Dio è Amore. Da questo amore ha origine e sussistenza il mondo, il tempo, la storia, la vita dell'universo... tutto viene da Dio, tutto è sostenuto da Lui, tutto è orientato verso Dio. Di Cristo Figlio di Dio giustamente si dice: "Ieri, oggi e sempre: Egli è il Salvatore". Ogni tempo trova in Cristo e nell'amore di Dio luce e significato pieno. La liturgia ci aiuta a venerare e a celebrare Maria Ss. Madre di Dio. È lei che ha accolto e generato nel tempo e nella storia il Figlio di Dio, è lei che ci ha portato il Salvatore. Lei ha dato tutta la sua opera e la sua collaborazione alla missione di Gesù Salvatore.
Mentre iniziamo un nuovo anno non affidiamoci agli oroscopi o alla magia per cercare soccorso o luce; affidiamoci a Dio e cerchiamo soccorso e luce in Dio e soltanto in Lui.
Sulla soglia di un nuovo anno e di un tempo così significativo facciamoci dono di una benedizione, cioè di una parola che parta dal cuore e diventi preghiera e carità per chi ci vive accanto.
Il vangelo ci indica la strada della benedizione: è la strada di Betlemme. Infatti Dio è tra noi, è con noi; Dio ci è venuto incontro, è dentro la nostra storia. Ora siamo noi che dobbiamo muovere i passi verso di Lui: siamo noi che dobbiamo aprirci, affinché la Luce entri e illumini la nostra vita.
Maria Ss. è la donna che ha ascoltato la voce di Dio, lo ha accolto, ha obbedito alla sua volontà; è stata attenta a cogliere tutti i segni di Dio per rinnovare ogni giorno il suo "sì".
Maria ha saputo sempre cantare il suo Magnificat, il suo ringraziamento. "Maria nella stalla di Betlemme, con in braccio il bambino Gesù, è l'immagine della gioia, è il massimo della gioia. Infatti quando c'è Dio, si può vivere anche in un tugurio ed essere contenti; quando c'è Dio si può essere poveri e ammalati, ma pieni di gioia.
Maria è la donna della fede, accanto a Gesù piccolo e bisognoso di tutto, accanto a lui nella vita di Nazareth, sul Calvario e nella gioia della resurrezione.
In questo giorno la Chiesa invoca anche la benedizione e la pace sul mondo intero, perché il tempo e la storia siano secondo il progetto di Dio che vuole gli uomini tutti fratelli, perché suoi figli.
Molti sono i problemi, i drammi, le ingiustizie e le guerre del nostro tempo. Per questo occorre pregare e impegnarci, conoscere le situazioni dei popoli e portare nella nostra storia così piena di conflitti la luce della parola e dell'amore di Dio e l'insegnamento del magistero della Chiesa.
Per questo vi auguro la pace. Augurare la Pace è augurare l’incontro con Dio. Tutti gli uomini, come te e come me, possano conoscere Dio non solo nelle Liturgie della Chiese o nelle preghiere di Sinagoghe e Moschee, ma lo possano conoscere anche nell’incontro con l’altro, nell’ascolto reciproco, nell’aiuto nelle difficoltà, nel perdono dopo lo scontro, nell’amore che possiamo darci sempre e in ogni occasione.
Sia Pace in te… Sia Dio in te!
Sia Pace nel mondo… Sia Dio in ogni uomo.
martedì 22 dicembre 2009
27 Dicembre 2009 - Santa Famiglia
Sacra Famiglia, modello delle famiglie. Resto sempre un po' in imbarazzo a parlare di "modello" quando parlo della Santa Famiglia; ben poco rassomiglia alle nostre famiglie: un bambino che è la presenza di Dio, un padre e una madre coinvolti in un Mistero inaudito, senza confini. Possono davvero dirci qualcosa? Credo proprio di sì. Non solo: credo che in questi tempi dobbiamo avere il coraggio di parlare di più e meglio della famiglia, delle nostre famiglie. La famiglia è in crisi, ci dicono i sociologi. Ma senza scomodarli, ci rendiamo conto che qualcosa non funziona nella nostra società: sempre di più sono le coppie che si sfasciano, che non credono più nella possibilità di un rapporto duraturo. Lasciate perdere un attimo la morale e parliamo da uomini, con sincerità. Il fatto che la famiglia sia in crisi, o, meglio, che la coppia lo sia, è anzitutto un problema umano. Quanta sofferenza e disillusione vedo negli occhi di chi cerca una certezza affettiva! Dobbiamo concludere anche noi che è impossibile amarsi? Che è finito il tempo dell'illusione? Non è un problema da poco: se veramente è impossibile parlare di progetto, di fedeltà, di continuità, allora la famiglia è morta. Eppure questa festa, fratelli, ci ricorda il sogno che Dio ha sulla coppia. Amarsi è possibile; restare fedeli è possibile; crescere in un progetto è possibile. Di più: Dio ci ha piantato nel cuore, quando ci ha creati, questa nostalgia per la comunione. Non siamo stati creati a immagine e somiglianza del Dio che è Comunione Trinitaria? Giuseppe e Maria, allora, nel loro amore pieno di tenerezza e di fatica, ci dicono che Dio ha scelto di nascere in una famiglia, di soggiacere alle dinamiche familiari, di vivere le fatiche del rapporto di coppia.
Questo disegno divino si avvera quando l’uomo e la donna si uniscono intimamente nell’amore per il servizio della vita, partecipando così al potere creatore di Dio e all’amore redentivo di Cristo.
Questo disegno di Dio chiama ogni giorno gli sposi, la famiglia, a vivere la “novità” dell’amore, attraverso la conversione del cuore e la santità della vita, segnata dalla sofferenza della croce e dalla speranza della risurrezione.
La risposta al progetto di Dio impegna la famiglia a svolgere i compiti che le sono propri nel mondo di oggi: l’educazione alla libertà, ad un forte senso morale, alla fede e agli autentici valori umani e cristiani. Ad essa è affidato anzitutto il compito della evangelizzazione e della catechesi; e nell’ambito della più ampia comunità sociale essa testimonia i valori evangelici, promuove la giustizia sociale, aiuta i poveri e gli oppressi.
