giovedì 25 febbraio 2021

28 Febbraio 2021 – II Domenica di Quaresima


“E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…” (Mc 9,2-10).

 Oggi il Vangelo cambia radicalmente ambiente. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nel pericolo di fare scelte sbagliate. Oggi siamo invece in una situazione completamente opposta: la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza: è come “toccare il cielo con un dito”. Domenica scorsa Gesù era solo, oggi è insieme a Pietro, Giacomo, Giovanni, gli amati discepoli. Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio; lì la sofferenza, qui la gioia e la festa; lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto di Gesù trasfigurato nel sole. A un Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino che rivela a tutti la sua vera natura.

Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che dobbiamo vivere come un’esperienza rigorosa, votata alla penitenza, alla conversione, al sacrificio, alla preghiera continua? Cosa significa?

La spiegazione sta nel messaggio che Gesù vuole trasmetterci proprio dal Tabor: Egli in sostanza vuole anticiparci, già su questa terra, una piccola visione di quella che sarà la felicità futura, quella finale, paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice in pratica che la quaresima non deve essere tristezza, ma gioia, entusiasmo; che il nostro cammino di “conversione” deve essere fatto volentieri, con il sorriso, con la fiducia nel suo amore. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita potrà un giorno diventare radiosa solo se ora pratichiamo l’amore: perché solo l’amore potrà farci salire sull’eterno e luminoso Tabor celeste, dove regna la felicità, l’Amore, e farci trasfigurare contemplando quelle meraviglie che nessun occhio umano ha mai visto e mai potrà vedere.

Trasfigurazione: è dunque ciò che possiamo anticipare oggi con l’amore; perché solo chi ama sinceramente, chi è perdutamente innamorato, può cogliere i particolari più belli, più intimi, più commoventi, della vita: come guardare il sole che si specchia sul volto radioso della persona amata, ammirare l’innocenza negli occhi spalancati di un bambino, apprezzare la vera saggezza attraverso le rughe di un vecchio, commuoversi di fronte ad un volto segnato dal dolore per la perdita di una persona cara, rimanere estasiati ammirando la muta grandiosità di un cielo stellato o il sorgere del sole dalle acque immobili del mare: sono momenti rari, magici, che trasmettono sensazioni così profonde, commozioni così intense, da non riuscire talvolta a nascondere le lacrime.

Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di virilità. Oggi so che vuol dire soltanto essere vivi: significa cioè percepire la nostra anima, chi siamo dentro; significa lasciarsi toccare il cuore, farsi coinvolgere da ciò che ci succede intorno; vuol dire non essere gelidi come il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo amorfo. Vuol dire, in una parola, lasciarsi “trasfigurare”.

La vita è piena di questi momenti di Trasfigurazione; per farne esperienza dobbiamo soltanto saperli “vedere”: momenti in cui ci rendiamo conto che vale la pena di vivere; momenti in cui ci sentiamo “speciali”, in cui siamo particolarmente felici di stare al mondo, di esistere, di amare, di credere, di donare; momenti che ci danno la forza e il coraggio di andare sempre avanti, di affrontare serenamente le “discese” dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno.

Senza queste “ricariche” di Dio, di soprannaturale, di infinito, tutto rimarrebbe drammatico, angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché davanti a noi si ergono tanti Tabor di mistica salvezza: dobbiamo permettere alla Luce, all’Amore di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la Vita ci immerga, che viva in noi, che ci faccia sussultare, muovere, rinascere continuamente.

“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico”, e anche “principio di luce”. Bene: la nostra trasfigurazione ci impone di tagliare tutti i cordoni “ombelicali” che ci legano al superfluo, tutte quelle dipendenze inutili che ci ostacolano la crescita, che avvizziscono la vita. Se in questi giorni di quaresima non approfittiamo di recidere energicamente i nostri legami col male, convinti che tutto sommato la nostra vita non è poi così malvagia e che potremo comunque migliorarla quando decideremo di cambiare abitudini e stile, siamo soltanto dei poveri illusi; soprattutto non arriveremo mai ad avere una vita “trasfigurata”. Insistere nel vivere situazioni negative, esperienze traumatizzanti che ci procurano solo dolore e disperazione, significa scegliere una fine già annunciata, una caduta nel nulla implacabile e devastante. Se invece vogliamo rinascere, se vogliamo camminare spediti verso la Luce, non permettiamo a zavorre pericolose di rallentarci, di ostacolarci: il nostro taglio deve essere netto, deciso, definitivo.

