giovedì 27 giugno 2019

30 Giugno 2019 – XIII Domenica del Tempo Ordinario


“Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé” (Lc 9,51-62).

Un vangelo chiaro quello di oggi. Un vangelo esplicito, che ci offre una serie di indicazioni sulla qualità della sequela: indicazioni che non fanno sconti a nessuno. Soprattutto a quanti si riempiono la bocca di “buonismo” da parte di Dio, visto come un “bonaccione” che comunque “si accontenta”, per giustificare le loro scelte di vita opportunistiche, unilaterali, fondamentalmente egoistiche.
Siamo nel nono capitolo di Luca: un capitolo decisivo, in cui Gesù, che si trova in Galilea, prende “la ferma decisione” di raggiungere Gerusalemme per la Pasqua, pur sapendo che lì sarebbe stato crocifisso.
Per arrivarci però, è costretto a passare per la Samaria, terra dai rapporti non troppo idilliaci con i galilei: per cui ai discepoli che Egli aveva mandato per pianificare gli spostamenti suoi e del suo gruppo, negano ogni richiesta di accoglienza e di ospitalità notturna.
Probabilmente era gente prevenuta nei suoi confronti, gente a cui certi suoi discorsi su “cose” spirituali, non interessavano; non volevano sentirne parlare, non avevano nessuna voglia di cambiare, non volevano proprio saperne di guardarsi dentro; non volevano insomma problemi, difficoltà, “rotture”.
Luca legge questo rifiuto in chiave teologica: Gesù cioè viene rifiutato perché va a Gerusalemme. Rifiutare il suo viaggio a Gerusalemme (tutto il vangelo di Luca è in vista di questa “ascesa”, di questo ritorno del Figlio unico al Padre) è rifiutarlo nella sua essenza, nel suo volto, nella sua unicità e particolarità. Significa rifiutare lo stesso Gesù.
È quindi naturale che, di fronte a tanta puntigliosità, Giacomo e Giovanni, i “boanèrghes”, le teste calde, reagiscono da par loro, chiedendo per quel territorio un castigo immediato: che un “fuoco dal cielo” bruci tutti gli occupanti. Ma, a differenza di Jahweh che dimostra per mezzo di Elia tutta la sua potenza, incenerendo per ben due volte i soldati mandati dal re Acazia ad uccidere il profeta, avendo egli avuto l'ardire di annunciare la sua morte (2Re 1,1-18), a Gesù non interessa dimostrare la sua potenza; Egli vuole solo dare prova di tutto il suo amore. Gesù non è potente nella forza, ma nell’amore: la sua forza sta tutta qui, in un amore che non ha forza; il suo potere sta nel non avere potere. “Non ci vogliono? Lasciamoli stare. Andiamo altrove”.
Del resto, sembra dire, è anche giusto che qualcuno nella vita ci rifiuti: perché dovremmo andare bene a tutti? Ricordiamoci sempre, quando qualcuno ci rifiuta, che ciò è normale; non abbiamo il diritto di essere accettati da tutti. E se questo ci fa star male, se per questo soffriamo, siamo noi che sbagliamo: perché nella vita è nostro dovere convivere pacificamente con tutti: con quanti ci dicono “Sì” e con quanti ci dicono “No”.
Da questo capitolo dunque il vangelo di Luca non è solo Parola da ascoltare, ma anche e soprattutto “Via” da seguire, una via che si sviluppa progressivamente durante il suo camminare verso Gerusalemme e che termina lassù, in alto, sulla croce del Golgota.
Il volto “teso”, “indurito” (estèrisen) di Gesù che si avvia verso la sua passione, si pone in contrasto con il nostro volto, il volto di quanti si propongono di seguirlo senza un fermo proposito: i casi descritti da Luca nella seconda parte del vangelo di oggi, ci riportano infatti alla nostra pochezza, alla nostra superficialità, ai nostri “distinguo”, al nostro continuo rimandare qualunque seria decisione : perché l’unico scopo radicato nella nostra mente, nella nostra vita, è quello di emergere nell’avere, nel potere, nell’apparire.
Il testo ci presenta tre tipologie di adesione alla chiamata divina.
La prima riporta una promessa: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Una risposta categorica, sullo stile di quelle di Pietro. Il chiamato ha sentito impellente il desiderio di seguire Gesù, ha capito la bontà di tale aspirazione, ma – come Pietro - non ha fatto i conti con la caducità della natura umana, non ha capito che seguirlo significa andare oltre l’elemento umano, significa per l’uomo porre ogni sua sicurezza nel divino.
“Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9,56).
Perché cita le volpi e gli uccelli? Nella cultura ebraica la volpe è considerata l’animale più astuto ma anche ingenuo, insignificante. Erode, la “volpe” (Lc 13,32), furbo ma banale, cerca la salvezza nascondendosi nel suo palazzo, nella sua tana: e pensa di poter vivere tranquillo. Gli uccelli poi sono gli animali più semplici, meno impegnativi, con minori esigenze: “Guardate gli uccelli del cielo...” (Mt 6,26). Ebbene: sia le volpi che gli uccelli, hanno comunque la loro tana, il loro nido.
Gesù invece non ha nulla: tutto ciò che possiede non gli appartiene, e lo restituisce al Padre. Come la sua vita. Con questa dichiarazione, Egli toglie immediatamente, a chi vuol seguirlo, ogni illusione di ricchezza, di ambizione; seguirlo non conduce in alcun modo agli onori, alla gloria, alla popolarità, ma al disprezzo sicuro da parte della società e dei potenti. Seguire Gesù significa venir considerati come inutili, insignificanti, gente banale, senza carattere.
Prima condizione per seguirlo è pertanto: “Non aspettatevi nulla: nessuna ricchezza, nessun onore, nessun merito, nessun riconoscimento umano, nessuna poltrona particolare”: una prospettiva non invitante, in stridente contrasto con lo stile di vita adottato da tanti “discepoli”, da tanti “pastori” moderni e disinvolti.
Gesù ci mette dunque in guardia contro le false illusioni, le false aspettative. Tutti siamo un po’ degli illusi! Per esempio “illusione” è quando pensiamo di poter superare da soli, con la nostra sola volontà, tutte le contrarietà della vita; “illusione” è pensare di essere immuni da ogni malattia; che tutti gli eventi negativi che ci circondano, accadano soltanto agli altri e non a noi; “illusione” è pensare che una volta imboccata la strada per seguire Gesù, diventeremo automaticamente migliori, diversi, perfetti; “illusione” è pensare che Dio sia sempre pronto a rimuovere ogni ostacolo davanti ai nostri passi; “illusione” è dire che ci conosciamo a fondo; “illusione” è pensare che se tutti si comportassero come noi, il mondo sarebbe sicuramente migliore; “illusione” è credere che per essere felici nella vita, sia sufficiente crearsi la propria “tana”.
La seconda forma di sequela parte dall’iniziativa di Gesù che dice all’uomo, “seguimi!”. Una chiamata secca, inequivocabile; chi deve seguire siamo noi, non lui. E mentre nel caso precedente, come abbiamo visto, è Gesù che risponde all’iniziativa dell’uomo, qui è l’uomo, il chiamato, che obietta all’invito di Gesù: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. In effetti egli non dice di no, non chiede una dispensa, chiede solo una proroga!
Il motivo del resto è più che valido: seppellire il padre costituiva per la cultura ebraica l’obbligo più importante e più sacro per un figlio: il padre rappresentava infatti colui che trasmetteva la tradizione, i valori etici e religiosi del passato, il modello da seguire. Onorare il padre (il famoso quarto comandamento) significava appunto imitarlo, fare come aveva fatto lui, portare avanti il suo patrimonio, le sue credenze, la sua tradizione. In questo modo il padre viveva nel figlio.
Pertanto gli onori funebri, presieduti dal figlio, costituivano un obbligo che non poteva in alcun modo venire disatteso. “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il regno di Dio” (Lc 9,59-60). Certo, seppellire il proprio padre è un impegno importantissimo, irrinunciabile: ma Gesù fa capire che seguire i suoi passi, aderire immediatamente alla sua chiamata, è un dovere ancora più importante, improrogabile. Una risposta a dir poco scandalosa la sua, inattuabile per quei tempi. Ma Gesù non è nuovo nel puntualizzare questa sua rivoluzionaria scala di valori: lo aveva fatto anche al momento della chiamata dei suoi discepoli, ordinando loro di abbandonare anche il padre. Tant'è che: “Essi, lasciata la barca e il padre, lo seguirono” (Mt 4,22). E non solo il padre: in realtà aveva chiesto che lasciassero il loro mestiere, le loro tradizioni familiari, che abbandonassero così, su due piedi, tutto ciò a cui tenevano di più; in una parola, tutto ciò che costituiva la loro vita.