La famiglia cristiana potrà attuare questo se sarà perseverante nella preghiera comune e, in modo particolare, nella Liturgia che sono fonti di grazia.
Questo disegno divino si avvera quando l’uomo e la donna si uniscono intimamente nell’amore per il servizio della vita, partecipando così al potere creatore di Dio e all’amore redentivo di Cristo.
Questo disegno di Dio chiama ogni giorno gli sposi, la famiglia, a vivere la “novità” dell’amore, attraverso la conversione del cuore e la santità della vita, segnata dalla sofferenza della croce e dalla speranza della risurrezione.
La risposta al progetto di Dio impegna la famiglia a svolgere i compiti che le sono propri nel mondo di oggi: l’educazione alla libertà, ad un forte senso morale, alla fede e agli autentici valori umani e cristiani. Ad essa è affidato anzitutto il compito della evangelizzazione e della catechesi; e nell’ambito della più ampia comunità sociale essa testimonia i valori evangelici, promuove la giustizia sociale, aiuta i poveri e gli oppressi.
La famiglia cristiana potrà attuare questo se sarà perseverante nella preghiera comune e, in modo particolare, nella Liturgia che sono fonti di grazia.
25 Dicembre 2009 - NATALE DEL SIGNORE
Ecco Dio. Miagola, pigola, vagisce con una flebile voce, come fanno i cuccioli d'uomo appena nati. Gli occhi socchiusi, le minuscole mani serrate a pugno, appoggia il viso grinzoso all'acerbo seno della madre. Per un istante spalanca gli occhi, come ad essere rassicurato, poi ripiomba nel sonno.
La madre, inesperta, attinge il dito mignolo in una tazza di coccio e glielo appoggia sulle piccola labbra che si dischiudono e si bagnano del latte di capra.
Maria gli aggiusta la coperta di lana che protegge il corpo nudo del neonato dal freddo del deserto che lambisce le case di Betlemme. Sorride, pensando a quando, poche ore prima, la levatrice lo aveva rudemente pulito dalla placenta e dal sangue, incurante delle urla di protesta del piccolo.
Sorride, Maria, e guarda Giuseppe, seduto sulla paglia, esausto dal lungo viaggio e dalle emozioni delle ultime ore.
Anch'io taccio, in un angolo della stalla, senza fare rumore, sospeso fra la commozione e la stanchezza. Ecco Dio, dunque.
Siamo tutti spiazzati, ancora. Ecco Dio. Ecco com'è veramente. Che ha a che vedere, questo neonato, con l'idea che siamo fatti di Lui? Che c'entra? Guardo lungamente, ora anche Maria appoggia il capo alla parete di pietra, cercando un improbabile sonno. Ecco Dio: enorme inerme, possente fragile, debole per scelta. Suscita tenerezza, viene voglia di prenderlo in mano di accarezzarlo.
Maria ha creduto nelle parole del principe degli angeli, ha messo la sua vita nelle mani di Dio. E ora è lì, con il mistero dell'Universo che stringe a sé. Frastornata e meditabonda, con il suo cuore, immenso cuore di discepola, altalenante fra il gioire dell'essere diventata madre e lo stupirsi nel tenere Dio appeso al suo collo. Prima fra i folli di Dio, prima fra i credenti, prima fra le donne, benedette figlie di Eva che di Dio condividono il generare.
Giuseppe siede stanco. Anche lui ha detto sì, ma il suo è stato sofferto, faticoso, strappato.
I suoi sogni ora sono il sogno di Dio, non ha più futuro, né spazio, né ambizione, né comprensibile orgoglio di padre. Il Padre lo ha reso padre, lui, ora dovrà accudire Dio e la sua madre, proteggerli e lasciarli crescere, loro così abitati dal Mistero, lui così consapevole che la vita non si misura dai risultati ma dalla fedeltà agli eventi.
Sulle colline intorno a Betlemme, i pastori, i bastardi di Dio, i perdenti, gli zingari, gli arraffatori, gli uomini senza dignità, senza futuro, senza speranza, bestemmiano in cuor loro la sorte, ricacciando il dolore che sale a soffocare la gola e a riempire gli occhi di lacrime. Fine di un giorno uguale come i precedenti, uguale come i futuri, senza scampo, senza tregua, senza luce. E un angelo appare loro. Per voi…dice. Una mangiatoia... dice.
E vanno. E trovano Dio che abita una mangiatoia, come se fosse un trono, e capiscono che anche una mangiatoia che odora di sterco di pecora può diventare il trono del Dio degli sconfitti.
A est, lontano, un gruppo di curiosi accampati discutono, alzando il prezzo della scommessa: chi sostiene che il segno nel cielo indica la nascita di un re, altri dicono che, invece, prospetta una catastrofe, altri ancora che non significa nulla. E scherzano e ridono, mentre i servi portano la carne cotta al fuoco. Andranno a dormire presto, domani ripartiranno verso la Giudea. Sazi di denaro, sazi di cultura, sazi di beni. Ma ancora curiosi, ancora si interrogano e cercano.
A Gerusalemme i Sommi Sacerdoti commentano la giornata, pianificano il futuro del nuovo, splendido tempio. Alla fine si congedano, pregano, invocano al venuta del Messia. Qualcuno sorride: ci mancherebbe la venuta del Messia, ora.
Erode caccia la concubina dal suo letto, stenta a prendere sonno. Si affaccia sulla terrazza del palazzo che domina la sua città. No, la folla non lo ama, nonostante tutto, pazienza: se non sarà ricordato per la sua gloria, sarà ricordato per il suo odio.