Solo il cordone ombelicale che ci lega a Dio non va mai reciso; anzi dobbiamo conservarlo gelosamente, dobbiamo proteggerlo costantemente, con grande cura, perché per noi vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo, significa al contrario lontananza, condanna, perdizione. È l’unico canale attraverso cui Dio può riversare l’amore nel nostro cuore. Un canale che, per quanto possiamo allontanarci, ci terrà sempre uniti a Lui, senza mai correre il pericolo di perderci nel vuoto”. Solo così potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le sue inevitabili “prove”; solo così potremo affrontare i momenti più duri e difficili: perché dentro di noi troveremo sempre nuova energia, nuova forza, nuovo entusiasmo: perché abbiamo Dio-Amore che abita stabilmente nel nostro cuore. E potremo esclamare felici con Pietro: “Signore, è proprio bello stare qui con te!”.

Ma anche allora, siamo del tutto sinceri? Per noi è veramente bello stare con Dio, estasiarci di Lui nel silenzio della nostra casa, oppure in Chiesa, nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, nelle sacre liturgie? Oppure il nostro è solo l’entusiasmo stanco di chi si trascina dietro abitudini senza vita, senza passione? Ebbene, la quaresima è il tempo degli esami, è il tempo ideale per ritagliarci nuovi spazi di silenzio, per darci delle risposte sincere, per dedicare più tempo a Dio, per rimettere la nostra vita in perfetta sintonia con Lui.

Per farlo, come ci ordina la Voce dalla “nube”, dobbiamo “ascoltare”. Dobbiamo cioè “ascoltare” il Figlio, ascoltare la sua Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello, di divino, hanno da dirci gli uomini nostri fratelli, la natura, il creato, la vita. Dobbiamo imparare ad ascoltare Dio con umiltà, con attenzione: è da questo che dobbiamo ripartire.

Purtroppo noi oggi viviamo in un mondo in cui i valori inalienabili della vita sono calpestati impunemente, abbandonati nel disinteresse più totale; il mondo, la natura, la società, lontani da Dio, sono ormai allo sbando: orrende sono le nostre città, orrende sono le periferie, orribili sono le ideologie che imperversano, orribili le proposte martellanti e sguaiate della pubblicità, orribile il linguaggio che ci raggiunge dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione, orribili sono i nuovi stili di vita.

È proprio vero! L’umanità intera necessita urgentemente di “trasfigurazione”: di quella trasfigurazione vera, luminosa, autentica, divina; ha improrogabile bisogno di rivestirsi con la bellezza unica di Dio, che è Verità, Vita, Amore. Smettiamola di vivere allo sbando, di ingannare noi stessi, ostinandoci a impersonare freddi, ottusi e infelici pagliacci, che si affannano a vivere senz’anima, senza luce, senza calore, senza amore. Amen.

  

giovedì 18 febbraio 2021

21 Febbraio 2021 – I Domenica di Quaresima

“In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana” (Mc 1,12-15).

 È la prima domenica di quaresima. La Parola ci riporta oggi al primo capitolo del vangelo di Marco, che nel suo stile stringato ed essenziale, in tre versetti liquida l’esperienza di Gesù nel deserto. Subito dopo la teofania del battesimo in cui la voce del Padre lo riconosce come Figlio amato, Gesù deve affrontare un altro evento, completamente diverso: lo stesso Spirito di Dio lo spinge nel deserto: cioè quel Dio che nella teofania battesimale lo qualificava come “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti, di privazioni, dimora dei demoni e del male.

“Com’è possibile?” ci chiediamo: “come può un Padre dimostrarsi così insensibile, incoerente, nel mandare il figlio amato in un luogo tanto pericoloso, arido, inospitale, come il deserto”?