Il significato è chiaro: tutte queste cose, tutto ciò che abbiamo sempre fatto, riguarda il passato, è successo ieri, appartengono ad un altro mondo. Il discepolo che vuol seguire Gesù, al contrario, è il presente, l’oggi, l’immediato: è una “nuova” vita. Bisogna essere “vino nuovo in otri nuovi” (Mc 2,21.22). Che vuol dire: “Il passato è passato, è morto; non dovete più fare le stesse cose di ieri. Di fronte alla chiamata di Dio, non siete più tenuti a sottomettervi a quelle usanze, a quelle tradizioni, che vi erano imposte dalla società, dalle vostre usanze, dalla famiglia; ma soprattutto, altro punto importantissimo, il discepolo deve fare le cose che si sente di fare, che gli vengono suggerite dal cuore, dall’amore; basta col fare le cose perché così fanno tutti gli altri: “Ma noi abbiamo sempre fatto in questo modo da che mondo è mondo!”.
È vero: basti pensare a tutte quelle “prediche” che ci hanno impartito fin da piccoli: “Sii bravo, non sbagliare, sii forte, datti da fare, impegnati, sbrigati, fammelo almeno per piacere, non vedi che mi fai soffrire? Non pensi a tua madre, a tuo padre? Fai sempre come ti hanno insegnato i tuoi genitori! Cosa dirà la gente in giro se non fai come loro ti hanno insegnato?”. Frasi che ci hanno costretto nostro malgrado, chi più chi meno, a rinunciare alla nostra personalità, ai nostri progetti, ai nostri sogni; frasi, che ci hanno costretto a non essere più noi stessi, ma quel qualcuno che gli altri pretendevano da noi.
Seguire Gesù implica al contrario un cuore libero; perché solo così potremo annunciarlo fino ai confini della terra.
Poi c’è la terza soluzione: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Anche quest’uomo è intenzionato a seguire Gesù: ma è meno convinto del precedente: l’altro chiedeva un po’ di tempo per adempiere un dovere sacrosanto; questi non ha una motivazione valida, chiede solo “un po’ di tempo”; rimanda al domani solo per il piacere di congedarsi da parenti e amici.
Quanto ci assomiglia! “Guarda Gesù, io ti seguirò sicuramente, ma prima devo sistemare alcune cosucce, prima devo laurearmi, prima devo sposarmi, prima devo sistemarmi; poi verrò!”.
Ma Gesù anche questa volta è chiarissimo: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,61-62). Sono parole che alludono alla vocazione di Eliseo: chiamato mentre stava arando con dodici paia di buoi, egli brucia senza esitazione il suo aratro, sacrifica i suoi buoi e obbedisce alla volontà Dio (1Re 19,19ss.). La chiamata di Dio ha priorità assoluta, esige una risposta immediata, bisogna decidere subito, non c’è tempo per guardare indietro, al passato. Tutti conosciamo cosa è capitato alla moglie di Lot che, fuggendo da Sodoma in fiamme, si voltò indietro a guardare: si trasformò in una statua di sale! (Gn 19,26). Quando Dio chiama non sono ammessi indugi, perché è quello il momento in cui dobbiamo decidere della nostra vita o della nostra morte.
Guardarsi indietro significa ripensarci, ritornare sui propri passi, nicchiare, farsi cogliere dai dubbi, aver paura dell’incognito: e questo non è possibile per chi aspira al Regno dei cieli.
La radice di tutti questi mali, di questi ripensamenti, è infatti l’attaccamento al nostro io, alle nostre comodità, alla nostra vita sicura e agiata: la nostra sarà anche una “rinuncia”, ma pilotata, addomesticata, adattata ai nostri gusti, alle nostre esigenze.
Gesù invece è l’uomo del “si, si, no, no”: esige risposte certe, non ama ripensamenti, gli assensi a metà. Non ama il piede su due staffe. Lui, presa la “ferma” decisione di andare a Gerusalemme per sacrificarsi, è andato sempre avanti, dritto per la sua strada. E questo rimane un grandissimo insegnamento per noi. Amen.