E Noi? Ecco Dio, mi ripeto nella penombra della chiesa. Dio non si è ancora stancato di noi, se chiede di nascere. Prego, ora, affidando tutti, e tutti non riescono a stare nella mia povera preghiera. Penso a chi soffre, questa notte, perché nessun angelo gli ha ancora detto che Dio nasce proprio per lui. Prego per i tanti, migliaia, che ho incontrato in questo anno così doloroso e intenso, e a come Dio sia stupefacente nel disegnare nuove strade per chi si affida a Lui. Penso alla nostra Italia così litigiosa, così affaticata e delusa, che non ha più speranza, che pensa di essere davvero mediocre come appare, e chiedo al Signore un regalo: di ricordarci da dove proveniamo e verso chi andiamo, tutti.
Vedo il bambino, nella penombra della chiesa. E mi dico in che cavolo di guaio mi sono messo, seguendo un Dio che, invece di risolvermi i problemi, me ne crea a bizzeffe. Vorrei stringerlo fra le mie braccia, riempirlo di baci questo Dio, dire che lo amo, proprio perché così imprevedibile, perché così misteriosamente incontrabile e banale.
Apro un libretto di canti del banco e trovo un'immaginetta: contiene una preghiera di uno dei più feroci atei del secolo scorso, maestro del dubbio e della noia: Sartre.
«Maria guarda Gesù e pensa: questo Dio è mio figlio.
È Dio. E mi assomiglia.
Un Dio bambino che si può prendere fra le braccia, e coprire di baci.
Un Dio caldo, che sorride e respira.
Un Dio che si può toccare e che respira, un Dio che si può toccare e ride.
È in uno di questi momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore.»
Buon Natale, cercatori di Dio. Lasciatevi trovare!.
La madre, inesperta, attinge il dito mignolo in una tazza di coccio e glielo appoggia sulle piccola labbra che si dischiudono e si bagnano del latte di capra.
Maria gli aggiusta la coperta di lana che protegge il corpo nudo del neonato dal freddo del deserto che lambisce le case di Betlemme. Sorride, pensando a quando, poche ore prima, la levatrice lo aveva rudemente pulito dalla placenta e dal sangue, incurante delle urla di protesta del piccolo.
Sorride, Maria, e guarda Giuseppe, seduto sulla paglia, esausto dal lungo viaggio e dalle emozioni delle ultime ore.
Anch'io taccio, in un angolo della stalla, senza fare rumore, sospeso fra la commozione e la stanchezza. Ecco Dio, dunque.
Siamo tutti spiazzati, ancora. Ecco Dio. Ecco com'è veramente. Che ha a che vedere, questo neonato, con l'idea che siamo fatti di Lui? Che c'entra? Guardo lungamente, ora anche Maria appoggia il capo alla parete di pietra, cercando un improbabile sonno. Ecco Dio: enorme inerme, possente fragile, debole per scelta. Suscita tenerezza, viene voglia di prenderlo in mano di accarezzarlo.
Maria ha creduto nelle parole del principe degli angeli, ha messo la sua vita nelle mani di Dio. E ora è lì, con il mistero dell'Universo che stringe a sé. Frastornata e meditabonda, con il suo cuore, immenso cuore di discepola, altalenante fra il gioire dell'essere diventata madre e lo stupirsi nel tenere Dio appeso al suo collo. Prima fra i folli di Dio, prima fra i credenti, prima fra le donne, benedette figlie di Eva che di Dio condividono il generare.
Giuseppe siede stanco. Anche lui ha detto sì, ma il suo è stato sofferto, faticoso, strappato.
I suoi sogni ora sono il sogno di Dio, non ha più futuro, né spazio, né ambizione, né comprensibile orgoglio di padre. Il Padre lo ha reso padre, lui, ora dovrà accudire Dio e la sua madre, proteggerli e lasciarli crescere, loro così abitati dal Mistero, lui così consapevole che la vita non si misura dai risultati ma dalla fedeltà agli eventi.
Sulle colline intorno a Betlemme, i pastori, i bastardi di Dio, i perdenti, gli zingari, gli arraffatori, gli uomini senza dignità, senza futuro, senza speranza, bestemmiano in cuor loro la sorte, ricacciando il dolore che sale a soffocare la gola e a riempire gli occhi di lacrime. Fine di un giorno uguale come i precedenti, uguale come i futuri, senza scampo, senza tregua, senza luce. E un angelo appare loro. Per voi…dice. Una mangiatoia... dice.
E vanno. E trovano Dio che abita una mangiatoia, come se fosse un trono, e capiscono che anche una mangiatoia che odora di sterco di pecora può diventare il trono del Dio degli sconfitti.
A est, lontano, un gruppo di curiosi accampati discutono, alzando il prezzo della scommessa: chi sostiene che il segno nel cielo indica la nascita di un re, altri dicono che, invece, prospetta una catastrofe, altri ancora che non significa nulla. E scherzano e ridono, mentre i servi portano la carne cotta al fuoco. Andranno a dormire presto, domani ripartiranno verso la Giudea. Sazi di denaro, sazi di cultura, sazi di beni. Ma ancora curiosi, ancora si interrogano e cercano.
A Gerusalemme i Sommi Sacerdoti commentano la giornata, pianificano il futuro del nuovo, splendido tempio. Alla fine si congedano, pregano, invocano al venuta del Messia. Qualcuno sorride: ci mancherebbe la venuta del Messia, ora.
Erode caccia la concubina dal suo letto, stenta a prendere sonno. Si affaccia sulla terrazza del palazzo che domina la sua città. No, la folla non lo ama, nonostante tutto, pazienza: se non sarà ricordato per la sua gloria, sarà ricordato per il suo odio.
E Noi? Ecco Dio, mi ripeto nella penombra della chiesa. Dio non si è ancora stancato di noi, se chiede di nascere. Prego, ora, affidando tutti, e tutti non riescono a stare nella mia povera preghiera. Penso a chi soffre, questa notte, perché nessun angelo gli ha ancora detto che Dio nasce proprio per lui. Prego per i tanti, migliaia, che ho incontrato in questo anno così doloroso e intenso, e a come Dio sia stupefacente nel disegnare nuove strade per chi si affida a Lui. Penso alla nostra Italia così litigiosa, così affaticata e delusa, che non ha più speranza, che pensa di essere davvero mediocre come appare, e chiedo al Signore un regalo: di ricordarci da dove proveniamo e verso chi andiamo, tutti.