Ovviamente, se pensiamo in questo modo, dimostriamo di non aver capito nulla di Dio; soprattutto di non aver capito nulla della missione salvatrice di Gesù.

Noi, purtroppo, con i nostri paraocchi, siamo abituati a ragionare solo in un certo modo: se una cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio, è un suo regalo; se, al contrario, una cosa è brutta, ostica, dolorosa, difficile, allora non è Dio che ce la manda, ma è satana, è un castigo, permesso sì da Dio, ma causato direttamente dal diavolo, dalle forze del male.

Solo che in questo caso non abbiamo capito che “il deserto” non è un fatto negativo. I due momenti che vedono protagonista lo Spirito di Dio, sono infatti strettamente correlati, e si inseriscono perfettamente nel progetto divino della redenzione umana attraverso l’incarnazione di Gesù: riconosciuto “figlio di Dio” nel battesimo, Egli avrebbe potuto appellarsi alla sua natura divina, rifiutando di misurarsi col male; al contrario, rimane coerente alla sua realtà di uomo: accetta cioè di vivere fino in fondo questa vita umana con le sue prove, talvolta anche difficili e dolorose, ma tutte con una prospettiva altamente positiva e meritoria: perché nel deserto, luogo della prova e della fedeltà di Gesù alla sua missione, Egli propone all’umanità una via, un comportamento indispensabile ad ogni singolo uomo per amministrare correttamente quella sua vita, meraviglioso dono di Dio.

Un dono, la vita, che non è un regalo già pronto, finito, incartato e infiocchettato: ma, come una pianta, va coltivata, cresciuta, seguita, trattata con cura; è come un compito da svolgere, un quadro da dipingere, un manufatto da costruire in tutta la sua bellezza.

Dio ci affida questa minuscola parte del suo universale “progetto” di vita, questa piccola tessera che noi dobbiamo “elaborare, perfezionare” per poterla reinserire al suo posto nel maestoso mosaico dell’intera creazione.

È una grande responsabilità, che richiede lavoro, applicazione, volontà, coraggio. Le contrarietà sono all’ordine del giorno, dobbiamo superarle: ma troppo spesso noi preferiamo abbandonare il compito assegnatoci da Dio, senza combattere, senza lottare, dimostrando di non aver capito nulla del suo progetto; perché Lui si aspetta da noi un comportamento positivo, vuole che vinciamo i nostri demoni, le tentazioni del male: ci vuole vincenti, vuole che il nostro impegno, i nostri progressi, risplendano preziosi agli occhi del Padre.

Purtroppo le contrarietà, il dolore, le difficoltà, le tentazioni che incontriamo nella vita, non sono delle pietre che Dio semina sul nostro cammino per farci inciampare, per farci cadere, come se lui si divertisse in questo. Lui non ama la nostra sofferenza: lui ama noi e vuole che siamo sempre felici. Sono invece parte integrante della vita umana, come ci insegna oggi Gesù stesso, che da uomo le ha affrontate.

Lui ha vissuto tutto ciò nella sua vita umana, senza appellarsi mai, pur potendolo, alla sua natura divina!

Rileggiamolo allora quel versetto che inizialmente ci aveva scandalizzato: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche…”.  

Il “deserto”, quindi, non è stata una “cattiveria” del Padre, ma è stata la “fedeltà”, la coerenza di Dio Figlio che, assumendo le nostre sembianze umane, ha accettato di farsi carico anche delle relative debolezze, comprese perfino le tentazioni di satana: e tutto questo, per diventare, come dice Clemente Alessandrino, nostro “pedagogo”, nostro “maestro”, nostra guida: per insegnarci cioè come dobbiamo comportarci nella nostra vita.

È quindi Dio, è la Vita stessa, che ci chiedono una gestione responsabile dei nostri progetti: per questo motivo lo Spirito spinge anche noi nel “deserto”, luogo difficile, impegnativo; luogo che ci ricorda i quarant’anni di faticose esperienze, vissute dal popolo ebraico, per poter raggiungere la terra promessa; luogo, il deserto, che ci fa capire come, per raggiungere qualcosa di veramente importante, qualcosa di grande, di bello, di assoluto, dobbiamo prevedere un tempo di prove, di preghiera, di assiduo lavoro, di solitudine interiore.

