giovedì 26 ottobre 2023

29 Ottobre 2023 – XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 22, 34-40
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Dopo aver fatto continue brutte figure con Gesù, i farisei per metterlo alla prova scelgono questa volta una persona competente, il meglio del meglio, nientemeno che un "dottore della Legge". E questi lo affronta subito impostando il discorso sulla “sua” materia. Da notare che il verbo “metterlo alla prova” usato qui da Matteo, è quello stesso peirazo usato per descrivere le “tentazioni” di satana: in pratica l’evangelista paragona il comportamento dei sacerdoti del tempio, degli scribi, dei farisei, sempre pronti a tentare, a mettere alla prova Gesù, come opera di satana: un particolare che dovrebbe farci riflettere! 
Ma cosa gli chiede dunque questo dottore, questo esperto legale? “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”.
Anche questa volta è la solita domanda provocatoria del “Pierino” di turno. Al tempo di Gesù erano 613 i precetti della Torah ebraica: 365 negativi e 248 positivi. Stabilire quale fosse il più importante era praticamente impossibile, poiché per la tradizione rabbinica tutti, indistintamente, erano importanti e obbligatori. 
Del resto, già da come si pone, lascia subito intendere il suo reale proposito: l’appellativo di “maestro” con cui si rivolge a Gesù, infatti, è pronunciato in maniera chiaramente provocatoria: non solo non ha alcuna intenzione di approfondire le sue conoscenze (lui non ha nulla da imparare, sa già tutto!) ma cerca piuttosto un pretesto per metterlo in difficoltà davanti al suo pubblico; vuole cioè cogliere in fallo Gesù per offrire alle autorità l’opportunità di condannarlo: e quale argomento è più indicato se non quello di indagare su cosa Gesù pensi dei comandamenti e della legge? 
La verità non gli interessa; e non è neppure curioso di conoscere realmente il pensiero di Gesù; vuole semplicemente sfruttare l’occasione per avere la conferma di cosa egli pensasse in merito ad una questione fondamentale e delicata: il valore cioè dei comandamenti della Legge, visto che nella sua predicazione Egli non solo ne prende le distanze ma arriva pure a trasgredirli. Egli in pratica definisce “vecchi, sorpassati, incompleti” proprio quei comandamenti che tutti ritenevano validi, e che tutti si sentivano obbligati ad osservare. Una “interpretazione”, quella di Gesù, che inquietava seriamente le autorità religiose; per cui la sua risposta serviva soltanto come riprova della sua ortodossia, oppure come motivo di denuncia ufficiale. 
Ma Gesù sa perfettamente cosa vorrebbero sentirsi dire le autorità tramite il suo interlocutore: “Il più grande comandamento? Ma è ovvio, è l’osservanza del sabato!”. Sì, perché il rispetto del “sabato” era il comandamento più grande, più considerato dagli ebrei; Dio stesso lo aveva rispettato, consacrandolo col riposo dopo le fatiche della creazione. La sua osservanza equivaleva all’adempimento di tutta la legge, e la sua disobbedienza era punita con la morte (Es 31,14).
Sappiamo però che per Gesù questo comandamento non è per nulla importante, non è affatto prioritario, tant’è che non ne tiene conto, non gli interessa: se deve fare qualcosa di importante, come per esempio guarire un ammalato, lo fa tranquillamente anche di sabato, perché per lui l’amore è molto più importante della legge.
È comunque una domanda ben congegnata, perché se Gesù avesse dato la risposta che tutti si aspettavano, (“la legge del sabato”), il dottore della legge gli avrebbe immediatamente contestato il suo comportamento: “È giusto, maestro: ma perché tu non lo rispetti?”. Se invece avesse risposto diversamente, avrebbe fatto la figura dell’ignorante, di uno che non conosce la legge, e questo sarebbe stato altrettanto deleterio per Gesù.