Vedo il bambino, nella penombra della chiesa. E mi dico in che cavolo di guaio mi sono messo, seguendo un Dio che, invece di risolvermi i problemi, me ne crea a bizzeffe. Vorrei stringerlo fra le mie braccia, riempirlo di baci questo Dio, dire che lo amo, proprio perché così imprevedibile, perché così misteriosamente incontrabile e banale.
Apro un libretto di canti del banco e trovo un'immaginetta: contiene una preghiera di uno dei più feroci atei del secolo scorso, maestro del dubbio e della noia: Sartre.
«Maria guarda Gesù e pensa: questo Dio è mio figlio.
È Dio. E mi assomiglia.
Un Dio bambino che si può prendere fra le braccia, e coprire di baci.
Un Dio caldo, che sorride e respira.
Un Dio che si può toccare e che respira, un Dio che si può toccare e ride.
È in uno di questi momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore.»
Buon Natale, cercatori di Dio. Lasciatevi trovare!.
giovedì 17 dicembre 2009
20 Dicembre 2009 - IV Domenica di Avvento
Siamo ormai alle soglie del Natale. La liturgia di questa domenica ci consegna al giorno del Natale di Gesù. E ci consegna così come siamo: forse un poco più pronti ad accogliere il Signore, se ci siamo lasciati toccare il cuore dal Vangelo; oppure ancora appesantiti dai nostri pensieri e dai nostri affanni quotidiani tanto da trovare con fatica un po' di spazio per accogliere il Signore che viene. E' un giorno di grazia questa domenica perché ci apre al Natale e ci ripete di affrettare i passi del nostro cuore perché il Natale è per tutti. Tutti possiamo rinascere, nessuno è condannato a restare sempre identico a se stesso; e il mondo non è condannato al buio. Una luce sta per venire e tutti potranno vederla.
Sta davanti a noi la Madre di Gesù. Maria è l'esempio di come il credente attende il Signore, di come si può vivere il Natale. Per Lei il Natale non era quello facile e ormai scontato degli addobbi e delle vetrine a festa. Si trattava di un Natale vero, ossia della nascita di un bambino che le stava cambiando tutta la vita e tutte le decisioni che pure aveva già preso. Maria viene ad annunciarci questo Natale; viene ad annunciarlo in mezzo a noi con lo stesso amore con cui andò ad annunciarlo all'anziana cugina Elisabetta. Ella viene in mezzo a noi. Non parte più da Nazareth ma dal cielo e scende giù accanto ad ognuno di noi. Sì, attraversa i cieli per starci vicino.
E' venuta qui. Ma le resta da fare ancora un altro pezzo di strada, che è forse più arduo e più difficile di quello di traversare i cieli. E' quel tratto di cammino che lei deve compiere per raggiungere e toccare il nostro cuore. Le lasceremo superare le montagne di indifferenza e di egoismo che si ergono dentro di noi? Le permetteremo di oltrepassare le voragini di odio e di inimicizia che abbiamo scavato nel nostro animo? Le lasceremo aprirsi un varco tra le erbe velenose e amare che rendono insensibili i nostri cuori, cattivi i nostri pensieri e violenti i comportamenti? E riusciranno a sentire il suo saluto? Riusciranno ad ascoltare il Vangelo che ci viene annunciato? Beati noi se, visitati da Maria, ascoltiamo il suo saluto. Accadrà a noi quello che accadde ad Elisabetta. Scrive l'evangelista: "Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!" Queste parole le ripetiamo ogni volta che recitiamo l'Ave Maria. Ma il loro vero senso glielo diamo oggi, ossia se il saluto di Maria ci tocca il cuore, se ci lasciamo commuovere da lei e dalla sua tenerezza nell'attesa di Gesù.
Lei è davvero "benedetta" tra tutti noi. Benedetta perché "ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore". Questa prima beatitudine che leggiamo nel Vangelo è la ragione della nostra fede, il motivo della nostra gioia, anche se talora può costarci sacrificio. Così Maria si è preparata al Natale: accogliendo anzitutto la parola dell'angelo. Potremmo dire: ascoltando il Vangelo. Da questo ascolto è iniziata per lei una vita nuova. Ha deciso di seguire quello che l'angelo le ha detto, anche a costo di essere mal capita, anzi criticata, persino rigettata da Giuseppe. E, saputo dall'angelo di sua cugina Elisabetta era incinta, ha lasciato Nazareth per andare ad aiutarla, affrontando un lungo viaggio. Non è rimasta a preparare casa il Natale, è andata da un'anziana donna bisognosa d'aiuto. Ecco come fare spazio al Signore: una ragazza che visita un'anziana. Il cuore si allarga se smettiamo di pensare sempre a noi stessi; i pensieri diventano più teneri se ci avviciniamo a chi ha bisogno di aiuto; i comportamenti diventano più dolci se stiamo vicino ai poveri, ai deboli, ai malati, e impariamo ad amarli. La carità è una grande scuola di vita. Così Maria si è preparata al Natale: con il Vangelo ascoltato, custodito e messo in pratica. Oggi viene tra noi per coinvolgerci nell'attesa del suo Figlio. Facciamo in modo che questo sia anche il nostro Natale!
Sta davanti a noi la Madre di Gesù. Maria è l'esempio di come il credente attende il Signore, di come si può vivere il Natale. Per Lei il Natale non era quello facile e ormai scontato degli addobbi e delle vetrine a festa. Si trattava di un Natale vero, ossia della nascita di un bambino che le stava cambiando tutta la vita e tutte le decisioni che pure aveva già preso. Maria viene ad annunciarci questo Natale; viene ad annunciarlo in mezzo a noi con lo stesso amore con cui andò ad annunciarlo all'anziana cugina Elisabetta. Ella viene in mezzo a noi. Non parte più da Nazareth ma dal cielo e scende giù accanto ad ognuno di noi. Sì, attraversa i cieli per starci vicino.
