giovedì 23 gennaio 2025

26 Gennaio 2025 – III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Vangelo Lc 1,1-4; 4,14-21 
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teofilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. 
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nazareth, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo nel Giordano, dopo aver pregato a lungo in solitudine nel deserto, inizia la sua missione pastorale per le strade della Galilea.
Un giorno si trova a passare anche per la sua città di Nazareth, ed essendo di sabato, entra nella sinagoga. E Luca aggiunge: “secondo il suo solito”; un’annotazione che ci conferma appunto l’abitudine di Gesù di frequentare tutti i sabati la sinagoga, come facevano gli ebrei osservanti del suo tempo. A differenza loro, però, Egli non va per assistere passivamente ad una cerimonia; ma va come maestro, per insegnare e spiegare i testi sacri, imponendosi nell’annuncio del suo vangelo: un comportamento autorevole che ovviamente gli procura all’istante critiche invidiose, proprio da parte di quegli ebrei osservanti, che per la loro partecipazione al culto, passavano come persone religiose, devote, pie, timorate di Dio.
Nei confronti di Gesù si viene pertanto a creare un atteggiamento paradossale di rifiuto, di irritazione, di sospetto, di odio: un clima di insofferenza decisamente ostile, soprattutto da parte delle autorità religiose, degli scribi, dei dottori della legge, con i quali Gesù è costretto a misurarsi per il resto della sua vita terrena; in pratica, quando parla a quelli che sono lontani, ai peccatori, ai delinquenti, alla feccia della società, ai derelitti, ai malati, ai bisognosi di aiuto, tutti lo ascoltano devotamente e fanno ritorno alle loro case carichi di ammirazione, di consolazione, di buoni propositi; quando invece sono presenti tra la folla gli operatori del sacro, gli addetti ai lavori, le autorità religiose, immancabilmente cercano di contraddirlo, di metterlo in difficoltà, di farlo fuori, di ucciderlo.
I luoghi sacri, le sinagoghe, i capi religiosi, sono per assurdo gli elementi più pericolosi per Gesù: i Vangeli ci riportano in questo senso ben tre episodi avvenuti in sinagoga: nel primo lo interrompono malamente (Mc 1,21); nel secondo decidono con i pretoriani di assassinarlo e nel terzo tentano di mettere in atto il loro proposito (Mc 3,1; Lc 4,16-30). È inoltre nella zona del Tempio, direttamente nella “Casa di Dio” per eccellenza, che Gesù rischia il peggio: per esempio Giovanni nel suo vangelo usa 12 volte il verbo “uccidere” (apoktèino), e 8 volte il verbo “arrestare” (piàzo); ebbene, la metà delle volte, lo fa proprio quando Gesù si trova all’interno o nei pressi del Tempio: sembra incredibile che i custodi della zona più sacra e religiosa, proprio in quel luogo consacrato a Dio, in nome di Dio, cerchino di uccidere il figlio stesso di Dio. Ciò succede, purtroppo, perché spesso i ministri di Dio di ogni tempo, pur ostentando pubblicamente adorazione, pietà e familiarità con Lui, in realtà non lo conoscono, non credono in Lui; sono soltanto dei mestieranti del sacro, resi progressivamente insensibili e duri di cuore dall’abitudine, ministri che hanno perso la loro fede e si sono allontanati da Dio, o che forse non hanno mai sperimentato veramente Dio, non l’hanno mai amato sinceramente, poiché il loro cuore è sempre stato affascinato da altro.