giovedì 20 giugno 2019

23 Giugno 2019 – SS. Corpo e Sangue di Cristo


“Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla” (Lc 9,11b-17).

Oggi la Chiesa celebra la festa del Corpo e Sangue di Cristo, la festa dell’Eucarestia: Gesù non c’è più fisicamente con noi, ma è presente ogni giorno nell’Eucaristia sotto le specie del Pane e del Vino e nel Tabernacolo nelle Ostie consacrate.
Storicamente la festa nasce a seguito del miracolo di Bolsena: un sacerdote dubitava della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino che lui consacrava nell’Eucaristia: un giorno, all’atto dello spezzare il pane, dalla piccola ostia sgorgò miracolosamente del sangue, che macchiò di rosso il corporale: l’importante reliquia, insieme all’ostia, sono esposte alla venerazione dei fedeli nel duomo di Orvieto, costruito per conservare appunto la memoria e la documentazione del miracolo. Dal 1264, la festa venne estesa a tutta la Chiesa.
Ma cosa è successo esattamente in quella serata, cui si riferisce il vangelo di oggi?
Sappiamo che Gesù durante la sua vita pubblica aveva toccato ripetutamente il tema della “cena”, del “pranzo” aperto a tutti: puri, impuri, giusti e peccatori; alla sua tavola c’era posto per tutti, perché essa era il segno dell’amore infinito, smisurato, illimitato, incondizionato di Dio.
Finché Gesù è in vita, tutti possono vedere e sperimentare queste sue iniziative: Egli però sa bene di avere poco tempo da dedicare alla catechesi; deve quindi preparare con cura la folla per il “dopo”, per quando Lui sarà ritornato al Padre.
Il suo gesto quindi è preparato, programmato, con un significato ben preciso: la cena che egli offre alla folla non è una cena come tante altre; è una cena speciale, una cena “simbolica”, in cui Egli anticipa delle azioni rituali che saranno poi definite per i discepoli nella famosa “cena pasquale” del Cenacolo, durante la quale istituirà appunto l’Eucaristia, il sacramento della sua reale presenza nel tempo. Gli esegeti sono in difficoltà nell’attribuire il “dove” e il “quando” di questa prima “cena”: ma non è questo il punto più importante. Ciò che conta è il suo significato, sono le sue parole. Egli in pratica delinea un rito in grado di riproporre un banchetto, quando lui non ci sarà più, intorno al quale tutte le genti potranno cibarsi del suo Corpo e godere della sua reale presenza: “Quando voi direte: Questo è il mio Corpo e questo è il mio Sangue io realmente sarò in mezzo a voi, vi nutrirò e la vostra tavola diverrà e sarà come la mia tavola finché io ero in vita”.
L’Eucarestia è pertanto l’amore di Dio che arriva a tutti, è la possibilità per tutti di ritrovare le forze necessarie ad affrontare gli inevitabili disagi della vita. L’eucarestia è Gesù: tutti hanno accesso alla sua tavola. Tutti possono mangiare con Lui e di Lui non perché ne abbiano i meriti, ma perché l’amore di Dio vuole scendere su ogni cuore e su ogni anima. È un amore gratuito, destinato a quanti ne hanno bisogno. “Sei un lebbroso? Nessuno ti vuole per il tuo caratteraccio? Tutti ti escludono perché sei soffocante, difficile, insopportabile? Vieni qui, mangiamo insieme; tu non sai quanto ti amo! Sei un pubblicano? Non sei in regola con le leggi? Sei lontano da Me? Vieni da me solo per interesse? Non importa, vieni qui, mangiamo insieme, rilassati e sappi che il mio amore è garantito e gratuito. Sei una prostituta? Hai tradito l’amore? Hai tradito la fedeltà? Hai venduto il tuo corpo? La tua anima? La tua mente? Hai perso la tua dignità di uomo? Vieni qui, mangiamo insieme, rilassati, qui sei a casa tua, io ti amo; il mio amore sarà la tua forza!”.