E' venuta qui. Ma le resta da fare ancora un altro pezzo di strada, che è forse più arduo e più difficile di quello di traversare i cieli. E' quel tratto di cammino che lei deve compiere per raggiungere e toccare il nostro cuore. Le lasceremo superare le montagne di indifferenza e di egoismo che si ergono dentro di noi? Le permetteremo di oltrepassare le voragini di odio e di inimicizia che abbiamo scavato nel nostro animo? Le lasceremo aprirsi un varco tra le erbe velenose e amare che rendono insensibili i nostri cuori, cattivi i nostri pensieri e violenti i comportamenti? E riusciranno a sentire il suo saluto? Riusciranno ad ascoltare il Vangelo che ci viene annunciato? Beati noi se, visitati da Maria, ascoltiamo il suo saluto. Accadrà a noi quello che accadde ad Elisabetta. Scrive l'evangelista: "Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!" Queste parole le ripetiamo ogni volta che recitiamo l'Ave Maria. Ma il loro vero senso glielo diamo oggi, ossia se il saluto di Maria ci tocca il cuore, se ci lasciamo commuovere da lei e dalla sua tenerezza nell'attesa di Gesù.
Lei è davvero "benedetta" tra tutti noi. Benedetta perché "ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore". Questa prima beatitudine che leggiamo nel Vangelo è la ragione della nostra fede, il motivo della nostra gioia, anche se talora può costarci sacrificio. Così Maria si è preparata al Natale: accogliendo anzitutto la parola dell'angelo. Potremmo dire: ascoltando il Vangelo. Da questo ascolto è iniziata per lei una vita nuova. Ha deciso di seguire quello che l'angelo le ha detto, anche a costo di essere mal capita, anzi criticata, persino rigettata da Giuseppe. E, saputo dall'angelo di sua cugina Elisabetta era incinta, ha lasciato Nazareth per andare ad aiutarla, affrontando un lungo viaggio. Non è rimasta a preparare casa il Natale, è andata da un'anziana donna bisognosa d'aiuto. Ecco come fare spazio al Signore: una ragazza che visita un'anziana. Il cuore si allarga se smettiamo di pensare sempre a noi stessi; i pensieri diventano più teneri se ci avviciniamo a chi ha bisogno di aiuto; i comportamenti diventano più dolci se stiamo vicino ai poveri, ai deboli, ai malati, e impariamo ad amarli. La carità è una grande scuola di vita. Così Maria si è preparata al Natale: con il Vangelo ascoltato, custodito e messo in pratica. Oggi viene tra noi per coinvolgerci nell'attesa del suo Figlio. Facciamo in modo che questo sia anche il nostro Natale!
giovedì 10 dicembre 2009
13 Dicembre 2009 - III Domenica di Avvento
"Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi".
È la domenica chiamata "gaudete", la domenica della gioia. Paolo era in carcere a Roma e forse aveva già di fronte la prospettiva della sentenza capitale. Eppure esorta a gioire perché, aggiunge, "Il Signore e vicino". Il motivo della gioia sta proprio nella prossima venuta del Signore. Abbiamo ascoltato anche il profeta Sofonia che dice a Gerusalemme di rallegrarsi: "Gioisci Israele e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!".
Perché? "Il Signore - dice il profeta - ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico... Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente... Ti rinnoverà con il suo amore". Si parla della liberazione di Gerusalemme: scompare la condanna, si toglie l'assedio alla città, il nemico è disperso e la città può finalmente tornare a vivere. Il Signore l'ha salvata. La Parola di Dio invita a non lasciarci sopraffare dall'angoscia. Certo, ne abbiamo tutti i motivi guardando il nostro mondo, vedendo le numerose guerre e le innumerevoli ingiustizie. Come non essere tristi e angosciati di fronte a tanta violenza? Eppure siamo esortati a gioire. Non è questione di ottimismo: è l'avvicinarsi del Natale il motivo della nostra gioia. Non siamo più soli, il Signore viene accanto a noi. La liturgia interrompe la stessa severità del tempo di Avvento come a farci pregustare il Natale. Tutto nella liturgia si fa invito pressante perché ognuno si disponga ad accogliere il Signore; perché ognuno si sollevi dal sonno dell'egoismo e dall'ubriacatura dell'orgoglio per andare incontro a Gesù.
Restano pochi giorni al Natale e il nostro cuore è ancora distratto e impreparato. Luca scrive che tutto il popolo era nell'attesa del Messia, di colui che avrebbe cambiato la vita, che avrebbe liberato gli uomini e le donne dalle schiavitù di questo mondo. Per questo molti lasciavano le loro città per recarsi nel deserto ed incontrare Giovanni Battista. Anche noi abbiamo lasciato le nostre case per partecipare alla santa liturgia. E Giovanni Battista, in certo modo, continua a parlare con lo
stesso vigore, con la stessa forza di cambiamento che aveva nel deserto accanto al fiume Giordano. Assieme a quella folla di uomini e di donne, assieme a quei soldati e a quei pubblicani, ci siamo anche noi e, con loro, chiediamo: "Che cosa dobbiamo fare?". È la nostra domanda di oggi: "che cosa dobbiamo fare per accogliere il Signore che viene?". Giovanni risponde con semplicità e chiarezza: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto". È la carità la prima risposta. E poi, rivolto ai pubblicani e ai soldati, dice di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato, di non maltrattare e di non estorcere niente a nessuno.
Chiede, insomma, di essere giusti e rispettosi gli uni degli altri.
Il predicatore del deserto ci ricorda che l'attesa del Messia si compie tra carità e giustizia, tra misericordia e rispetto, tra tenerezza e compassione. Non dice forse Paolo ai Filippesi: "La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini"? Il Signore verrà, scenderà nel cuore di ognuno e ci battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Nessuno resterà con quello che possiede. nessuno rimarrà così com'è. Lo Spirito Santo allargherà le pareti dei nostri cuori e il fuoco del suo amore ci guiderà.