Ebbene: la Quaresima rappresenta questo nostro passaggio nel deserto; è il tempo in cui siamo particolarmente chiamati a crescere, a prendere decisioni risolutive, a fermarci e a porci domande profonde: “In cosa debbo crescere? In cosa debbo maturare? Cosa debbo lasciare e cosa riprendere?”.  

La quaresima è il tempo in cui anche noi dobbiamo lasciare l’Egitto, terra di schiavitù, per andare verso la terra promessa, terra di libertà.

Un passaggio che va fatto necessariamente nel deserto: perché è lì che dobbiamo spogliarci di noi stessi, vederci per quello che siamo realmente; è lì che dobbiamo affrontare le barriere, gli ostacoli, le montagne, per diventare esperti camminatori sulla strada che conduce a Dio. È un percorso che tutti dobbiamo affrontare e concludere. È un’esperienza ineludibile. È il nostro “esodo”: dalla negligenza, dall’indifferenza, dalla nostra sciatteria spirituale, dalla nostra tiepida e indolente quotidianità.

Fintanto che il tempo della vita ci scivola via, calmo e silenzioso, noi stiamo bene nel nostro guscio autoreferenziale, tutto funziona, siamo soddisfatti, non ci sono problemi di sorta. Improvvisamente però, quando le cose cambiano, il meccanismo si inceppa, il rapporto con noi stessi si incrina. Non ci accontentiamo più di quel che facciamo; non ci basta, cominciamo a pretendere di più; ci sentiamo soffocare, siamo insoddisfatti; ciò che prima ci andava bene, ora non ci soddisfa più. Nuove esigenze emergono; nuovi lati del carattere bussano alla porta; nuove situazioni e sfide si impongono.

È normale: siamo arrivati ai margini del nostro “deserto”: che fare? Dobbiamo affrontarlo: non è un percorso facile, non è una passeggiata: il deserto abbonda sempre di pericoli, insidie, ostacoli, tentazioni: sono gli “stop” inevitabili della vita, quelli che ci mettono in crisi, quelli che ci fanno vivere male interiormente, che sono una sofferenza spirituale: un’esperienza sicuramente dolorosa e negativa, ma che, se affrontata correttamente, ci porterà un risultato vincente, costruttivo. Dopo infatti aver operato il nostro “reset” interiore, ci scopriremo più profondi, più veri, più trasparenti, più inseriti nel mistero della vita, più capaci di amare, più maturi, più liberi.

Dio dice al popolo ebreo: “Ti ho fatto camminare nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i miei comandi” (Dt 8,2). Soltanto il deserto, infatti, può mostrare anche a noi cosa abbiamo dentro, solo il deserto può toglierci le illusioni costruite negli anni, le incrostazioni, le nostre maschere; solo il deserto può spogliarci, riportarci all’essenziale, all’originale, alla nostra candida e innocente nudità.

Perché il deserto è proprio così: è “tentazione”, è “peirasmòs”, vale a dire controllo, prova, verifica”.

Lo eviteremmo molto volentieri; lo vediamo come “zona di pericolo”, zona infestata dai demoni, da tutte quelle voci insidiose che ci demoliscono, ci scuotono dentro: “Vedi come sei realmente? Sei un mascalzone; non vali niente; sei un fallito; guarda cos’hai fatto; ti sei lasciato andare; sei un’incapace!”. Chi vorrebbe ascoltare queste voci? Chi vorrebbe misurarsi con loro? È molto meglio rientrare nel mondo, stordirle con il baccano, con fiumi di chiacchiere insensate, con rumori assordanti, con vuoti divertimenti, annegarle definitivamente nelle mille attrazioni inutili: e quanti cristiani oggi lo fanno!