Il dottore dimostra in questo modo di essere un esperto, un vero conoscitore delle dispute legali: ma Gesù dimostra di non essere da meno, e gli risponde a tono citando anche lui la Scrittura, dimostrando di conoscerla altrettanto bene: gli fa capire cioè che il testo non va interpretato sulla base di una singola citazione letterale, ma attraverso una visione d’insieme, una lettura completa dei testi: e gli cita infatti un altro comandamento – altrettanto “grande”, anzi sicuramente il “primo”, il più importante – riferito cioè a quella “preghiera” che gli ebrei recitano due volte al giorno, al loro “Credo” ufficiale (Dt 6,4-9): “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutto il tuo essere e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti”. E fin qui tutto bene: il dottore non può che essere d’accordo. “Amare Dio”, in fin dei conti, non è difficile, è un fatto interiore che non si può misurare dall’esterno, e che quindi nessuno può conoscere né giudicare: questa volta le autorità sono salve, Gesù non le condanna! Ma il problema nasce subito dopo, con quel che segue: “E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18)”. Anche questo è scritto nella Bibbia, ma è evidente a tutti che le autorità non lo tengono per nulla in conto.
A rigor di logica, Gesù non dice nulla di nuovo. Ma in realtà, per come andavano allora le cose, introduce una grande novità: condiziona cioè l’amore per Dio all’amore per il prossimo: crea un legame indissolubilmente tra i due amori. Come dire: “Amare Dio senza amare veramente le persone, non serve a nulla, non è un vero amore per Dio. Pertanto, quello che voi ripetete ogni giorno nella vostra preghiera, mettetelo anche voi in pratica, come faccio io!”.
Che dire? È chiaro che a questo punto il dottore si trova spiazzato: non ha parole, non immaginava che il discorso prendesse una simile piega, è sorpreso, ammutolisce: “Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno da quel giorno in poi, osò interrogarlo” (Mt 22,46).
Una bella lezione: del resto Gesù non cita chissà quale teoria, ma risponde attenendosi scrupolosamente a quanto già prescritto dalla legge ebraica. E poiché si rivolge ad un ebreo, oltretutto ottimo conoscitore delle Scritture, il succo è questo: “La legge ce l’avete e la conoscete: mettetela in pratica!”.
Ma non è tutto qui: il “novum” introdotto da Cristo nella legge antica dell’amore è a dir poco rivoluzionario. Per tre motivi: prima di tutto per il nuovo concetto di “prossimo”: per un ebreo il prossimo era un altro ebreo o al massimo uno che abitava in Palestina; per Gesù, invece, “prossimo” è l’intera umanità; inoltre, altra novità, dobbiamo amare questo prossimo “come noi stessi”: ma attenzione, perché se ci fermassimo a queste sole parole, il nostro amore non sarebbe comunque perfetto: per logica, infatti, se io mi amassi poco o nulla, amerei poco o nulla anche il mio prossimo. Ebbene: Gesù annulla questo aspetto riduttivo, e riconosce alla legge dell’amore una valenza divina, universale: in altre parole, ama il prossimo tuo “non” come tu ami te stesso, ma come Dio ama te, “come Io vi ho amati”. Una nuova e straordinaria prospettiva si apre quindi davanti a noi: il termine di riferimento dell’amore al prossimo non sarà più quello riduttivo, il “nostro”, ma quello di Dio, universale, straordinario, senza limiti.
Per Gesù amare l’uomo equivale amare Dio, e amare Dio equivale amare l’uomo. Risultato: l’amore per Dio non lo si misura da quanto uno è pio o religioso, da quante preghiere dice: ma da quanto amore nutre per i suoi fratelli. Il vero credente non è colui che esegue alla lettera le prescrizioni religiose, ma colui che vive realmente l’amore, colui che compie ogni sua azione elargendo amore.
Un’attenta lettura di questo vangelo ci offre poi altre considerazioni su cui meditare.
