giovedì 3 dicembre 2009

6 Dicembre 2009 - II Domenica di Avvento

Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
"Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo": così scriveva il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L'intuizione è felicissima e coglie il cuore (l'essenza) del cristianesimo. Il cristianesimo, certo, ha una sua visione del mondo; offre una dottrina su Dio, sull'uomo, sulla vita e la storia; propone anche una morale, un culto e dei riti; ma è questo e tutto questo a partire da un evento, anzi da una persona, il Cristo storicamente esistito, nato, crocifisso e risorto. Scriveva Romano Guardini: "Con Gesù Cristo l'esistenza umana entra in una nuova situazione, il mondo intero viene afferrato dal fervore divampato in Palestina".
Da domenica scorsa abbiamo ripreso la lettura del vangelo di Luca, l'evangelista più attento, tra i quattro, alla imprescindibile e fondante dimensione storica del cristianesimo. È l'unico infatti ad affrescare, all'inizio dell'attività pubblica di Gesù, un grande fondale in cui è ambientata la vicenda di Cristo.
Siamo verso l'anno 28-29 d.C.: a Roma, da 15 anni, è imperatore Tiberio Cesare; Pilato, in suo nome, è prefetto-governatore della Giudea. L'evangelista, in rapida carrellata, parte da Roma, per arrivare alla Palestina e finire a Gerusalemme, dove sono sommi sacerdoti Caifa e il suocero Anna. Come si può notare anche in altri passi della sua opera, s. Luca prende come estremi del vasto scenario Roma e Gerusalemme: il primo volume inizia con una sorta di "grand'angolo" su Gerusalemme (con l'annuncio a Zaccaria: 1,1-25) e termina con Gesù che a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, benedice i suoi prima di salire al cielo (24,50s). Il volume n. 2 dell'opera lucana - gli Atti degli apostoli - ricomincia da Gerusalemme con un secondo racconto dell'ascensione di Gesù al cielo (cfr. At 1,6-11) e termina a Roma con l'arrivo dell'apostolo Paolo.
La Palestina - come Luca la rappresenta con fedele adesione alla storia - appare come un oscuro brano di mondo, divisa in piccole regioni e governata da piccoli potenti: sembrano loro i signori della storia, e invece - ci vuol dire l'evangelista - la storia è dominata dalla parola di Dio, che scende (lett. avvenne: v. 2) su Giovanni: questo è l'avvenimento che fa la differenza e determina un salto di qualità con il passato.
Anche Luca, come Matteo e Marco, riporta la citazione del profeta Isaia: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! (40,3-5), ma solo Luca la prolunga fino alle parole: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio (v. 6). Per dire "salvezza", l'evangelista non usa il termine greco abituale - soterìa - ma un suo sinonimo più raro, sotèrion, che egli poi riprenderà intenzionalmente al termine del suo secondo volume, gli Atti, quando descrive Paolo prigioniero a Roma e riporta le sue ultime parole, quasi come un testamento: "Sia noto a voi - Paolo si rivolge per l'ultima volta ai suoi fratelli ebrei che si ostinano a non accogliere il vangelo di Gesù Cristo - che questa salvezza (sotèrion) viene rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno" (At 28,28). L'evangelista vuol dimostrare che la salvezza preparata da Giovanni e realizzata da Gesù, è destinata a tutti i popoli. Una volta che questo messaggio sarà arrivato a Roma, Luca può chiudere il suo secondo grande racconto, quello degli Atti degli apostoli: la sua "tesi" risulta ampiamente dimostrata.
In questa seconda tappa dell'Avvento, la Chiesa ci mette alla scuola di Giovanni il Battista e ci fa riascoltare il suo grido ruvido e sferzante: "Convertitevi!". Noi ci diciamo credenti e praticanti: e perché mai dovremmo convertirci? La conversione riguarda chi da cattivo diventa buono, da peccatore si fa giusto, ma noi ci sentiamo così puliti, così devoti: del resto non siamo già cristiani?
Non ci rendiamo conto che è proprio da questa presunzione che dobbiamo convertirci: dalla supposizione illusoria e infondata che, tutto sommato, siamo già a posto, che va bene così, e quindi non abbiamo bisogno di alcuna conversione.
Ma proviamo a domandarci: è proprio vero che nelle varie situazioni e circostanze della vita condividiamo sempre gli stessi sentimenti di Gesù Cristo? per esempio, quando subiamo qualche torto o qualche affronto, riusciamo a perdonare di cuore chi ci ha fatto soffrire? Quando ci troviamo in una prova o sotto l'assillo di una grave preoccupazione, è proprio vero che rimettiamo la nostra causa a Dio, nella fiducia che non dobbiamo angustiarci per nulla? Quando siamo chiamati a condividere gioie o dolori, sappiamo sinceramente piangere con chi piange e gioire con chi gioisce? Quando dobbiamo mostrare coraggiosamente la nostra fede, ci capita forse di vergognarci del vangelo? E stiamo imparando a vivere il nostro quotidiano sempre e in ogni situazione, felice o avversa, nella lode al Signore e nel ringraziamento sincero e convinto che tutto è segno, grazia e dono?
È soprattutto nel campo della costruzione della civiltà dell'amore che dobbiamo vigilare. Questo nostro tempo, che si svolge tra il primo e l'ultimo avvento di Cristo, è già carico di eternità. Cammina verso un avvenire: ma quello stesso avvenire lo porta già in seno, come una madre incinta porta in grembo il bambino che dovrà nascere. La storia è il campo di azione in cui l'uomo è chiamato a collaborare con Dio. Il Battista con la sua predicazione e il ministero di battezzatore, ha aperto le porte dell'avvenire. Così ogni uomo è autore di un frammento di storia il cui significato positivo o negativo si ripercuote su tutta la famiglia umana. "Ogni istante del tempo - scriveva s. Francesco di Sales - viene a te con un dovere da compiere e una grazia per compierlo bene; e ritorna all'eternità, per essere per sempre ciò che tu ne avrai fatto". Questo pone la nostra fragile libertà in una situazione drammatica, perché ogni frammento di tempo ha un peso decisivo. Ne siamo consapevoli? E non abbiamo davvero niente da autocontestarci?
"Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio": e chi appartiene ad un'altra religione e senza sua colpa passa tutta la vita senza mai incontrare esplicitamente Gesù Cristo? La parola di Dio ci rassicura: Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati" per mezzo di Gesù Cristo, unico mediatore (1Tm 2,4-6) e per vie solo a lui conosciute porta gli uomini che senza loro colpa ignorano il vangelo alla salvezza. Ma ciò non toglie che noi cristiani abbiamo il dovere di far conoscere Gesù Cristo a quanti ancora non lo conoscono. "Guai a me se non annunciassi il vangelo", gridava s. Paolo. Se a noi il Signore Gesù ha cambiato la vita, come non sentire la passione di farlo conoscere a quanti incontriamo al lavoro, a scuola, nel condominio, in ospedale?
Se ci guardiamo intorno, certamente troviamo persone interessate e disponibili a cominciare o a ricominciare un cammino di fede, se incontrassero dei cristiani innamorati di Gesù Cristo: non dovremmo e non potremmo essere noi quei cristiani?
Ma dobbiamo deciderci una buona volta: dobbiamo spalare le montagne dell'orgoglio e dell'invidia, riempire le voragini scavate dall'indifferenza e dall'indolenza, raddrizzare i sentieri di tanti nostri compromessi e peripezie a zig-zag. Il cantiere è aperto, i lavori sono in corso...

(Fonte: Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi", Ave, Roma 2009)

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