Ma questa è la nostra vita. Le esperienze positive, piacevoli, ce la rendono certamente bella, pienamente godibile; ma sono quelle dolorose che ci fanno crescere, che ci fanno cambiare radicalmente, che ci trasformano. È incontrando e vincendo i nostri demoni, che arriveremo ad incontrare i nostri angeli. Non giustifichiamo la nostra accidia, pensando di non poter far nulla, di essere vittima prescelta dei demoni, di ottenere dalla vita solo schifezze, disordini, difficoltà, problemi, confusioni. Non attacchiamoci a questo pretesto, non rinunciamo a combattere, non “tiriamo avanti” carponi, ma rialziamoci sempre vincitori.

Soprattutto perché lo dobbiamo a Dio, che pazientemente e con amore abita in noi: non dimentichiamolo mai.

Mercoledì scorso il sacerdote ci ha imposto la cenere sul capo: non è stato così, per gioco, ma per ricordarci quanto siamo deboli e provvisori: è stata l’occasione per un bagno di umiltà.

Ebbene, con questa stessa umiltà, nel nostro deserto quaresimale, riconosciamo davanti a Dio la nostra debolezza, ammettiamo le nostre infedeltà, chiediamo la sua costante e misericordiosa protezione. Soprattutto non dimentichiamo mai a chi apparteniamo, da dove proveniamo, dove siamo diretti, di quale dignità siamo rivestiti, e a quale dignità siamo chiamati. Buona quaresima! Amen.

 

giovedì 11 febbraio 2021

14 Febbraio 2021 – VI Domenica del Tempo Ordinario

“In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi! Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!” (Mc 1,40-45).

 Il vangelo di oggi ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso.

Difficilmente, noi oggi, riusciamo a capire cosa volesse dire a quel tempo essere lebbrosi. In pratica erano dei morti viventi. La lebbra, oltre che una malattia invalidante, era anche un oltraggio alla persona, perché il lebbroso, confinato fuori dall’abitato, escluso dalla comunità, doveva vivere lontano da tutti, tra stenti, privazioni, imposizioni. Se qualcuno inavvertitamente si avvicinava al suo rifugio, il disgraziato doveva allertarlo suonando un campanaccio e gridando: “lebbroso, lebbroso!”. Si pensava infatti che il contagio della malattia si trasmettesse anche a distanza.

Nel nostro caso, Marco dice che “venne da Gesù un lebbroso. È quindi il poveretto che prende l’iniziativa e, contro ogni regola, si butta in ginocchio ai suoi piedi, supplicando: “Se vuoi puoi guarirmi!”: è un uomo stanco, distrutto dalla malattia: capisce di non aver ancora molto da vivere, di non poter continuare una simile esistenza, nel disprezzo e nella solitudine. Capisce che da solo non potrà mai venirne fuori: si rivolge quindi a Gesù e con il pianto in gola, prostrato per terra, guardandolo umilmente negli occhi, con grande fiducia mormora: “Signore, non ne posso più, ho bisogno di te, del tuo aiuto”.

Per una persona consumata, deformata, corrosa dalla malattia, evitata e schifata da tutti, è naturale provare il desiderio, intenso, essenziale, di sentirsi accolta, amata, stimata; di trovare qualcuno che le dimostri bontà, amore, che non la tratti con disprezzo, non la respinga. È solo in questo modo, infatti, che lei potrà nuovamente considerarsi una “persona umana” e non un miserabile rifiuto della società; solo così ritroverà la forza di combattere, la gioia di vivere, di riconquistare la sua rispettabilità, la sua dignità morale.

Gesù dunque, di fronte a quest’uomo psicologicamente provato, ridotto quasi alla disperazione ma con una grande volontà, dimostra subito di provare un sentimento forte, intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco “splanknìstheis”, più che compassione, indica un amore tipicamente al femminile: quell’amore che una madre prova per il suo neonato, un amore viscerale, un insieme di amore, misericordia, compassione, tenerezza, dolcezza.

Gesù lo guarda, ma lo fa con occhi diversi da quelli dei presenti: “Io credo in te; so che dentro questo tuo corpo, reso così ripugnante dalla malattia, c’è una perla, c’è un fiore profumato, c’è una forza grande e preziosa. Sei stato deformato dal dolore della vita, ma io che ti conosco, vedo la bellezza interiore della tua anima. Per questo voglio che tu possa tornare a risplendere nella tua dignità!”.