Prima di tutto, ci siamo mai chiesto cosa significhi la parola “amore”? Etimologicamente deriva dal latino “a-mors” (“a” privativo e “mors”, morte) che letteralmente vuol dire “togliere la morte a qualcuno”, “dare la vita”; per cui “amare” significa “rendere vivo”, vitale, colui che amiamo. Gesù vedeva intorno a sé soprattutto persone che soffrivano: persone colpite da gravi malattie, come ciechi, sordi, paralitici, lebbrosi, o addirittura persone morte. Egli le “amava”: il suo amore le guariva, le toglieva dalla morte, reale o simbolica, rimettendole in contatto con la vita. Egli dispensava amore a piene mani, e lo faceva (altro insegnamento fondamentale per noi) non per avere un “ritorno”, una ricompensa, un riconoscimento: neppure in termini di fama, perché chiedeva sempre a tutti di non divulgare la cosa, di non parlarne con nessuno; non lo faceva neppure per proselitismo: non diceva: “Ti guarisco ma tu devi credere in Dio; tu devi venire in chiesa; tu devi obbedirmi; tu mi devi...”. Lui vedeva semplicemente uno che soffriva, e con il suo “amore” lo liberava dalla sofferenza, dal disagio.
Questo è l’amore di Gesù, e questo deve essere anche il nostro amore: chi ama rende vivo l’altro; chi ama vuole il meglio per l’altro, anche se ciò ci costa fatica e sacrificio; perché ciò che è meglio per l’altro, non sempre coincide con quello che è meglio per noi.
Altra considerazione: in passato per l’ascetica cristiana amare il prossimo “come noi stessi” comportava un far passare in second’ordine l’amore per sé stessi, per la propria persona; significava riconoscere all’amore per l’altro la priorità assoluta: in questo modo amare se stessi, “amarsi”, era ritenuto una “debolezza umana”, un peccato; equivaleva ad essere egoisti, narcisisti. La via maestra per la santificazione personale passava quindi attraverso il sacrificarsi, l’immolarsi completamente per gli altri; tant’è che a quanti volevano intraprendere un cammino cristiano più impegnativo, venivano continuamente ricordate le parole: “Se uno non rinnega sé stesso e non prende la sua croce...”: era un cammino di vita che “doveva” essere impostato solo sul sacrificio, sulla penitenza, sulla spersonalizzazione, sulla tolleranza, sulla totale dedizione per gli altri. Oggi questa lettura del vangelo è stata profondamente rivista: nessuno si permette più di affermare che Dio accetta al suo servizio soltanto gli infelici, i frustrati, i pieni di sventure: perché non è così!
Ma allora come dobbiamo amare noi stessi? Esattamente come amiamo gli altri. “Amarci” infatti significa volere il nostro bene, renderci vivi, vivere da vivi; significa lottare per ciò che è bene per noi, fare in modo che la nostra persona sia retta, rispettabile e rispettata. Gli altri ci evitano, ci ignorano, ci escludono? Invece di continuare ad arrabbiarci, amiamoci! “Amarci” vuol dire migliorare il nostro carattere, la nostra personalità; significa trasformarci, diventare amabili, accettabili, ricercati; significa essere più aperti con gli altri, più elastici, meno saccenti, meno giudicanti, meno pretenziosi; in una parola “amarci” significa diventare migliori.
Pretendere dagli altri ciò che noi non sappiamo o non vogliamo fare per noi stessi, è autentico parassitismo.
Infine un’ultima considerazione: il nostro amore deve essere “pieno”: dobbiamo cioè “amare in pienezza”. Il vangelo parla di amare “con tutto il cuore, l’anima e la mente”. Altrove aggiunge “con tutte le forze (Lc 10,27), cioè con la concretezza, con le azioni. L’amore, per essere vero amore, deve interessare tutte le nostre facoltà, tutte le nostre possibilità, l’intera nostra persona, a tutti i livelli: altrimenti non è amore. Infatti: amare solo con mente e forze senza cuore, è volontarismo, è azione, è amore freddo, senza passione, manca il sentimento. Amare con mente e cuore senza le forze, ossia le opere, è sentimentalismo, non c’è azione. Amare con cuore e forze senza mente, è istintivo, irrazionale, non c’è il pensiero, non c’è consapevolezza, non c’è lucidità. Soltanto quando l’amore è mosso dall’intera nostra persona, da tutto di noi: mente, cuore e forze, solo allora è pieno, completo, perfetto. Solo in questo modo “ameremo” veramente il prossimo; lo ameremo come Gesù ci ha insegnato, esattamente come Lui stesso ci ha amati e continua ad amarci: senza condizioni, senza tornaconti, senza pretese. Amen.