Ma torniamo al testo: “gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui” (Lc 4,20).
La sinagoga è piena di gente: un evento eccezionale dovuto sicuramente alla presenza di Gesù, tenuto conto che il più delle volte, non si raggiungeva neppure il numero “legale” di dieci maschi adulti, il cosiddetto minyàn, per cui il rabbino, per rendere valida la liturgia, era costretto a convocare le persone  a pagamento.
Se dunque inizialmente tutti dimostrano di essere soddisfatti ed entusiasti per la presenza di Gesù, come mai, poco dopo, si rivelano così irritati da pensare addirittura di ucciderlo? Semplice: Egli, ignorando il rabbino, si pone spontaneamente alla guida della celebrazione, prende in mano il Rotolo di Isaia e invece di leggere il passo previsto per quel sabato, cerca, (eurisko) quello che Lui ha deciso di commentare; questo indispettisce gli ascoltatori, sia perché le regole liturgiche erano ferree e sacre, sia soprattutto per l’argomento da lui scelto: un passaggio del capitolo 61 di Isaia che parla dell’investitura dell’unto dal Signore (il Messia).
Gesù infatti inizia a leggere: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio… e predicare un anno di grazia del Signore”.
E qui si ferma. Il suo scopo, nel commentare queste parole, è quello ovviamente di presentare se stesso, la sua missione: “Io sono qui esattamente per questo; Dio mi ha mandato per annunciare ai “poveri” la “lieta notizia”, il vangelo, per ridare all’umanità l’antica dignità perduta: e fin qui, nulla in contraddizione con le aspettative messianiche: Egli infatti non è venuto per formare un gruppo di preghiera, un movimento carismatico, un partito religioso, ma per togliere dal cuore degli uomini la povertà di amore, il vuoto dell’assenza di Dio, per redimere l’umanità, per restituirle ciò che da troppo tempo le mancava.
A questo punto, però il testo di Isaia continua dicendo: “per annunciare il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti di Sion” (Is 61,2): attraverso il Messia, cioè, Dio avrebbe vendicato con la sua potenza tutti i soprusi e le violenze sofferte dal popolo. Solo che Gesù questo versetto non lo legge; e ciò fa esplodere il malcontento dei presenti.
Noi che, a posteriori, non siamo interessati al riferimento politico di questo testo, difficilmente riusciamo a capire tanta ribellione in una sinagoga, al punto da indurre i presenti a cercare nei pretoriani i complici per uccidere Gesù.
“Cosa avrà mai fatto di tanto sconveniente?”. Decisamente non capiamo. Dobbiamo sapere però che Nazaret si trova in Galilea. E gli abitanti della Galilea, all’epoca, erano dei nazionalisti fanatici e violenti. In quella regione al popolo bastava poco per sollevare rappresaglie contro il potere romano oppressore, invocando appunto la prossima venuta del Messia. Per cui, nella lettura sinagogale del testo di Isaia, tutti si aspettano quella parte che annuncia la venuta del Messia per liberare il popolo dalla schiavitù e la vittoria finale sui nemici oppressori.
Gesù però, come dice il vangelo, termina improvvisamente il suo intervento, riavvolge il rotolo, lo consegna all’inserviente e si siede.