E trasforma immediatamente questo sentimento “materno”, in guarigione; “stese la mano”: l’amore diventa azione; “lo tocca”: il miracolo si compie, la lebbra scompare.

Oggi tutti noi possiamo vivere tranquilli, perché questa malattia è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti, meno visibile ma molto più diffusa, dalle mille varianti, tutte gravi e invasive: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri; è la lebbra di chi non ha alcun ideale per cui valga la pena di combattere, di vivere; la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce a ritrovare la propria dignità; la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; la lebbra dell’essere ritenuti inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ci sono poi altre lebbre, moralmente più distruttive: come quella dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…: tutte "malattie" che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima.

Purtroppo tutto il genere umano è afflitto da questa persistente pandemia: sono pochi coloro che riescono a vaccinarsi alla luce del vangelo: che fare allora?

Come il lebbroso del vangelo: buttiamoci anche noi ai piedi di Gesù; “malati terminali”, irriconoscibili, chiediamogli a gran voce, umilmente, di tornare ad essere le creature immacolate delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”.

Entriamo più da vicino in quella scena, riviviamola nel nostro cuore: il pover’uomo, abituato ad essere rifiutato, respinto, dopo aver coraggiosamente raggiunto Gesù, rimane sconcertato, sbalordito: il Maestro, a differenza di tutti, gli va incontro, lo tocca, gli stende le mani, quasi ad abbracciarlo, sfidando il pericolo del contagio. Un gesto di comprensione e accoglienza, imprevisto e imprevedibile, che suscita in lui una nuova, fortissima voglia di vivere: “Allora non sono così ripugnante, anch’io posso essere amato, anch’io posso vivere!”.

Ma subito dopo, consapevole della propria situazione, si ritrae da quell’abbraccio: “No, non farlo; sono un peccatore, ho la lebbra, non toccarmi, non sono degno, non lo merito!”. E Gesù: “Sì che lo meriti, sì che ne sei degno. Io non temo la tua malattia!”. E trattenendolo con le braccia, gli dice: Lo voglio, guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. È questo infatti il significato del verbo greco “katharìzo” usato da Gesù, che significa appunto tornare ad “essere puri, immacolati”, tornare allo stato primitivo”, tornare ad essere, cioè, quell’immagine originale di Dio, che Egli, creandoci, ha impresso in ciascuno di noi: una somiglianza che noi, purtroppo, con la lebbra delle nostre infedeltà abbiamo deformato, alienato, distrutto.

“Guarisci!”: ci ordina con voce chiara Gesù dentro di noi; “torna all’origine”: che significa “ripristina in te la somiglianza divina, mediante una radicale conversione della tua vita.

Quante volte, purtroppo, nel nostro delirio di onnipotenza, pretendiamo di cancellare questa nostra somiglianza con Dio, vogliamo essere “diversi”: ignoriamo cioè la nostra originale bellezza, dono incalcolabile, e preferiamo esibirci sul palco della vita ostentando una ridicola maschera di noi stessi: non accettiamo la nostra originale “forma” divina; ci lasciamo piuttosto impunemente “trasformare”, “sformare”, “deformare”, dai tanti “burattinai” di questo mondo.

Ma la vita non ci appartiene: se infatti qualche funesto evento viene ad interrompere questa nostra tragica allucinazione, se improvvisamente tutto il nostro fatuo e posticcio scenario ci crolla addosso, e tra le sue macerie sentiamo la necessità dell’immediato intervento di Dio, ebbene: in quel preciso istante la nostra presunzione, la nostra tanto agognata “trasformazione”, ci apparirà nella sua squallida realtà: una inguardabile “deformazione” spirituale. E nello sconforto, una domanda ci assalirà: “Come ho fatto a ridurmi così?”. E ci vedremo nella cruda realtà: impresentabili, colpevoli, falsi, indegni, inadeguati.