  

giovedì 19 ottobre 2023

22 Ottobre 2023 – XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
22, 15-21 
In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

 Possiamo definire la scena organizzata dai farisei nei confronti di Gesù con alcune incisive immagini: una riunione tra incapaci, un accordo subdolo e scellerato, un intervento di falsi discepoli, una richiesta untuosa e melliflua, una proposta trabocchetto per Gesù. 
È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù, proprio perché erano proprio i personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, che si approfittavano apertamente della loro posizione per compiere i loro loschi affari. Questa élite, più volte pubblicamente redarguita da Gesù, da lui indicata come meno degna dei pubblicani e delle prostitute, lo considera ormai un nemico da combattere in ogni modo: per quella gente Egli è un uomo pericoloso, uno che deve essere fermato ad ogni costo, poiché oltre a non rispettare le istituzioni religiose, arriva a discreditarle apertamente! A questo punto, si riuniscono per decidere sul da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”.
Ormai è guerra aperta, e riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di realizzare i loro progetti perversi, si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Gesù è il nemico comune e, come dice il proverbio, “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!
Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con delle lodi chiaramente costruite, false, esagerate: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Ma Gesù non si scompone, li conosce molto bene, e con calma si rivolge loro: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?” Anzi li paragona apertamente a satana, il tentatore: Matteo infatti utilizza qui lo stesso verbo “tentare” (peiràzo) usato nel racconto delle tentazioni (4,1).
Finiti i convenevoli, il gruppetto scopre immediatamente le carte: vogliono che Gesù si esprima apertamente su un argomento spinoso, controverso: “Dì a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente equivale a dire: “Devi dirci, qui davanti a tutti, ciò che pensi degli invasori romani”. La trappola è ben congegnata: qualunque risposta egli darà, gli si ritorcerà contro; dicendo “sì”, si dichiarerebbe favorevole al pagamento delle tasse e quindi, riconoscendo l’invasore come “il signore” del popolo, incorrerebbe nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); dicendo invece “no”, si metterebbe automaticamente contro l’autorità romana, scegliendo da solo la propria morte, veloce e sicura.
Vista la situazione, Gesù la capovolge immediatamente. E lo fa magistralmente, ignorando la loro provocazione e spostando i termini del discorso su un altro piano: “Mostratemi la moneta del tributo”.
Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio del “divino” imperatore.
Gliela mostrano e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Cosa significa? Prima di tutto che le tasse vanno pagate, certo: le monete di Cesare vanno restituite al loro padrone. Ma la risposta continua: “Rendete a Dio quello che è di Dio”.
I doveri quindi sono due: uno nei confronti dello Stato, del potere politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio.
Gesù non perde occasione per richiamare all’ordine i suoi nemici. In altre parole, con un tono piuttosto irritato, esclama: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, che vi ritenete i depositari dell’alleanza con Dio, voi che siete la classe dirigente del sacro, che vivete all’ombra del tempio, restituite a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che ha temporaneamente affidato alla vostra guida. Voi invece cercate di impadronirvi di esso, di indurlo in errore con regole false, con le vostre ideologie; cercate di attirarlo a voi, predicando un Dio, che non è il vero Dio; subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti, e questo è un terribile oltraggio nei suoi confronti: il popolo è suo; vostro unico dovere è di ricondurlo a Lui”. Parole crude che, come tutto il Vangelo, sono sempre di grande attualità.
Il racconto ci offre infatti due spunti di meditazione, uno sulla domanda e l’altro sulla risposta di Gesù. Vediamoli nel particolare.
Primo spunto, la domanda: “Di chi è quest’immagine?”. L’immagine incisa sulla moneta rappresenta la persona che l’ha fatta coniare, stabilisce quindi chi ne è il proprietario: quella di Cesare decreta che la moneta viene da lui, gli appartiene e a lui deve tornare.