Solo così diventa comprensibile lo sconcerto tra i presenti: una lettura della Bibbia, fatta in questo modo, per loro è mutilata, blasfema, sacrilega, irriverente. “Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui” (Lc 4,20).
Nell’aria si respira, oltre alla delusione, una tensione incredibile: il comportamento e le parole di Gesù, non sono in linea con le loro attese, con le attese della tradizione, con le attese dei capi religiosi: è un pazzo! La figura del Messia che Lui propone è inaccettabile: Il Messia, il Salvatore, l’Unto, che essi aspettano, è di tutt’altra levatura, di tutt’altro carisma: “solo un mentecatto come costui può definirsi il Messia; mettiamolo a tacere!”.
E nel vangelo di domenica prossima sentiremo come andrà a finire.
Questa in sintesi è la ricostruzione di quanto e accaduto quel sabato nella sinagoga di Nazareth.
Due cose però vanno evidenziate nel comportamento di Gesù: due particolari sui quali noi, suoi discepoli di oggi, dobbiamo fermare la nostra attenzione.
Prima di tutto la convinzione ferma e incrollabile della sua identità: Gesù è certo di essere Lui il Messia, l’Inviato dal Padre: una certezza, una convinzione, che dobbiamo tutti condividere, perché noi tutti siamo in qualche modo degli inviati da Dio, delle persone scelte e chiamate da Lui per continuare su questa terra la sua missione. Dobbiamo credere fermamente in questo, dobbiamo esserne convinti, perché la fiducia in Dio e in noi stessi, è la base su cui poter costruire l’opera che Lui ha progettato specificatamente per noi; come Gesù, dobbiamo essere pienamente consapevoli, di fronte a tutti e in ogni situazione, della nostra vocazione cristiana, di essere cioè dei “chiamati”, degli “inviati” specialissimi di Dio.
L’altro particolare è quell’oggi con cui Gesù afferma il compimento della Scrittura: un “oggi”, un “adesso”, che conclude definitivamente il tempo dell’attesa.
Un termine perentorio che, riferito sempre a noi, ci impegna seriamente contro l’abitudine del rimandare: ogni nostro proposito deve trovare la sua immediata attuazione nell’oggi; non possiamo continuare a tergiversare, a posticipare, a rimandare; non possiamo più sperare che un domani le cose si risolvano da sole.
Dobbiamo “fare” oggi, non abbiamo alternative: abbiamo un “ti chiedo scusa” in sospeso con qualcuno? Facciamolo oggi; c’è un incoraggiamento, una buona parola che qualcuno si aspetta da noi? Facciamolo oggi; c’è un modo di comportarci che disturba la nostra coscienza, e che dobbiamo migliorare? Facciamolo da oggi, da subito, a qualunque costo; c’è un “sì” che dovremmo dire a qualcuno? diciamolo oggi, anche se ci procura paura o vergogna; c’è invece un “no” che dovremmo dire? diciamoglielo subito, anche se ciò comporta tensione e conflitti. Ci accorgiamo che la vita ci sta sfuggendo nell’indifferenza quotidiana? Fermiamoci e iniziamo a rimediare da subito, da oggi.
Perché quando ci diciamo “domani”, in genere diventa “mai”. “Domani” è solo un’illusione per dirci un “no” rivestito da “sì”. Il nostro “anno di grazia del Signore”, che siamo chiamati a proclamare e a testimoniare, è già qui, è “l’oggi”, è ora, è subito, immediatamente.
Non rimandiamo più nulla al domani, perché domani potrebbe essere troppo tardi: il termine concesso alla nostra vita, alle nostre opere di bene, domani potrebbe essere già scaduto! Amen.