Ecco, l’Eucarestia è questo: un banchetto, un pranzo per tutti, aperto a tutti, perché tutti hanno fame di Dio e Dio vuol darsi a tutti, perché tutti sono e saranno sempre figli suoi.
Quella sera dunque, prima di intervenire, Gesù vuole testare la fede dei suoi discepoli: “Dategli voi stessi da mangiare”. Bella mossa. Gesù in pratica si defila; essi dispongono solo di cinque pani e due pesci, e le persone da sfamare sono circa cinquemila: devono essere loro, personalmente, a rendersi conto della potenza dell’Amore di Dio: “Ma Gesù, cosa dici? Non vedi che abbiamo solo cinque pani e due pesci? Come facciamo?”. Essi non guardano ancora con gli occhi di Gesù; si fermano al presente, alla situazione concreta: non credono nelle loro possibilità, non hanno cioè gli occhi della fede.
Quante volte succede anche a noi di non credere, di non aver fiducia in noi stessi. Ci guardiamo e diciamo: “Non siamo capaci, non abbiamo energia, non ne abbiamo il coraggio!”. Quando ci guardiamo, vediamo soltanto i cinque pani e due pesci: un nulla. “Chi sono io, di cosa dispongo per poter costruire la mia vita?”.
Gesù ci insegna come fare: prende quel poco che ha, lo benedice, e avviene il miracolo: con cinque tozzi di pane riesce a sfamare migliaia di persone, tutti ne mangiano a sazietà e ne rimangono ancora dodici ceste! Egli sa per certo che partendo da quel poco, uscirà qualcosa di grande. Egli ha fede, vive credendo nei suoi poteri conferitegli dal Padre e con Lui condivisi: e così è stato. E così sarà per chiunque crede.
Il problema di base è avere fede: il problema è credere fermamente che, condividendo la Grazia di Dio, anche noi possiamo essere grandi, potenti, forti. E questo ci spaventa: perché la fede ci dimostra che la vita è nelle nostre mani, nelle nostre scelte, che siamo noi a plasmarla.
E allora, quando ci accostiamo alla Comunione e prendiamo sulla nostra mano il corpo di Cristo, dobbiamo avere fede; dobbiamo essere certi che quel pane, quella piccola ostia, all’apparenza insignificante, riesce a sfamare milioni di persone. È il nostro pane, quel pane che placa la nostra fame d’amore, che inonda il nostro cuore arido, che rianima il nostro entusiasmo spento, che illumina il nostro buio, i nostri tunnel; è quella forza che ci permette di ritrovare il giusto cammino nel nostro inutile girovagare senza meta. Quel pane è Dio stesso che viene in noi; è Lui che vuole venirci a trovare, che non si vergogna di entrare nella nostra casa in disordine, che vuole incontrarci da soli, che vuole saziarci, amarci. È Lui che viene per primo da noi, è Lui che ci offre la sua amicizia, che ci prende per mano così come siamo, rallentati dalle nostre miserie, e dolcemente ci ripete: “Vai bene così. Mi piace stare con te, quando sei vero, autentico, umile, spontaneo, senza camuffamenti, senza incrostazioni, senza maschere, né uniformi, né paraventi. Sii sempre te stesso, vivi nella mia amicizia”. Allora finalmente ci sentiamo a casa nostra. Perché con Lui non abbiamo nulla da dimostrare, non abbiamo cambiali in scadenza, non abbiamo facciate da esibire, compromessi da salvare: con Lui possiamo essere tranquillamente noi stessi, e godere a piene mani del suo Amore.


