito, confidiamo totalmente in esso, perché siamo certi che se Lui vuole può guarirci, nonostante i nostri demeriti. Soltanto questo dobbiamo credere fermamente; solo in questo dobbiamo porre la nostra fiducia.
Succede però che a volte siamo così sordi, così “ostruiti”, da non percepire neppure la gravità della nostra situazione, non ce ne rendiamo neppure conto. Abbiamo bisogno che qualcuno, con più fede di noi, “ci porti”. Ecco perché è tanto importante avere una “guida” spirituale che ci accompagni nel nostro andare verso Gesù.
A questo punto cosa fa Gesù con il sordomuto? Per prima cosa lo trascina lontano dalla folla. È una cosa che Gesù fa spesso (Mc 5,40; 8,23); la folla sono i condizionamenti dell’ambiente circostante, è il giudizio impietoso delle persone vicine, che magari amiamo pure. Finché rimaniamo succubi del loro giudizio, delle loro valutazioni, non possiamo guarire.
La “folla” ci dice: “Tu devi fare così; devi fare come dico io”. Ricordate? Quante volte abbiamo sentito la frase: “No, così non va bene”; che poi vorrebbe dire: “Non fai come va bene a me”!
La folla cerca di condizionarci, di determinarci, di dirigerci, di farci fare quello che vuole lei. E finché non ci sottraiamo al suo influsso, non ne usciamo, non ne veniamo fuori, non possiamo ascoltarci, non possiamo essere noi stessi. La folla in altre parole è quel “condizionamento” interiore che ci impedisce di agire liberamente, di fare le nostre scelte, di seguire le nostre ispirazioni per paura che qualcuno ci disapprovi, per paura di rendere scontento qualcuno, di farci rifiutare da qualcuno.
Ma non possiamo seguire due padroni, dice Gesù: o seguiamo noi stessi, la nostra coscienza, o seguiamo gli altri, la “folla”. O facciamo felici noi stessi o gli altri; o realizziamo noi stessi o quello che gli altri vogliono per noi stessi: dobbiamo scegliere!
La “folla” è tremenda, fratelli, ha un potere enorme. Noi, per una legge naturale, siamo attratti dalla “maggioranza”. Cioè: noi pensiamo che quello che fa la maggioranza sia giusto e, proprio poiché lo fanno tutti, sia sicuramente lecito. Quindi, se facciamo qualcosa di diverso dagli altri, pensiamo subito che sia sbagliato. La maggioranza ha il potere di influire in maniera categorica su di noi. E, credetemi, c’è bisogno di una grande maturità, di una forza interiore enorme, per affermare noi stessi, la nostra coscienza, e staccarci da una maggioranza che agisce in maniera diversa dalla nostra.
Una volta che i due si sono appartati, Gesù inizia il trattamento di guarigione del sordomuto. Prima di tutto gli tocca le orecchie con le dita; deve cioè aprirgliele materialmente,deve stappargliele, deve eliminare qualunque diaframma che ostacoli un perfetto ascolto, una percezione minuziosa e totale.
Infatti, se noi non “sentiamo”, non percepiamo la nostra malattia, come facciamo a guarirla? Se non sentiamo la nostra insoddisfazione, come facciamo a eliminarla? Se non sentiamo il nostro dolore interiore, come facciamo ad uscirne? Se non sentiamo che stiamo morendo, in che modo possiamo intervenire per continuare a vivere? Non è un caso che la nostra società sia zeppa di anestetizzanti e psicofarmaci; non è un caso che la gente corra sempre e che non si fermi mai; non è un caso che non si sappia più fare silenzio e che il rumore sia il nostro compagno di sempre. Sono tutte cose che servono a non farci “sentire”, a non farci pensare: perché in fondo in fondo noi abbiamo paura di sentire, di pensare.
Poi Gesù gli tocca la lingua con la saliva. Deve cioè renderla fluida, deve insegnargli a parlare, ad esprimersi, a “dirsi”. In altre parole Gesù gli dice: “Devi tirare fuori tutto quello che hai dentro. Devi dare un nome a ciò che provi. Devi definire la tua gioia, la tua rabbia, il tuo dolore, la tua emozione. Devi raccontarti. Devi vincere la paura di essere giudicato, di essere rifiutato, deriso. Devi tirare fuori da te chi veramente sei”.
Quindi, guardando in cielo, Gesù emette un forte sospiro; si può dire che urla quasi al sordomuto un ordine secco e perentorio: “Apriti”. Ora, se i primi due gesti erano riservati alle orecchie atrofizzate del poveretto, l’ordine “Apriti” è rivolto direttamente e unicamente all’uomo. Gesù cioè lo scuote, lo strattona; è quasi arrabbiato, gli urla addosso perché si è caparbiamente rinchiuso in se stesso e non vuole fare nessuno sforzo (ha tanta paura!) per “aprirsi”, per tornare a vivere. Gli va bene così, è soddisfatto della sua condizione: da qui l’urlo di Gesù per svegliarlo dal suo torpore, per spaccare quella corazza in cui si è rinchiuso.