 

giovedì 16 gennaio 2025

19 Gennaio 2025 – II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 2,1-12
In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

Leggendo il vangelo ci imbattiamo spesso in racconti di feste, matrimoni, pranzi. Ciò non ci deve meravigliare, perché Gesù era un uomo di azione, aperto, uno che viveva, che accettava volentieri di mangiare con le persone, che festeggiava con esse: non era un eremita, un solitario, un musone, una persona scostante: era uno che condivideva volentieri i momenti belli della vita con tutta la sua gente. 
Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della festa, della felicità, delle soddisfazioni della vita. Noi non potremo mai capire il Dio della croce se non capiamo prima questo Dio che vuole per ogni uomo gioia e felicità.
Gesù dunque è presente ad un matrimonio in Cana di Galilea, al quale partecipa anche sua madre: è l’evangelista Giovanni che ce lo documenta: per lui questa doveva essere un’occasione molto importante, poiché in tutto il suo vangelo, egli sottolinea la presenza di Maria soltanto due volte: all’inizio del ministero di Gesù, qui a Cana, e alla fine della sua vita pubblica, ai piedi della croce.
Per Giovanni, Gesù ha vissuto l’intera sua missione pubblica lontano dalla madre: Maria però ha sicuramente vissuto questo distacco assicurandogli continuamente la sua discreta presenza: per suo Figlio lei è stata sempre un porto sicuro, una casa con la porta sempre aperta, un cuore spalancato in cui Gesù poteva trovare sempre accoglienza e amore.
Durante il banchetto nuziale, improvvisamente, viene a mancare il vino. È appunto Maria, la madre di Gesù, sempre attenta e premurosa, che nota per prima il disagio dei padroni di casa, e si affretta ad avvisare il figlio: “Non hanno più vino”. Parole semplici le sue, ma che contengono l’invito ad intervenire immediatamente, per evitare ulteriore imbarazzo agli sposi.
Sensibilità di madre, che si ripete anche nella “festa di nozze”, in quella avventura “nuziale” di grazia e di amicizia con Dio, che ogni singolo uomo è chiamato a realizzare nella sua vita: è sempre lei, Maria, che si pone appunto come intermediaria tra Dio e la nostra situazione spesso deficitaria: “Non hanno più vino”; noi, uomini miserabili, vorremmo festeggiare le nostre nozze con Dio, ma spesso non ne siamo all’altezza, siamo “vuoti”, abbiamo esaurito il vino dell’amore, non sappiamo più amare, non sappiamo più vivere. Le nostre giornate sono inutili, prive di qualunque sapore, non c’è più gioia nella nostra vita. È proprio allora che dobbiamo dare retta a nostra Madre che ci sussurra: “Fate quello che vi dirà”. Fidiamoci di Lei, fidiamoci delle Parole che Gesù ci dirà, e soprattutto mettiamole in pratica. “Fate quello che vi dirà”: a volte non capiamo ciò che Gesù ci propone; anzi lo capiamo benissimo, ma nel nostro orgoglio lo giudichiamo immeritato, irrazionale, illogico, stupido. Capiamo benissimo che Gesù vuole portarci a fare un certo cammino; e poiché non ne condividiamo il motivo, ci diciamo che non ha senso andarci; ci diciamo che quelle cose sono troppo difficili per noi, troppo dure, faticose, che è irrazionale doverci arrampicare per un sentiero di montagna, quando possiamo tranquillamente fare il nostro percorso in pianura.
“Fate quello che vi dirà”: sì, a volte Lui ci fa vivere esperienze veramente dolorose, momenti di grande sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di ribellione: ma la soluzione di ogni cosa sta sempre lì, nel fidarci di Lui: Egli è il Dio della Vita, conosce perfettamente le nostre possibilità, le nostre forze, e non sbaglia mai. Lasciamoci guidare da Lui, e quando la nostra debolezza è troppa, quando sentiamo di non potercela fare più, abbandoniamoci completamente a Lui, lasciamoci portare in braccio: non dobbiamo fare molta strada per questo, perché Lui è sempre lì, al nostro fianco, pronto ad intervenire in nostro aiuto.