Se però avremo l'umiltà di abbassare lo sguardo fin nel profondo del nostro cuore, se avremo il coraggio di scendere nella nostra coscienza, nella nostra anima, potremo scorgere, anche nel buio più totale, un piccolo spiraglio, una minuscola zona di luce, che pur trascurata, abbandonata, oltraggiata, è rimasta integra, intatta. 

È il nostro “marchio di fabbrica”, è lo Spirito di Dio, il sigillo del suo amore divino impresso in noi; è quel “seme” di luce divina, eterna, inalterabile, che da sempre ci inabita: potremo fare le peggiori cose nella vita, potremo arrivare ad oscurare totalmente quella luce, potremo fossilizzarla, insudiciarla, ma non potremo mai, in nessun modo, distruggerla, cancellarla, demolirla.

È un po’ come scendere, dopo anni, in un locale completamente buio, abbandonato: non vediamo nulla, siamo avvolti nell’oscurità più totale, impenetrabile: ma sappiamo che al suo interno esiste silenziosa e invisibile una determinante energia: dobbiamo solo premere un interruttore, e la luce immediatamente riesplode in tutta la sua brillantezza.

“Sii purificato!”: e per questo Gesù si aspetta da noi che andiamo da Lui, e, buttandoci in ginocchio, ripristiniamo il contatto con Lui, nostra Sorgente di Luce.

È l'unico modo per ottenere che il fascio luminoso, sfolgorante, del suo amore misericordioso, torni a illuminare il nostro cammino, a riscaldare il nostro cuore, a risanare le nostre ferite, a restituirci la nostra primitiva, nobile, divina, somiglianza col Padre. Amen.

 

giovedì 4 febbraio 2021

7 Febbraio 2021 – V Domenica del Tempo Ordinario

“In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva” (Mc 1,29-39).

 Il vangelo di oggi ci presenta un Gesù in piena attività: predica, consola, scaccia i demoni, prega, guarisce tutti gli ammalati che incontra. Non fa a tempo ad uscire dalla sinagoga, che viene subito informato che anche la suocera di Simon Pietro è ammalata, è a letto con la febbre: e subito Lui la raggiunge e le tende la sua mano guaritrice.

Il vangelo non dice nient’altro se non, appunto, che Gesù la guarisce; niente di straordinario: egli lo fa con chiunque, lo fa con gente estranea e sconosciuta, e quindi, a maggior ragione, lo fa con la suocera di uno dei suoi primi discepoli.

Potremmo quindi fermarci tranquillamente qui, se non fosse per la curiosità di conoscere altri particolari sulla vicenda come, per esempio, quale sia stata la causa scatenante del febbrone che ha improvvisamente colpito la donna, in maniera tanto grave e preoccupante, da richiedere l’intervento urgente di Gesù: una curiosità sollecitata peraltro dalla voluta essenzialità del racconto di Marco.

Cerchiamo allora di capire meglio questa particolare “situazione”, inserendola nel suo contesto più ampio.

Sappiamo dalla presenza di questa “suocera”, che Simone è sposato, che ha una famiglia, e che possiede una casa sufficientemente ampia, in grado di ospitare anche la madre di sua moglie. Sappiamo che l’attività del capo famiglia è la pesca, alla quale si dedica nelle ore notturne, servendosi di reti e di una barca di sua proprietà: un lavoro povero con cui tuttavia riesce ad assicurare alla sua famigliola un’esistenza dignitosa. Ma sappiamo anche che poche ore prima, per aderire alla chiamata di Gesù egli, senza alcuna esitazione, aveva abbandonato tutto, casa, attrezzatura e lavoro.

E allora pensiamo: non sarà forse questa “pazzia” di Simone la vera causa della febbre improvvisa di sua suocera? Lei e la figlia infatti non lavorano, si occupano soltanto della casa: Simon Pietro rappresenta pertanto il loro unico sostentamento.