Un discorso ovvio, che implica dei chiari riferimenti pratici: sappiamo infatti che l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,26): noi quindi apparteniamo a Lui, siamo sua proprietà, a Lui dobbiamo tornare! Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra indelebile dipendenza da Dio, significa tradire la vita che lui ci ha donato, significa vivere una non vita, cadere in un falso vivere, in una finzione esistenziale: per cui qualunque nostro legame ad altre realtà che non siano Dio, qualunque attaccamento a persone, a cose, al mondo intero, svilirebbe, deturperebbe la nostra somiglianza divina, ci renderebbe schiavi, dipendenti e prigionieri: non saremmo mai più completamente liberi come prima.
Ci capita mai, guardando il cielo stellato, ammirando la meraviglia di tutti quei punti luminosi, di pensare che è da lì che noi veniamo, di sentirci “parte” di tutte quelle luci, di provare una certa nostalgia di casa, una nostalgia di cose grandi, immense? Ci capita mai, in certi giorni, di veder riflettere il sole, la luce, nel volto e negli occhi delle persone amate? Ci succede mai di essere pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, è in quei momenti che possiamo sentire chiaramente il vero motivo per cui siamo nati, da dove veniamo, a chi apparteniamo, chi è il nostro vero padre (Dio l’Altissimo).
Altra considerazione: Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare, ciò che appartiene allo Stato”: è quindi nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se noi ci arricchiamo e gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere.
Ma la risposta di Gesù si presta ancora ad altre considerazioni: non basta restituire il dovuto a Cesare, non basta riconsegnare la nostra anima a Dio; c’è un altro dono essenziale, di proprietà divina, che Dio concede in uso all’uomo, e che gli deve essere restituito: la vita! Ogni giorno, infatti, Dio ci offre gratuitamente la meravigliosa possibilità di poter dire: “Sono vivo!”.
Purtroppo la vita per molti è un fatto scontato: non l’apprezzano, non sanno che farsene del tempo, delle giornate, mesi, anni che hanno a loro disposizione; continuano a lamentarsi con Dio per qualunque banalità, piuttosto che ringraziarlo umilmente per questo suo incalcolabile dono.
La vita è invece un dono che va custodito, onorato, amato: non ci è “dovuta”, non ci appartiene, un giorno dovremo riconsegnarla nelle mani di Colui che ne è il padrone assoluto. Finita la vita presente, non ne abbiamo un’altra di scorta con cui poter rimediare al tempo sprecato in questa: quello che non facciamo oggi non potremo farlo mai più.
Viviamola allora seriamente questa nostra vita, viviamola con intensità, pienamente: abbiamo solo questa per amare, agire, provare, sentire, per realizzare i nostri ideali, per diventare insomma ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere pienamente. Rimaniamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ascoltiamo ciò che il nostro corpo ci grida: “Voglio vivere: voglio sentire la fragranza dei prati, della natura in fiore, il profumo del mare; voglio provare la gustosità del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi per i miei progressi, correre, ridere spensieratamente, svagarmi, accarezzare, abbracciare, amare; voglio piangere quando sto male, condividere il dolore degli altri, commuovermi per la loro gioia; voglio inseguire i miei sogni, lottare per un mondo migliore e sentire che il tempo che mi è stato concesso non sta fuggendo invano, ma ha un senso profondo e meraviglioso per me e per il mondo intero. Sì, voglio vivere!”.
Se arriveremo a tanto, quando moriremo saremo in grado di restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: ci troveremo ancora, cioè, nel pieno della vita. A Dio che ce l’ha consegnata, riconsegneremo allora una vita palpitante, con tutto il suo entusiasmo, con tutto il suo fascino: certamente non nella immobilità mortale dei rinunciatari, dei falliti, di quanti si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
Certo, l’uomo è un essere molto particolare: si lamenta, impreca, quando le cose belle finiscono; ma non sa ringraziare, non sa viverle adeguatamente quando sono nella sua disponibilità; non capisce che all’amore si risponde con amore: che per amore ha ricevuto la sua vita, e con amore deve restituirla al suo proprietario. Amen.

 

 

giovedì 12 ottobre 2023

15 Ottobre 2023 – XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 22, 1-14 
In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

La parabola di oggi paragona il Regno di Dio ad un banchetto nuziale: un’immagine molto accattivante, molto conosciuta e comprensibile a tutti. Quale occasione infatti è più aggregante e gioiosa per parenti e amici di un matrimonio da favola, con un sontuoso pranzo di nozze? 