I contenitori vuoti di Cana, le giare “di pietra”, stanno ad indicare appunto l’aspetto “pesante” della vita, i momenti in cui ci sentiamo rigidi, insensibili, pietrificati; stanno ad indicare che i nostri comportamenti privi di slancio, di amore, di passione, hanno ormai sclerotizzato la nostra vita, privandola di quel particolare respiro divino, ampio, diverso, in grado di alleggerire il nostro cammino. Quelle giare “di pietra” rappresentano, in altre parole, l’indurimento del nostro cuore, della nostra vita spirituale, delle nostre devozioni, delle nostre opere buone, delle nostre preghiere, delle nostre liturgie ormai stantie per la loro sciatta ripetitività: tutte cose che non ci trasmettono più nulla, non ci infondono più alcuna vitalità, nessuno slancio, che non sono più in grado di assicurarci la necessaria comunicazione con il Dio della Vita.
Diventiamo vittime dell’abitudine, della quotidianità, fenomeni che frantumano i nostri sentimenti, la nostra volontà, le nostre aspirazioni, i nostri sogni. Non avremo più la forza per reagire, per andare oltre, per cercare il “nuovo”, il “bello” della vita, per affrancarci dalla zavorra letale della nostra insensibilità, del nostro disinteresse: e noi sicuramente moriremo dentro, nell’anima e nello spirito, se non troveremo il modo per ricaricarci quotidianamente di Dio, se non punteremo lo sguardo su orizzonti spirituali più alti, più ampi, più aperti, in grado di farci riscoprire la ricchezza, la vitalità, la bellezza del nostro esistere cristiano. Noi moriremo inesorabilmente, se sperperiamo tempo prezioso davanti ad una tv idiota e inguardabile, in discorsi inutili e chiacchiere da osteria, nella ripetitività di giornate senza costrutto e senza ideali. Moriremo inesorabilmente se non ci specchiamo nell’anima, se continuiamo a mentirci, a raccontarci “balle”, se ci nascondiamo dietro a sembianze di facciata menzognere, se ci appelliamo alla nostra razionalità, alla nostra intelligenza, alla nostra cultura, solo per “incantare gli altri”: appariremo anche bravi, acuti, profondi, ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita, a Colui che vorrebbe condividere la nostra di vita. Moriremo inesorabilmente se deleghiamo le nostre responsabilità, i nostri doveri, i nostri ideali agli altri, a questo mondo materialista, indifferente, cinico, a questa società ormai depravata. Moriremo inesorabilmente se andiamo a messa perché ci siamo sempre andati, se preghiamo tanto per pregare, se crediamo solo superficialmente, distratti e disinteressati. Perché così tutto diventa abitudine, tutto diventa inconsistente, “senza vita”, senza calore, insensibile alle vibrazioni interiori, ai sussulti dello Spirito che ci inabita.
Prima o poi, non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente di niente, finiremo col vivacchiare vuoti, esauriti, finiti, morti. Alcune persone, convinte di essere vive, sono già morte dentro; altre sono in fin di vita; altre ancora presentano serie malattie allo stadio finale; la loro anima soffre e geme, ma sono ben pochi coloro che se ne accorgono.
Ogni giorno, ogni mattina quando ci alziamo, spetta pertanto solo a noi decidere se vivere o lasciarci morire.
Il segno di Gesù compiuto a Cana è la dimostrazione di come una vita finita, vuota, spenta, “senza più vino” possa al contrario ritrovare slancio, vitalità, “nuovo vino buono”. Trasformarsi, divenire, evolvere, deve essere pertanto una dimensione irrinunciabile del nostro vivere, un lungo e ininterrotto cammino di trasformazione spirituale.
In questo senso “Cana” ci invita a cercare in profondità, dentro di noi; ci spinge a penetrare all’interno della nostra anima per irrorarla di “nuovo vino buono”. “Attingete e portatene al maestro di tavola”, ordina Gesù ai servitori. Dio, creandoci, ha già compiuto in noi il suo specialissimo miracolo, elevandoci ad essere sua immagine e somiglianza. Noi dobbiamo solo credere in questo miracolo, e attingere con forza, abbeverarci continuamente alle sorgenti dello Spirito, per vivere confortati e rinvigoriti dal suo amore. Amen.