giovedì 13 giugno 2019

16 Giugno 2019 – Santissima Trinità


“Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità... Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16,12-15).

La festa della Trinità ci dice che Dio è uno solo: non però un Dio solitario, ma un solo Dio in tre Persone, che non si “dividono” un'unica divinità, ma ciascuna di esse è Dio tutto intero. Spiega il Catechismo: “Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio…”. Ognuna delle tre Persone è la stessa realtà, cioè la stessa sostanza, la stessa essenza o natura divina. Padre, Figlio e Spirito Santo non sono semplicemente nomi che indicano tre “modalità” diverse dell'Essere divino; essi sono realmente tre persone, distinte tra loro per le loro rispettive relazioni di origine: il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede da entrambi come vincolo d’Amore.
Detta così, la Trinità potrebbe risultare di non facile comprensione, frutto di concetti, di filosofie, di argomentazioni, di tesi e di antitesi; uno sforzo speculativo, di alto equilibrismo teologico, che cerca di spiegare l’essenza di Dio. Nel suo concreto, però, la Trinità è piuttosto semplice: in parole povere altro non è che l’esperienza dell’amore e della comunione reciproca di Dio Padre con Dio Figlio: un amore che tramite lo Spirito si fa uomo, Verbo, Parola, e si rivela in Gesù, diventando “comprensibile”, “accessibile”, all’umanità intera.
Per i primi discepoli è successo proprio questo: hanno capito che Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, non solo sosteneva di essere figlio di Dio, ma si comportava realmente come tale, da figlio di Dio: il Lui c’era veramente Dio, era Dio! In quell’uomo essi hanno sperimentato un mondo di amore, di comunione, di vita, infinitamente grande, profondo. E per dimostrare anche a noi questa essenza divina, hanno utilizzato l’immagine che più riusciva ad esprimere il concetto: l’immagine di una famiglia, con un Padre, un Figlio e il loro reciproco Amore, lo Spirito. Tre persone, dunque, unite strettamente tra loro, legate tra loro, ma comunque distinte, ognuna con un proprio ruolo specifico
Ebbene, questa “relazione” intra trinitaria è l’immagine esatta di come devono essere improntati i nostri rapporti, tra uomo e donna, tra mamma e figlio, tra amici, tra ogni appartenente al genere umano: un rapporto tra persone diverse, ma unite, tenute insieme, da un unico Amore, da un unico elemento che fa da “collante”: lo Spirito di Dio.
Tutti in fondo inseguiamo gli stessi obiettivi: vivere insieme le gioie dello Spirito, sperimentare insieme la carità del Padre, progredire insieme sulle orme del Figlio: abbiamo progetti comuni di salvezza, creiamo famiglie e figli obbedendo al suo ordine, condividiamo tempo e aspirazioni; ci comportiamo cioè come se fossimo una grande, unica, entità, anche se ciascuno di noi ha una sua individualità, una sua personalità, una propria autonomia decisionale, un proprio stile di vita.
Ci sono, è vero, molte persone che non tengono conto di questa realtà: nelle loro relazioni pretendono l’annullamento della personalità altrui, al punto da trasformarli in un loro alter ego, una loro copia esatta; esigono che tutti facciano solo ed esclusivamente ciò che fanno loro, come lo fanno loro, quando lo fanno loro; tutti devono attenersi perfettamente ai loro “desiderata”. Sono persone egocentriche che non accettano alcuna contrapposizione, non sopportano l’altrui diversità ed autonomia. Un “punto di vista” è solo la vista dal loro unico punto: sono talmente limitati, da non rendersi conto che in questo modo annullano le persone, le rovinano, le derubano della loro individualità, rifiutano a priori qualunque valida opportunità di collaborazione e di integrazione comuni.
In molte comunità cristiane si parla tanto di unità, di “comunione fraterna”, di comprensione, di carità, ma molto spesso tutte queste belle espressioni finiscono nel nulla di una triste realtà: chi non si adegua al pensiero “elitario” dei responsabili, chi pensa di raggiungere per altre vie lo spirito del vangelo, chi insomma nell’umiltà dimostra di avere un cervello e di saperlo usare, automaticamente viene escluso, viene messo al bando, ignorato, isolato. Non è ammessa alcuna pluralità interpretativa di cosa sia il vero bene. Eppure la dottrina della Chiesa insegna che tutti i componenti del popolo di Dio, pur essendo un solo “corpo” e un solo “spirito”, hanno il diritto-dovere di mettere a frutto, nella insostituibile carità, quei doni, quei carismi che lo Spirito ha infuso in ciascuno, nella sua specificità, nella sua individualità, nella sua diversità. Perché ciò che unisce veramente, ciò che crea una unione indissolubile, non è l’assoluta, piatta, uniformità, bensì la comune e reciproca condivisione di pensiero, di una interpretazione del divino alla luce dell’Amore, dell’aprirsi e del donarsi con quella Carità che “unisce i cuori”.
Fare “unione” infatti non è fare le stesse cose, avere le stesse idee, fare tutti lo stesso cammino. Fare “unione” significa donare, reciprocamente, il proprio amore più profondo, donare il proprio Spirito, condividere quel quid che abbiamo di più prezioso e di più caro nel nostro cuore.
Senza l’amore, otterremmo solo una unione fisica, materiale, che è ben diversa dalla vera unione, da quella che nasce dalla carità. Certo, talvolta potremmo arrivare anche a dispensare amore, ma non è l’Amore vero, quello che illumina la nostra vita, quello senza il quale noi stessi non potremmo vivere.
Abbiamo detto che la festa di oggi parla di un Dio che è famiglia, relazione, rapporto. In pratica ci fa capire che qualunque vita, priva di relazioni, non è degna di essere vissuta, non può essere considerata vita. È infatti attraverso le nostre relazioni che impariamo a vivere, sono esse l’unico strumento con cui possiamo tirar fuori, mettere concretamente a frutto, la Vita che abbiamo in noi.
Buone relazioni equivalgono ad una vita significativa; cattive relazioni significano una vita difficile, carica di risentimenti. Ora, se avere relazioni è un fatto normale, semplice, naturale, altrettanto non lo è il “sapersi” relazionare, che è una dote rara. Per questo dobbiamo imparare a costruire i nostri rapporti, le nostre relazioni, sull’esempio dell’Amore interpersonale della Trinità: purtroppo la maggior parte della gente non conosce il significato di “Trinità”; ignora quale potenza si possa sprigionare da una relazione interpersonale “trinitaria”; non capiscono: pensano soltanto che, sapendo parlare, sanno anche relazionarsi. 
Invece no: anzi dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso le “nostre” relazioni, prive dell’elemento fondante della carità, sono solo espressioni del nostro egoismo, una pretestuosa ricerca del nostro utile tornaconto; in tal caso, non siamo noi a gestire le nostre relazioni, ma sono le relazioni che gestiscono noi. 
Guardiamo allora nel profondo del nostro cuore, analizziamo la natura delle nostre relazioni, confrontiamole con le relazioni d’amore e di verità che intercorrono nella Trinità tra Padre, Figlio e Spirito Santo; e preghiamo perché anche nella nostra vita sia l’Amore a renderci sempre più autentici e credibili. Amen.