Le nozze celebrano l’unione di due persone, sanciscono l’amore, la comunione di due cuori; sono l’apertura di una finestra sul mondo della speranza, della novità di vita, della intensità di sentimenti.
Non a caso i contemplativi parlano di nozze dell’anima con Dio, per indicare l’incontro intimo, il matrimonio celestiale, l’unione mistica dell’anima col suo Sposo divino.
Ai nostri giorni, essere invitati al matrimonio di una personalità molto importante, è una circostanza impegnativa, di grande rilievo, molto ambita e apprezzata, un segno di particolare stima, di amicizia, di considerazione.
Lo era anche ai tempi di Gesù: le nozze erano considerate un evento importantissimo, duravano una settimana, il banchetto era fornitissimo, straricco, e per chi riusciva a malapena a mangiare una volta al giorno, era un’occasione imperdibile; il non andarci era impensabile, perché rifiutare l’invito significava, sì, perdere un lauto pranzo gratuito, ma soprattutto offendere gravemente gli sposi: era un affronto, cui spesso potevano seguire spiacevoli conseguenze. Tant’è che il re della parabola, indispettito per il rifiuto degli invitati, non capacitandosi di tanta stupidità, manda per ripicca i suoi servi nelle piazze, nei crocicchi, per le strade, per invitare a nozze chiunque incontrino.
Cosa vuol dirci Gesù con questa parabola? Il significato più semplice, quello evidente, è che tutti, uomini e donne, vecchi e bambini, saremo un giorno invitati all’eterno banchetto celeste: ripeto, tutti! anche quelli più umili, quelli più poveri (gli straccioni), quelli, in una parola, che sono considerati il rifiuto della società. Tutti prima o poi verranno chiamati alla presenza di Dio e per tutti, indistintamente, varrà un’unica condizione: indossare la veste nuziale, la veste della “grazia di Dio, nuova, immacolata, o quantomeno lavata e stirata dal Sacramento della Penitenza e dalle “opere buone”.
Ma non basta: questa parabola ci offre, per l’immediato, anche un’altra interessante spiegazione: quel banchetto nuziale, cui tutti siamo invitati a partecipare, si tiene nell’anima di ciascuno: Dio, che la inabita, invita tutti ugualmente ad entrare in quella loro personalissima esperienza di amore, di felicità, di intimità con cui il Figlio celebra le sue nozze col nostro cuore, con la nostra anima.
Entrarvi, significa entrare nell’intimità con Dio, rapportarsi con Lui nel silenzio della nostra coscienza per dare un senso alla nostra vita.
Quando il cuore e l’anima dell’uomo entrano in simbiosi con Dio, l’unione mistica che si instaura tra di loro, non è altro che una pallida anticipazione dello stato di perenne beatitudine che proveremo nel banchetto paradisiaco.
Gesù pertanto ci invita insistentemente a “partecipare” a questo banchetto, a saziarci di Lui, a “vivere” la nostra anima, e questo fin da subito, immediatamente.
Viviamola allora questa nostra anima così dimenticata! Viviamola intensamente, non abbandoniamola, non ignoriamola, non oltraggiamola. Se oggi la gente è depressa, esaurita, non ha più voglia di vivere, è perché ha dimenticato di avere un’anima, ha dimenticato completamente di rifugiarsi in essa, di trovare in essa la soluzione di tanti problemi, instaurando un colloquio intimo, umile, sincero, con lo Spirito di Gesù, che l’ha scelta a sua stabile dimora.
Un quarto degli italiani prende farmaci contro l’ansia e la depressione: c’è chi li prende per dormire, chi per alzarsi la mattina, chi per non deprimersi, chi per controllare l’aggressività, chi per sopportare le contrarietà della vita. In una parola, cercano di trovare la forza necessaria per “sopportare” la vita. Ciò che dovrebbe essere fonte di felicità, è diventato un peso da sopportare: perché tutto appare vuoto, inutile, tutto è vertiginosamente proiettato all’esterno; l’introspezione, la meditazione, la riflessione, sono categorie sconosciute all’uomo moderno, sono “out”. Oggi la persona è continuamente proiettata all’estremo: attività estreme, sport estremi, viaggi estremi, esperienze estreme, vacanze estreme, sesso estremo. Il vivere “ordinario” non offre più nulla, non emoziona più, non ha più stimoli apprezzabili.