 

  

giovedì 9 gennaio 2025

12 Gennaio 2025 – BATTESIMO DEL SIGNORE


Lc 3,15-16.21-22

In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Giovanni Battista è l’ultimo dei grandi profeti veterotestamentari: la sua predicazione era molto attuale ed efficace e la gente lo seguiva con attenzione. In molti si chiedevano addirittura se non fosse lui il Messia, il Cristo, l’Aspettato da sempre: lo sentivano parlare in maniera autorevole, decisa e provocatoria: “Convertitevi perché la fine è vicina!”. Di fronte a tanta determinazione, a tanta sicurezza nel condannare senza paura ingiustizie e falsità, la gente correva da lui in massa per farsi battezzare. L’immagine di Dio che egli trasmetteva è certamente quella di un Dio che ama; ma era anche e soprattutto l’immagine di un Dio severo, di un giudice imparziale, inflessibile, a cui non sfugge nulla, che nulla dimentica, che conosce e vede ogni cosa; un Dio, quindi, che a tempo debito provvede a castigare in maniera inappellabile tutte le falsità, gli inganni, i peccati degli uomini. Dio – faceva capire Giovanni ribadendo la Scrittura - è un padre paziente, ma la sua pazienza ha un limite. È necessario pertanto, prima che sia troppo tardi, correre ai ripari, inchinarci e sottometterci a Lui, perché il Dio della paura esige la perfezione, non fa sconti, opera con giustizia, rigore, intransigenza: ripaga i giusti con il premio del paradiso, castiga i malvagi con la condanna all’inferno, allontanandoli dalla sua presenza. 
Farsi battezzare da Giovanni nel Giordano, decidere di purificare la propria vita e la propria anima immergendosi nelle acque del fiume, era quindi per chi lo seguiva l’unica soluzione per liberarsi da ogni scoria umana, per ricominciare a vivere e lavorare seriamente alla realizzazione di quel progetto che Dio ha previsto per ogni creatura.
Ebbene, anche Gesù segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma una volta sceso in acqua, tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario, decisivo: quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto il Padre lo ami, di quanto Egli sia importante agli occhi del suo Dio. Si rende subito conto che il “suo” Dio, che è poi il Dio del suo Vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c’è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”.
È così che il rito del “battesimo d’acqua”, acquista per Gesù un significato “altro”, diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Luca vuol descrivere, pertanto, va ben oltre il significato di un avvenimento storico, materiale, di routine; egli tenta qui di riportare una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento profondo, interiore, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso “segni e discorsi” celestiali che tutti avranno modo in futuro di percepire e comprendere: i “Cieli sono aperti”, sottolinea Luca: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) in stretta, indissolubile comunione, sono aperti per rendere comprensibile qualunque comunicazione.
Il centro focale del “battesimo” di Gesù non è quindi la “purificazione” da un peccato originale di cui era esente; ma è vivere questa “esperienza” inedita della Voce del Padre che, mediante concetti e parole già espresse nella Scrittura, gli fa capire e meditare: “Tu sei l’amato, tu ai miei occhi sei grande, tu sei mio figlio prediletto, non ti lascerò; tu sei importante per me, non ti abbandonerò, tutto ciò che esiste l’ho creato per te; non lo devi conquistare, è già tuo; io ti amo già per il solo fatto che sei mio figlio; sei unico per me: ti voglio bene!”.
Che cosa in concreto Gesù abbia vissuto o provato in quel preciso momento, non lo sappiamo; ma ciò che possiamo dire con tutta certezza è che Lui non sarà mai più lo stesso; da quell’istante Egli vive la certezza dell’amore paterno: sente di essere amato e benvoluto dal Padre, al punto da non aver più bisogno di compiacere nessun altro; da non doversi preoccupare più di nulla, da essere libero di fare le proprie scelte e di seguire la propria strada, anche se contraria a tutte le altre.
Una vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”. Tutti noi infatti, chi più chi meno distintamente siamo, o siamo stati, i destinatari di una speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove, visto che non si tratta di una chiamata col cellulare e neppure di un “sms”. Ma per tutti, questa occasione è unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai come prima. È un incontro/scontro con qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che ci lascia quasi esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza per quanto è grandioso e bello.
Se vogliamo capire e dare seguito a questa “chiamata di Dio”, viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra umanità, fatta di errori, limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie, ostinazioni, perversioni. Dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci conto del non fatto, dell’incompiuto, delle occasioni perse, degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutte le nostre miserie, con il nostro nulla, con tutte le situazioni peccaminose e mortali che rendono spenta la nostra vita. E soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare, ripulire, tagliare, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: quello Spirito d’Amore che ci può consigliare, confortare, amare, proteggere.
Guai a noi se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere bravi, giusti, perfetti, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano; guai a noi, perché così non arriveremmo mai a incontrare e a conoscere l’amore di Dio; non potremmo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore non si “patteggia”, non è soggetto a “conflittualità”, non “pretende” nulla: è solo “a servizio”, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta” alla “chiamata/amore” di Dio!
Ascoltiamola dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata: ascoltiamo la Voce dell’Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così, coraggio, datti da fare!”. È questa la voce che ci salva; è questa la voce che ci fa rinascere: perché anche così impresentabili come siamo, ci fa sentire comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, amiamo!
Fidiamoci della Voce del Padre; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente alla sua “chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.