È la domenica chiamata "gaudete", la domenica della gioia. Paolo era in carcere a Roma e forse aveva già di fronte la prospettiva della sentenza capitale. Eppure esorta a gioire perché, aggiunge, "Il Signore e vicino". Il motivo della gioia sta proprio nella prossima venuta del Signore. Abbiamo ascoltato anche il profeta Sofonia che dice a Gerusalemme di rallegrarsi: "Gioisci Israele e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!".
Perché? "Il Signore - dice il profeta - ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico... Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente... Ti rinnoverà con il suo amore". Si parla della liberazione di Gerusalemme: scompare la condanna, si toglie l'assedio alla città, il nemico è disperso e la città può finalmente tornare a vivere. Il Signore l'ha salvata. La Parola di Dio invita a non lasciarci sopraffare dall'angoscia. Certo, ne abbiamo tutti i motivi guardando il nostro mondo, vedendo le numerose guerre e le innumerevoli ingiustizie. Come non essere tristi e angosciati di fronte a tanta violenza? Eppure siamo esortati a gioire. Non è questione di ottimismo: è l'avvicinarsi del Natale il motivo della nostra gioia. Non siamo più soli, il Signore viene accanto a noi. La liturgia interrompe la stessa severità del tempo di Avvento come a farci pregustare il Natale. Tutto nella liturgia si fa invito pressante perché ognuno si disponga ad accogliere il Signore; perché ognuno si sollevi dal sonno dell'egoismo e dall'ubriacatura dell'orgoglio per andare incontro a Gesù.
Restano pochi giorni al Natale e il nostro cuore è ancora distratto e impreparato. Luca scrive che tutto il popolo era nell'attesa del Messia, di colui che avrebbe cambiato la vita, che avrebbe liberato gli uomini e le donne dalle schiavitù di questo mondo. Per questo molti lasciavano le loro città per recarsi nel deserto ed incontrare Giovanni Battista. Anche noi abbiamo lasciato le nostre case per partecipare alla santa liturgia. E Giovanni Battista, in certo modo, continua a parlare con lo
stesso vigore, con la stessa forza di cambiamento che aveva nel deserto accanto al fiume Giordano. Assieme a quella folla di uomini e di donne, assieme a quei soldati e a quei pubblicani, ci siamo anche noi e, con loro, chiediamo: "Che cosa dobbiamo fare?". È la nostra domanda di oggi: "che cosa dobbiamo fare per accogliere il Signore che viene?". Giovanni risponde con semplicità e chiarezza: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto". È la carità la prima risposta. E poi, rivolto ai pubblicani e ai soldati, dice di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato, di non maltrattare e di non estorcere niente a nessuno.
Chiede, insomma, di essere giusti e rispettosi gli uni degli altri.
Il predicatore del deserto ci ricorda che l'attesa del Messia si compie tra carità e giustizia, tra misericordia e rispetto, tra tenerezza e compassione. Non dice forse Paolo ai Filippesi: "La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini"? Il Signore verrà, scenderà nel cuore di ognuno e ci battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Nessuno resterà con quello che possiede. nessuno rimarrà così com'è. Lo Spirito Santo allargherà le pareti dei nostri cuori e il fuoco del suo amore ci guiderà.
giovedì 3 dicembre 2009
6 Dicembre 2009 - II Domenica di Avvento
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
"Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo": così scriveva il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L'intuizione è felicissima e coglie il cuore (l'essenza) del cristianesimo. Il cristianesimo, certo, ha una sua visione del mondo; offre una dottrina su Dio, sull'uomo, sulla vita e la storia; propone anche una morale, un culto e dei riti; ma è questo e tutto questo a partire da un evento, anzi da una persona, il Cristo storicamente esistito, nato, crocifisso e risorto. Scriveva Romano Guardini: "Con Gesù Cristo l'esistenza umana entra in una nuova situazione, il mondo intero viene afferrato dal fervore divampato in Palestina".
Da domenica scorsa abbiamo ripreso la lettura del vangelo di Luca, l'evangelista più attento, tra i quattro, alla imprescindibile e fondante dimensione storica del cristianesimo. È l'unico infatti ad affrescare, all'inizio dell'attività pubblica di Gesù, un grande fondale in cui è ambientata la vicenda di Cristo.
Siamo verso l'anno 28-29 d.C.: a Roma, da 15 anni, è imperatore Tiberio Cesare; Pilato, in suo nome, è prefetto-governatore della Giudea. L'evangelista, in rapida carrellata, parte da Roma, per arrivare alla Palestina e finire a Gerusalemme, dove sono sommi sacerdoti Caifa e il suocero Anna. Come si può notare anche in altri passi della sua opera, s. Luca prende come estremi del vasto scenario Roma e Gerusalemme: il primo volume inizia con una sorta di "grand'angolo" su Gerusalemme (con l'annuncio a Zaccaria: 1,1-25) e termina con Gesù che a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, benedice i suoi prima di salire al cielo (24,50s). Il volume n. 2 dell'opera lucana - gli Atti degli apostoli - ricomincia da Gerusalemme con un secondo racconto dell'ascensione di Gesù al cielo (cfr. At 1,6-11) e termina a Roma con l'arrivo dell'apostolo Paolo.
La Palestina - come Luca la rappresenta con fedele adesione alla storia - appare come un oscuro brano di mondo, divisa in piccole regioni e governata da piccoli potenti: sembrano loro i signori della storia, e invece - ci vuol dire l'evangelista - la storia è dominata dalla parola di Dio, che scende (lett. avvenne: v. 2) su Giovanni: questo è l'avvenimento che fa la differenza e determina un salto di qualità con il passato.
Anche Luca, come Matteo e Marco, riporta la citazione del profeta Isaia: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! (40,3-5), ma solo Luca la prolunga fino alle parole: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio (v. 6). Per dire "salvezza", l'evangelista non usa il termine greco abituale - soterìa - ma un suo sinonimo più raro, sotèrion, che egli poi riprenderà intenzionalmente al termine del suo secondo volume, gli Atti, quando descrive Paolo prigioniero a Roma e riporta le sue ultime parole, quasi come un testamento: "Sia noto a voi - Paolo si rivolge per l'ultima volta ai suoi fratelli ebrei che si ostinano a non accogliere il vangelo di Gesù Cristo - che questa salvezza (sotèrion) viene rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno" (At 28,28). L'evangelista vuol dimostrare che la salvezza preparata da Giovanni e realizzata da Gesù, è destinata a tutti i popoli. Una volta che questo messaggio sarà arrivato a Roma, Luca può chiudere il suo secondo grande racconto, quello degli Atti degli apostoli: la sua "tesi" risulta ampiamente dimostrata.