Solo che nessuno si accorge che dopo lo “sballo estremo”, segue il collasso interiore, la depressione, la disperazione: guardandoci alle spalle, ci rendiamo conto di aver ignorato e calpestato i limiti di un sano equilibrio, di aver sperperato ogni possibilità di ascoltarci nel profondo, di seguire quei suggerimenti che Dio, pazientemente, continua ad inviare al nostro cuore, all’anima, alla mente. Abbiamo, in poche parole, soffocato stoltamente la nostra anima.
Ma cosa vuole esattamente da noi quest’anima? Semplice. Vuole la nostra salvezza, il nostro star bene, il nostro andare incontro a Dio, lo Sposo; l’anima vuole il meglio per noi, per la nostra vita spirituale, vuole farci capire i veri motivi per cui valga la pena di vivere.
Ci siamo mai chiesto “perché” viviamo? Quale sia lo “scopo” ultimo della vita? Proviamo a chiederlo alle persone che ci stanno intorno, a quelle che incontriamo: “Perché vivi?”; vi assicuro che le risposte saranno tutte di una banalità spiazzante, perché nessuno conosce più la ragione per cui vive: la vera, l’unica, profonda, trascendente ragione, per cui merita veramente vivere: c’è chi vive per il lavoro, chi per il denaro, chi per fare carriera, chi per i figli, chi perché “questa è la vita che fanno tutti”! Nessuno si sognerebbe più di rispondere: “Per amare e servire Dio fedelmente”. 
Ma se ignoriamo questo motivo fondamentale, vuol dire che alla nostra vita manca autenticità, vuol dire che tiriamo a campare, trascinando i giorni, senza alcun mordente; vuol dire che siamo pronti a cogliere al volo qualunque occasione, anche quelle più astruse e inconcludenti, pur di dare una parvenza di senso alla nostra vita.
Non penso di esagerare: è sufficiente guardare le “moderne” trasmissioni televisione: un concentrato di nullità, che ogni giorno esibisce una folla di deficienti (nel senso che hanno un deficit di anima) orgogliosi di fare sfoggio della loro preoccupante insipienza; gente che si cimenta in comparsate insulse, che paga un prezzo esoso in termini di dignità, pur di “esserci”, di essere ammirati, notati, imitati: già, l’etichetta che oggi tutti i nullafacenti di professione ambiscono è “influencer”! Persone purtroppo che pur di raggiungere un soffio di notorietà, ancorché beota e insignificante, svendono la loro anima accettando qualunque compromesso.
Ma cos’è che fondamentalmente manca a questa società? Manca la percezione della presenza di Dio, manca l’ascolto dell’anima. Non la sentono più, non sanno neppure cosa sia. Non è un caso che oggi tantissima gente, giovani e meno giovani, amino così tanto le discoteche: quelle sale in cui una musica collassante stordisce, inebetisce, copre e annienta tutto: con migliaia di watt sparati nelle orecchie, in uno stato confusionale e catatonico per alcool e droga, non c’è discorso, non c’è emozione, non c’è ispirazione dell’anima che tenga: si immergono tragicamente nel loro nulla. Salvo poi apprendere dai telegiornali i tragici risultati di tale alienazione.
È una difficile e drammatica situazione: ma l’invito di partecipare alle nozze in casa del “Re” vale anche per loro, per tutti questi “storpi”, “zoppi”, “ciechi”; ma la loro veste nuziale? Ecco: spetta a tutti noi cristiani il compito di aiutare questi nostri fratelli nella ricerca di una loro veste nuziale, decorosa e appropriata: con il buon esempio, con l’umiltà, con la carità, con tutta la nostra buona volontà: proprio perché, in cuor nostro, sappiamo bene di non essere dei santi, di non essere più meritevoli di loro. Troppe volte infatti anche noi ci “perdiamo” per strada, viviamo da “frastornati”, in sbandamenti spiritualmente preoccupanti; capita purtroppo anche a noi di buttarci allo sbaraglio, di “fuggire” dalla “prigione” della nostra anima.