  

giovedì 2 gennaio 2025

05 Gennaio 2025 – II DOMENICA DOPO NATALE


Gv 1,1-18 
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

Il vangelo che la Liturgia ci propone questa domenica, è il brano più profondo e difficile di tutti i Vangeli. Alcuni studiosi hanno passato la loro vita a studiarlo; S. Giovanni Crisostomo o anche Sant’Agostino hanno detto che è un vangelo che va al di là della comprensione umana.
In principio c’era il Verbo: in greco Logos, un termine che ha due significati: Progetto e Parola. Per cui potremmo anche dire: “All’inizio c’era un Progetto”. Un’affermazione meravigliosa con cui Giovanni afferma che Dio, prima di creare ogni cosa, aveva già nella sua mente un progetto, un’idea. Questo significa che noi non siamo qui per caso; siamo qui perché Dio aveva ed ha un progetto su di noi; pensate: noi, creature insignificanti, facciamo parte del Progetto di Dio. Se così non fosse, noi neppure esisteremmo. Ma ci siamo, e siamo qui per un motivo ben preciso... e visto che Dio ci ha creati, il motivo deve essere davvero importante. In altre parole Dio ha bisogno di noi. Magari i nostri genitori neppure ci volevano... magari la gente ci rifiuta e ci respinge... magari noi stessi non ci vogliamo, non ci piacciamo, ci facciamo schifo... ma Dio ci ha voluto, e continua a volerci, perché gli serviamo per attuare il suo Progetto. Che aspettiamo allora a dargli una mano?
Dio ci ha fatto un dono: la vita. Il dono che noi facciamo a Dio è quello di vivere. Lui vuole questo da noi. “Io sono venuto, perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza”. In pratica dobbiamo vivere, rischiare, metterci in gioco: chi espone le proprie idee, rischia di mostrare a tutti i propri sentimenti, il proprio io intimo; chi ama, corre il rischio di non essere corrisposto; chi vive corre il rischio di morire; chi spera, corre il rischio della disperazione, chi tenta corre il rischio di fallire. Ma bisogna correre i rischi, perché il rischio più grande nella vita è quello di non rischiare nulla. Colui che non rischia nulla, è un nulla e non diventerà mai che un nulla. Può evitare la sofferenza e l’angoscia, ma non può imparare a sentire, a cambiare, a progredire, ad amare, a vivere. Incatenato alle sue certezze, è uno schiavo. Ha rinunciato alla libertà. Solo colui che rischia è veramente libero. La vita, come ho detto, è il dono che Dio ci fa: una vita vissuta è il nostro dono a Lui: una vita sprecata è il più grande peccato. Cosa aspettiamo allora a vivere? Non diamo anni alla vita, ma diamo vita ai nostri anni, perché solo così saremo luce che risplende nelle tenebre. L’uomo che vive, cioè colui che ha accolto il messaggio di Dio, è vita, è luce; non dice luce che lotta, ma semplicemente luce che splende, luce cioè che brilla, libera, senza subire costrizioni e senza costringere nessuno.
Ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5). Naturalmente le tenebre odiano la luce, non la vogliono: qui Giovanni allude alle autorità religiose. Infatti esse “sono dei morti” che vivono, inflessibili, freddi, autoritari, senza un cuore caldo. Avrebbero dovuto portare la luce e invece... 
“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 19,9). La luce vera, Gesù, il verbo incarnato, è venuto nel mondo. “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita”.
Gesù-Vita è quindi la vera luce che illumina ogni uomo: facciamo però attenzione a non prendere abbagli, perché il potere (orgoglio, superiorità, mancanza d’amore, rigidità, ecc) non può conoscere Dio.