In questa seconda tappa dell'Avvento, la Chiesa ci mette alla scuola di Giovanni il Battista e ci fa riascoltare il suo grido ruvido e sferzante: "Convertitevi!". Noi ci diciamo credenti e praticanti: e perché mai dovremmo convertirci? La conversione riguarda chi da cattivo diventa buono, da peccatore si fa giusto, ma noi ci sentiamo così puliti, così devoti: del resto non siamo già cristiani?
Non ci rendiamo conto che è proprio da questa presunzione che dobbiamo convertirci: dalla supposizione illusoria e infondata che, tutto sommato, siamo già a posto, che va bene così, e quindi non abbiamo bisogno di alcuna conversione.
Ma proviamo a domandarci: è proprio vero che nelle varie situazioni e circostanze della vita condividiamo sempre gli stessi sentimenti di Gesù Cristo? per esempio, quando subiamo qualche torto o qualche affronto, riusciamo a perdonare di cuore chi ci ha fatto soffrire? Quando ci troviamo in una prova o sotto l'assillo di una grave preoccupazione, è proprio vero che rimettiamo la nostra causa a Dio, nella fiducia che non dobbiamo angustiarci per nulla? Quando siamo chiamati a condividere gioie o dolori, sappiamo sinceramente piangere con chi piange e gioire con chi gioisce? Quando dobbiamo mostrare coraggiosamente la nostra fede, ci capita forse di vergognarci del vangelo? E stiamo imparando a vivere il nostro quotidiano sempre e in ogni situazione, felice o avversa, nella lode al Signore e nel ringraziamento sincero e convinto che tutto è segno, grazia e dono?
È soprattutto nel campo della costruzione della civiltà dell'amore che dobbiamo vigilare. Questo nostro tempo, che si svolge tra il primo e l'ultimo avvento di Cristo, è già carico di eternità. Cammina verso un avvenire: ma quello stesso avvenire lo porta già in seno, come una madre incinta porta in grembo il bambino che dovrà nascere. La storia è il campo di azione in cui l'uomo è chiamato a collaborare con Dio. Il Battista con la sua predicazione e il ministero di battezzatore, ha aperto le porte dell'avvenire. Così ogni uomo è autore di un frammento di storia il cui significato positivo o negativo si ripercuote su tutta la famiglia umana. "Ogni istante del tempo - scriveva s. Francesco di Sales - viene a te con un dovere da compiere e una grazia per compierlo bene; e ritorna all'eternità, per essere per sempre ciò che tu ne avrai fatto". Questo pone la nostra fragile libertà in una situazione drammatica, perché ogni frammento di tempo ha un peso decisivo. Ne siamo consapevoli? E non abbiamo davvero niente da autocontestarci?
"Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio": e chi appartiene ad un'altra religione e senza sua colpa passa tutta la vita senza mai incontrare esplicitamente Gesù Cristo? La parola di Dio ci rassicura: Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati" per mezzo di Gesù Cristo, unico mediatore (1Tm 2,4-6) e per vie solo a lui conosciute porta gli uomini che senza loro colpa ignorano il vangelo alla salvezza. Ma ciò non toglie che noi cristiani abbiamo il dovere di far conoscere Gesù Cristo a quanti ancora non lo conoscono. "Guai a me se non annunciassi il vangelo", gridava s. Paolo. Se a noi il Signore Gesù ha cambiato la vita, come non sentire la passione di farlo conoscere a quanti incontriamo al lavoro, a scuola, nel condominio, in ospedale?
Se ci guardiamo intorno, certamente troviamo persone interessate e disponibili a cominciare o a ricominciare un cammino di fede, se incontrassero dei cristiani innamorati di Gesù Cristo: non dovremmo e non potremmo essere noi quei cristiani?
Ma dobbiamo deciderci una buona volta: dobbiamo spalare le montagne dell'orgoglio e dell'invidia, riempire le voragini scavate dall'indifferenza e dall'indolenza, raddrizzare i sentieri di tanti nostri compromessi e peripezie a zig-zag. Il cantiere è aperto, i lavori sono in corso...
(Fonte: Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi", Ave, Roma 2009)
"Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo": così scriveva il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L'intuizione è felicissima e coglie il cuore (l'essenza) del cristianesimo. Il cristianesimo, certo, ha una sua visione del mondo; offre una dottrina su Dio, sull'uomo, sulla vita e la storia; propone anche una morale, un culto e dei riti; ma è questo e tutto questo a partire da un evento, anzi da una persona, il Cristo storicamente esistito, nato, crocifisso e risorto. Scriveva Romano Guardini: "Con Gesù Cristo l'esistenza umana entra in una nuova situazione, il mondo intero viene afferrato dal fervore divampato in Palestina".
Da domenica scorsa abbiamo ripreso la lettura del vangelo di Luca, l'evangelista più attento, tra i quattro, alla imprescindibile e fondante dimensione storica del cristianesimo. È l'unico infatti ad affrescare, all'inizio dell'attività pubblica di Gesù, un grande fondale in cui è ambientata la vicenda di Cristo.
Siamo verso l'anno 28-29 d.C.: a Roma, da 15 anni, è imperatore Tiberio Cesare; Pilato, in suo nome, è prefetto-governatore della Giudea. L'evangelista, in rapida carrellata, parte da Roma, per arrivare alla Palestina e finire a Gerusalemme, dove sono sommi sacerdoti Caifa e il suocero Anna. Come si può notare anche in altri passi della sua opera, s. Luca prende come estremi del vasto scenario Roma e Gerusalemme: il primo volume inizia con una sorta di "grand'angolo" su Gerusalemme (con l'annuncio a Zaccaria: 1,1-25) e termina con Gesù che a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, benedice i suoi prima di salire al cielo (24,50s). Il volume n. 2 dell'opera lucana - gli Atti degli apostoli - ricomincia da Gerusalemme con un secondo racconto dell'ascensione di Gesù al cielo (cfr. At 1,6-11) e termina a Roma con l'arrivo dell'apostolo Paolo.