C’è un verbo che fa pensare a questa possibilità: per indicare la febbre della donna, Marco infatti usa il termine greco “purèssousa”, da “purèsso” che significa, oltre che “avere la febbre”, anche “essere furioso, risentito, irritato; avere l’animo infuocato, bruciare dentro”: significato che fa pensare appunto ad una persona afflitta non tanto da una febbre corporea, esterna, quanto da un’alterazione spirituale interna; ad una con l’animo “alterato, infuocato”; in altre parole, la suocera di Pietro, più che febbricitante, era letteralmente in preda all’ira, arrabbiata furiosa, piena di rancore, prima di tutto con il genero, colpevole, secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità familiare; e poi con Gesù, da lei ritenuto la causa scatenante di questa loro sventura.

Appena Gesù viene a conoscenza del suo malore, appena “gli parlarono di lei”, Egli intuisce il vero dramma della donna: capisce immediatamente la vera causa della sua “malattia”, del suo febbrone: “Questa donna ce l’ha con me!”. Poteva benissimo far finta di nulla, come in genere facciamo noi in questi casi; poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo! È un problema suo, non mio!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna si trova veramente in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E appena entra in casa, le si avvicina, la fa alzare prendendola per mano.

Fra i due c’è distanza, incomprensione, diffidenza, non si conoscono: Gesù per questo “si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la “incontra”, si fa conoscere.

“La sollevò”: la donna è distesa, sulle sue, non vuole avere nulla a che fare con Gesù, ma Lui le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si toglie cioè dalla sua paura, dal suo totale disappunto, dalle sue preoccupazioni per ciò che le sta accadendo.

“La prese per mano”: Gesù le fa capire con i fatti che vuole incontrarla, che vuole entrare in sintonia con lei; vuole che “senta” chi è lui, le offre l’opportunità di capire, di farsene un’esperienza diretta. E lei finalmente si adegua. E cosa avviene? “La febbre la lasciò”.

Non sappiamo in realtà come sia successo, cosa i due si siano detti. Ma queste poche parole ci confermano che la donna ha capito che l’uomo accanto al suo capezzale non è né un pazzo, né uno fuori di testa. Il vangelo dice addirittura che “si mise servirli”.

Il capovolgimento dei suoi sentimenti è istantaneo e decisivo: l’odio si tramuta in umile servizio, il rancore in amore per l’uomo straordinario che le sta di fronte; il volerlo più lontano possibile si trasforma nello stargli docilmente vicina, a sua completa disposizione.

Finché la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di sofferenza.

Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando condivide le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, il suo rancore, il suo odio, la sua febbre, improvvisamente svaniscono. E finalmente capisce che Simone, di fronte alla chiamata di quell’Uomo, aveva preso la giusta decisione! Lei aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di amore. E Gesù glieli dà.

Esattamente come continuerà a darli a quanti incontra per le strade della Palestina. Ogni giorno.

Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.

“Molti demoni”: certo, ai tempi di Gesù gli indemoniati dovevano essere proprio tanti!

Oggi invece sembrano spariti: la gente non crede più al demonio. Un personaggio che non si vede, non si tocca, che non va mai in televisione, non c’è, non esiste. Possiamo stare tranquilli: il demonio è un fenomeno che non ci deve preoccupare. È una favola d’altri tempi!

Ma noi sappiamo molto bene, che non è così. Il demonio esiste, è presente, eccome!

Il Vangelo ce lo descrive come un essere spirituale, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci spia in continuazione, che ci segue ovunque; uno che è contrario all’Amore; uno insomma che va costantemente combattuto, perché rappresenta un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza.

Un esempio pratico? “Demoni” sono tutte le accattivanti lusinghe del male, le luci scintillanti del peccato che accecano la ragione. Noi pure possiamo essere autentici “demoni”, nel momento in cui adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce la nostra coscienza, lo Spirito di Dio; “demoni” siamo noi quando, ammaliati dallo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta; siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari non appena percepiamo che essa è indebolita, ferita, inerte.

Come combattere questo demonio? Con la preghiera. Marco scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto: la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore; è infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che possiamo vincerli, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere, come la sua, intensa, umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.

Non è infatti comportandoci da arroganti, da presuntuosi, che noi possiamo vincere i nostri demoni! Amen.