giovedì 6 giugno 2019

9 Giugno 2019 – Pentecoste


“Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre… Lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 15-16. 23-26).

A conclusione del tempo pasquale, cinquanta giorni dopo la Pasqua, la liturgia celebra la festa di Pentecoste: una festa importantissima poiché ci ricorda la diffusione nel mondo della Pasqua di Gesù. È la festa dello Spirito Santo: Dio non è più presente in carne ed ossa, non è visibile, ma è presente con il suo Spirito, disceso sugli apostoli, per renderli pienamente consapevoli dell’importanza della loro missione. Dio si è fermato concretamente in questo mondo per sempre, grazie alla loro risposta al mandato di Gesù: una risposta generosa, forte e convinta, resa tale dallo Spirito di Dio “sceso” dal cielo.
Prima considerazione: Dio scrive la nostra storia cristiana, scendendo... Dio si mette al nostro servizio, scendendo…; Dio, amore infinito, lo mette a disposizione della nostra pochezza, scendendo…. Esattamente al contrario del nostro agire, che nella nostra nullità, pensiamo di fare notizia, di scarabocchiare i nostri nomi nella storia, “salendo”, arrampicandoci, conquistando visibilità, importanza, potere, popolarità. Quanto siamo illusi! Quanto è diverso Dio da noi!
Dio dunque, come da promessa, è rimasto e continua a rimanere con noi per sempre. Dal momento però che non è materialmente visibile, molti pensano che non sia vero, che si tratti soltanto di una montatura dei preti; oppure, ammesso anche che ci sia, si comportano come se fosse l’ultima preoccupazione della loro vita.
La festa di oggi ci ricorda invece una grande verità: quella verità che Dio ha impresso nel “Dna” umano nell’attimo stesso del suo concepimento: che cioè Lui è in noi, che con il suo Spirito abita stabilmente in noi, che questo Spirito, coordinatore, animatore, soccorritore, consigliere, è la nostra “Anima”.
“Anima” infatti vuol dire “soffio vitale”, “Spirito” (in greco pneuma), e significa appunto “vita”, “ciò che respira”: l'uomo quindi ha un'anima perché lo Spirito abita in lui; anche lui, come Adamo, è “soffiato” da Dio, e per questo esiste. Il giorno in cui il suo “pneuma” cesserà di essere tale, esalerà cioè il suo ultimo respiro in questa vita e passerà da una esistenza corporale, materiale, ad una vita puramente “spirituale”, rimarrà cioè solo “spirito”, solo “Vita soprannaturale”.
In questa nostra società, abbiamo purtroppo completamento perso l’orientamento, non ci curiamo minimamente di conoscere ciò che è bene o male, ciò che dobbiamo fare o evitare. Siamo completamente avulsi da tutto ciò che è spirituale, che è “anima”. Per questo oggi, più che mai, abbiamo assoluto bisogno di Spirito Santo. Abbiamo una vitale necessità di rivivere la Pentecoste: sia nella Chiesa che nel mondo! 
Nel mondo, i potenti della terra sono sempre più assetati di potere: loro unico scopo è di aumentarlo ad ogni costo, prevaricando tutto e tutti: i ricchi mirano ad accrescere a dismisura la loro ricchezza, senza curarsi dei miserabili che non hanno di che sfamarsi; i genitori non capiscono più i loro figli e ai figli non interessa più quel che dicono i genitori; nella famiglia e nella coppia non c’è più dialogo, ciascuno usa un proprio linguaggio, diverso e intraducibile; esistono voragini di incomunicabilità tra i membri di una stessa comunità, tra un piano e l'altro di uno stesso palazzo, da un lato all'altro di una stessa via: al punto che spesso si finisce per sapere dalla Televisione quello che succede a pochi metri dal nostro salotto.
Nella Chiesa, le parole e i gesti dei pastori non scaldano più il cuore, sono meccanici, consunti dall’uso, non invogliano più nessuno alla conversione. A chi è ancora lontano dalla fede, non arrivano più le parole di amore e di vita del Vangelo, perché sono affidate a testimoni sempre più frettolosi, freddi, incuranti del loro credo, mestieranti asserviti alla politica e alla mondanità, irriconoscibili a Cristo stesso...