La Palestina - come Luca la rappresenta con fedele adesione alla storia - appare come un oscuro brano di mondo, divisa in piccole regioni e governata da piccoli potenti: sembrano loro i signori della storia, e invece - ci vuol dire l'evangelista - la storia è dominata dalla parola di Dio, che scende (lett. avvenne: v. 2) su Giovanni: questo è l'avvenimento che fa la differenza e determina un salto di qualità con il passato.
Anche Luca, come Matteo e Marco, riporta la citazione del profeta Isaia: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! (40,3-5), ma solo Luca la prolunga fino alle parole: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio (v. 6). Per dire "salvezza", l'evangelista non usa il termine greco abituale - soterìa - ma un suo sinonimo più raro, sotèrion, che egli poi riprenderà intenzionalmente al termine del suo secondo volume, gli Atti, quando descrive Paolo prigioniero a Roma e riporta le sue ultime parole, quasi come un testamento: "Sia noto a voi - Paolo si rivolge per l'ultima volta ai suoi fratelli ebrei che si ostinano a non accogliere il vangelo di Gesù Cristo - che questa salvezza (sotèrion) viene rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno" (At 28,28). L'evangelista vuol dimostrare che la salvezza preparata da Giovanni e realizzata da Gesù, è destinata a tutti i popoli. Una volta che questo messaggio sarà arrivato a Roma, Luca può chiudere il suo secondo grande racconto, quello degli Atti degli apostoli: la sua "tesi" risulta ampiamente dimostrata.
In questa seconda tappa dell'Avvento, la Chiesa ci mette alla scuola di Giovanni il Battista e ci fa riascoltare il suo grido ruvido e sferzante: "Convertitevi!". Noi ci diciamo credenti e praticanti: e perché mai dovremmo convertirci? La conversione riguarda chi da cattivo diventa buono, da peccatore si fa giusto, ma noi ci sentiamo così puliti, così devoti: del resto non siamo già cristiani?
Non ci rendiamo conto che è proprio da questa presunzione che dobbiamo convertirci: dalla supposizione illusoria e infondata che, tutto sommato, siamo già a posto, che va bene così, e quindi non abbiamo bisogno di alcuna conversione.
Ma proviamo a domandarci: è proprio vero che nelle varie situazioni e circostanze della vita condividiamo sempre gli stessi sentimenti di Gesù Cristo? per esempio, quando subiamo qualche torto o qualche affronto, riusciamo a perdonare di cuore chi ci ha fatto soffrire? Quando ci troviamo in una prova o sotto l'assillo di una grave preoccupazione, è proprio vero che rimettiamo la nostra causa a Dio, nella fiducia che non dobbiamo angustiarci per nulla? Quando siamo chiamati a condividere gioie o dolori, sappiamo sinceramente piangere con chi piange e gioire con chi gioisce? Quando dobbiamo mostrare coraggiosamente la nostra fede, ci capita forse di vergognarci del vangelo? E stiamo imparando a vivere il nostro quotidiano sempre e in ogni situazione, felice o avversa, nella lode al Signore e nel ringraziamento sincero e convinto che tutto è segno, grazia e dono?
È soprattutto nel campo della costruzione della civiltà dell'amore che dobbiamo vigilare. Questo nostro tempo, che si svolge tra il primo e l'ultimo avvento di Cristo, è già carico di eternità. Cammina verso un avvenire: ma quello stesso avvenire lo porta già in seno, come una madre incinta porta in grembo il bambino che dovrà nascere. La storia è il campo di azione in cui l'uomo è chiamato a collaborare con Dio. Il Battista con la sua predicazione e il ministero di battezzatore, ha aperto le porte dell'avvenire. Così ogni uomo è autore di un frammento di storia il cui significato positivo o negativo si ripercuote su tutta la famiglia umana. "Ogni istante del tempo - scriveva s. Francesco di Sales - viene a te con un dovere da compiere e una grazia per compierlo bene; e ritorna all'eternità, per essere per sempre ciò che tu ne avrai fatto". Questo pone la nostra fragile libertà in una situazione drammatica, perché ogni frammento di tempo ha un peso decisivo. Ne siamo consapevoli? E non abbiamo davvero niente da autocontestarci?
"Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio": e chi appartiene ad un'altra religione e senza sua colpa passa tutta la vita senza mai incontrare esplicitamente Gesù Cristo? La parola di Dio ci rassicura: Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati" per mezzo di Gesù Cristo, unico mediatore (1Tm 2,4-6) e per vie solo a lui conosciute porta gli uomini che senza loro colpa ignorano il vangelo alla salvezza. Ma ciò non toglie che noi cristiani abbiamo il dovere di far conoscere Gesù Cristo a quanti ancora non lo conoscono. "Guai a me se non annunciassi il vangelo", gridava s. Paolo. Se a noi il Signore Gesù ha cambiato la vita, come non sentire la passione di farlo conoscere a quanti incontriamo al lavoro, a scuola, nel condominio, in ospedale?
Se ci guardiamo intorno, certamente troviamo persone interessate e disponibili a cominciare o a ricominciare un cammino di fede, se incontrassero dei cristiani innamorati di Gesù Cristo: non dovremmo e non potremmo essere noi quei cristiani?
Ma dobbiamo deciderci una buona volta: dobbiamo spalare le montagne dell'orgoglio e dell'invidia, riempire le voragini scavate dall'indifferenza e dall'indolenza, raddrizzare i sentieri di tanti nostri compromessi e peripezie a zig-zag. Il cantiere è aperto, i lavori sono in corso...
(Fonte: Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi", Ave, Roma 2009)
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