Quante volte Gesù deve urlare per svegliarci, per scuoterci dal nostro sonno, dal nostro torpore!
E quante altre volte noi, puntualmente, lasciamo risuonare a vuoto dentro di noi l’urlo di Gesù: “Apriti… apriti… apriti!”.
E il sordomuto guarisce. E nessuno può trattenere i presenti dal gridare al mondo l’entusiasmo e la gioia per quanto Gesù ha operato. Neppure Gesù: perché più egli cerca di zittirli, più essi proclamano al mondo le meraviglie di Dio: “Ha fatto bene ogni cosa…”.
Aprirsi, fratelli, significa dare una dimensione alla nostra vita. Aprirsi vuol dire far entrare e incontrare il nuovo. Aprirsi è vivere. Aprirsi è cantare e proclamare Dio Amore. Chiudersi significa ignorarlo, è morire.
Apriamo dunque il nostro cuore. Evitiamo di ripetere “Non ce la faccio!”: non è vero; abbiamo soltanto paura di soffrire. Non ci rendiamo conto che chiudendoci preferiamo tenerci dentro sofferenze ben più gravi? “Apriti”.
Perché condannarsi a portare certi pesi e certe pietre? Perché privarsi della gioia e dell’intensità dell’Amore solo per paura di soffrire? “Apriti”. Apriamo la nostra mente. Leggiamo, impariamo, frequentiamo nuovi corsi e nuove esperienze. Non diciamo: “Questo mi basta”. Non dobbiamo aver paura di perdere le nostre vecchie idee, di doverle cambiare, di doverle verificare. “Apriti”.
Apriamo i nostri discorsi. Non parliamo sempre delle solite cose: il tempo, i prezzi, la salute, il mangiare, le cose da fare, il calcio, la politica, ecc. Parliamo di noi, di quello che sentiamo dentro, di quello che pensiamo veramente. Allarghiamo le nostre amicizie. Incontriamo persone nuove, stili di vita diversi: ascoltiamo e impariamo. Non dobbiamo temere di non essere all’altezza di altre esperienze di vita.
Ci sono ragazzi che sono perennemente assorti nei giochetti elettronici, smanettano convulsamente la consolle dei loro minuscoli apparati, come se al mondo non ci fosse null'altro da vedere, da pensare o da fare: non possono che sclerotizzarsi. Non esiste solo quello: frequentate gli amici, i gruppi, conoscetene di nuovi; se possibile uscite dal vostro paese, andate alcuni mesi all’estero, accostatevi a nuove esperienze. “Apritevi”!
C’è una coppia di giovani sposi che tutti i sabato sera si ritrovano con gli stessi amici nella solita pizzeria; tutte le domeniche sono a pranzo dai genitori di lei e la sera dai genitori di lui. Non dite: “Li amiamo!”. È che avete paura di sperimentarvi diversamente. “Apritevi”!
C’è una famiglia che da ventisette anni va in vacanza sempre nel solito posto. Non dite: “Qui è bello”. È un'abitudine pigra bella e buona, è non voler affrontare la fatica di cambiare. “Apritevi”!  
Quanti di noi, fratelli, facciamo sempre le solite cose, i soliti incontri, i soliti riti fatti sempre alla stessa maniera. “Apriamoci!”.
Ecco: a questo invito costante e quasi assillante di Gesù, dovremmo sempre rispondere: “E perché no?”. Di fronte ad un nuovo progetto di vita, di fronte ad una nuova esperienza, ad una nuova idea, ad un nuovo incontro, prima di rifiutarlo chiudendoci a riccio, chiediamoci: “E perché no?”. Se rimaniamo aperti, la Vita entrerà dentro di noi e ci colmerà con la sua forza. “Io sto alla porta e busso” (Ap 3,20), ci dice Gesù: apriamogli dunque!
Vedete, noi siamo come un forziere. Un forziere nascosto. Conteniamo un tesoro preziosissimo, disponiamo di perle preziose, gioielli, monete d’oro. Ci scopriamo ad immaginare lo stupore e la gioia di chi ci scoprirà, di chi riuscirà a forzare la nostra serratura. Ci perdiamo a fantasticare su tutte le cose che il fortunato potrebbe fare o diventare grazie alle nostre ricchezze. Immaginiamo, fantastichiamo… Ma se non accogliamo l’invito di Gesù nessuno, anche trovandoci, potrà mai aprirci! Siamo un tesoro di indicibile valore, ma rimaniamo un tesoro inutile.
Si, fratelli: perché se non siamo noi ad aprirci, nessuno potrà mai farlo, nessuno potrà mai conoscerci, confrontarsi con noi. Se non ci apriamo, chi ci potrà amare? Chi potrà condividere i suoi progetti, le sue aspirazioni con noi? Se non ci apriamo, è come se vivessimo tutta la vita con un altro nome! Rischiamo di venire amati per una persona che non siamo! Se non ci apriamo, non saremo mai niente: viviamo come se fossimo già morti. Amen.

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