Contro tali deviazioni, a fronte dell’imperante prostituzione dei “testimoni” della Sposa, urge una nuova Pentecoste: c’è bisogno che lo Spirito Santo scenda nuovamente dal cielo, e con il suo “fuoco” bruci tutte le sterpaglie, le crudeltà, le infedeltà, le falsità, le cattiverie, che soffocano questa nostra società sommersa dal fango e dall’odio.
Abbiamo bisogno che dal cielo scenda nuovamente lo Spirito di Dio, che si rinnovi ancora quel miracolo dell'Amore, grazie al quale pochi e ignoranti Apostoli illuminati dallo Spirito, uscirono dal cenacolo e fecero conoscere e vivere in tutto il mondo le parole di Gesù, le grandi opere di Dio.
Anche noi, discepoli moderni, abbiamo bisogno dello “Spirito Consolatore”, perché siamo deboli, stanchi, sofferenti. Abbiamo tanto bisogno di aiuto, di equilibrio, di stabilità, di sostegno: di qualcuno che, silenziosamente, lenisca tutte le nostre ferite; di qualcuno che ci rassicuri con la sua presenza, con il suo abbraccio, con il suo ascolto; di qualcuno che non ci giudichi, ma ci comunichi amore, comprensione, “consolazione”.
Molti pensano che “consolare” significhi esprimere parole di compassione, qualche bella frase di circostanza, qualche espressione di conforto, spesso basate su assicurazioni che sanno di falsità, di posticcio, di abitudine, di retorica. “Consolare”, nel vocabolario del Vangelo, significa invece essere presenti nel momento del bisogno, essere di sostegno, di aiuto, di coinvolgimento. Se dobbiamo dire qualcosa, diciamola col cuore, trovando le parole giuste nella nostra anima, perché solo così vanno dritte al cuore dell’altro. Spesso è meglio non dire niente, stare semplicemente in silenzio, condividendo i suoi sentimenti, ciò che vive e sente. Perché il nostro “consolare” sarà sincero, convincente, meritorio, solo se saremo “prossimi” allo Spirito che è in loro.
Dobbiamo vivere lo Spirito. Dobbiamo cioè essere “spirituali”, creature dello Spirito.
Oggi purtroppo siamo quasi tutti incapaci di “spiritualità”, non riusciamo ad affrancarci dalla nostra “materialità”. Il nostro vivere quotidiano è in continua tensione tra due poli opposti, tra “materia” e “spirito”. Anche nelle cose più comuni, più frequenti: così, per esempio, “materia” è il pane dell’Eucaristia sull’altare, “spirito” è quando io vedo in quel pane Cristo stesso; “materia” è quando vedo nel prossimo solo uno che mi ostacola, che mi infastidisce, “spirito” è quando inizio a vedere in lui una persona che soffre, uno che ha un cuore e un’anima; “materia” è quando mi sveglio e di fronte al nuovo giorno, vedo solo un altro giorno di fastidioso lavoro, “spirito” è quando vedo una nuova amorosa opportunità che mi viene concessa da Dio per sperimentare la Vita; “materia” è quando ogni cosa mi fa innervosire, “spirito” è quando mi chiedo il perché del mio agire, cosa devo imparare, cosa devo cambiare nel mio propormi, nelle mie azioni, nel mio pensare; “materia” è quando guardo una donna solo per desiderare il suo corpo, “spirito” è quando vedo in quella donna una creatura di Dio, con un cuore magari ferito, assetata di comprensione e di conforto; “materia” è udire il cinguettio mattutino degli uccelli, “spirito” è apprezzarlo, trasformandolo in preghiera di ringraziamento a Dio per il suo creato. Tutta la vita può essere insomma terribilmente materiale o terribilmente spirituale, piena cioè di buio o di luce; tutto può essere “materia”, tutto può essere “spirito”: trasformarlo nell’una o nell’altro dipende solo da noi, dai nostri occhi, dal nostro cuore, dalla nostra anima, mediante l’ascolto continuo del divino che è in noi.  Amen.