Anche coloro che si lasciano incantare da altre luci, diverse dalla Luce vera, sono comunque “divini”, sono cioè fatti, impregnati di Dio; ma poi si sono, come dire, dimenticati di chi sono veramente, si sono dimenticati che hanno l’impronta di Dio nel loro cuore e vivono non riconoscendolo e non riconoscendosi più. Che tristezza: essere dei re e vivere come degli schiavi!
“A quanti però l’hanno accolto, ha dato la possibilità di diventare figli di Dio”.
Ecco, questo è il progetto originario di Dio per ognuno di noi: che noi diventassimo suoi figli.
Noi abbiamo imparato che l’uomo è fatto per servire Dio, che Dio è sopra e l’uomo è sotto, è il suo servitore, che è meglio ubbidirgli perché Dio è potente e se non stiamo attenti ci punisce con l’inferno o con qualche castigo.
In realtà non è così: noi non siamo i servi di Dio ma siamo i serviti da Dio. Vi ricordate la lavanda dei piedi (Gv 13,1-20)? È Dio che serve l’uomo e non l’uomo che serve Dio. Dio non ci chiede preghiere, servizi, sacrifici per lui: è Lui che è venuto a portare il suo servizio e l’amore a noi. La fede non è più quello che noi facciamo per Lui, ma quello che Lui fa per noi.
Noi non siamo figli di Dio per nascita, ma lo dobbiamo diventare. Come? Amando gli altri. “L’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8). I figli di Dio sono pertanto quelli che sono stati generati nell’amore e vivono nell’amore. Non con preghiere, digiuni o sacrifici, lo ripeto, ma con l’amore. Amore: questo, e questo solo, Lui ci chiede.
Questa di Giovanni è una teologia “trasgressiva”: Dio non è più nelle chiese, in un posto prestabilito, ma “in mezzo” al suo popolo, alla sua “Chiesa”. Dio non è più fermo, fisso in un luogo, come lo era nel Tempio, ma in cammino, in un continuo cammino insieme alla gente.
Dio non è più un luogo (tempio), ma un tempo (kairòs): perché nell’istante stesso in cui c’è l’amore, lì c’è Dio..
“E noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). “Nessun uomo può vedere Dio!”, era la convinzione degli antichi israeliti; a Mosè, che ad un certo punto chiede al Signore: “Mostrami la tua Gloria”, Dio gli risponde: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,18-20). Ma con Gesù questo non è più vero: Dio non è invisibile; Gesù stesso dirà: “Dio si vede... Chi vede me vede il Padre (Gv 14,9)”. Dio non è lontano da noi; Dio è qui.
Sulla vetta di un’alta montagna delle Dolomiti, ricordo un cartello che diceva: “Non cercare Dio, ci sei immerso”. Lui infatti era lì... bastava guardarsi attorno!
In Gesù, “unigenito del Padre”, c’è tutto quello che si può vedere di Dio. Quindi non è Gesù che è come Dio, ma è Dio che è come Gesù. E allora, se vogliamo sapere chi è Dio, guardiamo, imitiamo, diventiamo, come Gesù. Tutto ciò che Gesù non è, non viene da Dio. La caratteristica di Dio, invece, è quella di essere “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14): una forma che si può tradurre con “pieno di amore e di verità” oppure con “pieno di amore vero”. Perché Dio è così: Egli ama di un amore fedele, di un amore che non tradisce, che non si vendica, che rimane sempre: anche se noi ce ne andiamo o lo tradiamo.
Ancora oggi molte persone temono di aver perso l’amore di Dio, di aver fatto qualcosa di irreparabile per Dio, di essere indegni di Lui...: ma Lui non è così! Lui rimane, Lui è fedele, sempre! “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,19-20). Ricordiamolo in questo giubileo della Misericordia: l’amore di Dio non tradisce mai, non viene mai meno, neppure di fronte alle nostre più oscure cadute. Amen.