Dobbiamo fermarci! Tiriamo i freni, usciamo dall’autostrada invitante e comoda di questo mondo provvisorio, e imbocchiamo a piedi quel sentiero solitario e silenzioso che porta al nostro cuore: e ascoltiamoci! Facciamolo, perché il vero coraggio, quello autentico, non sta nel combattere contro i mulini a vento, contro un mondo vanesio e insignificante, ma nell’ascoltare la propria anima, nell’obbedire alla propria coscienza, al proprio cuore.
Oggi purtroppo, anche tra i cristiani, sono veramente pochi quelli che conoscono il piacere che viene dall’anima. Tutti cercano il piacere, nessuno cerca l’anima. Ci accontentiamo dei surrogati di felicità: ci copriamo di “giocattoli” costosi (auto, gioielli, telefonini, vestiti, ecc); cerchiamo esperienze inebrianti ai limiti dell’assurdo, ci tuffiamo nel virtuale (internet) isolandoci dal reale; cerchiamo ogni tipo di piacere: del sesso, della tavola, della gloria, della notorietà.
Purtroppo però, in profondità, la nostra anima urla per la mancanza di qualcosa che le dia “vita”. Sente e soffre per l’assenza di ciò che nessuno può comprare, che nessuno può regalare, se non Dio stesso: il soffio Vitale, la carezza dello Spirito.
E allora pensiamoci: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. Già, a che serve?! Amen.

 


giovedì 5 ottobre 2023

08 Ottobre 2023 – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
21, 33-43 
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». 

Per la terza domenica consecutiva il Vangelo ci ripropone il tema della vigna del Signore. Prima abbiamo visto la parabola degli operai dell'ultima ora e del padrone buono, poi quella del comportamento contraddittorio dei due figli all’invito di andare a lavorare; oggi abbiamo quella degli affittuari assassini che vogliono impossessarsi della vigna in cui lavorano e finiscono per uccidere, oltre agli incaricati alla riscossione, anche il figlio del padrone.
Da notare che nelle tre parabole il comportamento dei vari “padroni” è sempre stato improntato alla bontà, alla pazienza, alla massima comprensione. Il padrone di oggi, poi, va addirittura oltre ogni aspettativa, rasenta addirittura l’assurdo; il suo è un amore puntiglioso e illogico: nonostante i suoi inviati vengano sistematicamente bastonati, lapidati, uccisi, lui continua sempre a provarci, cerca di dare ai vignaioli assassini nuove opportunità di ravvedimento. Alla fine, in un estremo tentativo di riscatto, arriva a mandare il proprio unico figlio. Ma anche questi subisce la stessa barbarie, e viene ucciso.
L’allusione è chiarissima: questo vangelo è la sintesi di secoli di storia del popolo eletto. C’è stato un amore iniziale seguito poi dal rifiuto. I servitori sono i profeti che, lungo il corso della storia di Israele, Dio ha mandato nella sua “vigna” per richiamare il popolo, perché si accorgesse di essere sulla strada sbagliata; ma Israele non si è ravveduto, non ne ha voluto sapere. Alla fine Dio ha inviato anche suo Figlio, e di fronte alla sua crocifissione e morte, ha trasferito altrove il suo Regno, fondandone uno nuovo con altri popoli. È il primo grande esempio, ma la storia ci insegna che è sempre stato così: Dio si ferma dove viene accolto, fa l'impossibile per farsi amare: se ciò non avviene, in punta di piedi se ne va.
La vigna è il segno dell’amore infinito di Dio, è la proposta di felicità completa, di vita piena. Se questa proposta non viene accettata, Egli si rivolge automaticamente ad altri popoli, ad altri contadini: un fenomeno che puntualmente si è ripetuto lungo i secoli: quando la fede di un popolo si sclerotizza, si fossilizza, non si rinnova, quando quella fede muore, la Vigna di Dio, il Regno dei cristiani, degli innamorati di Cristo, si trasferisce altrove.
Questo dovrebbe preoccuparci seriamente, perché anche da noi la fede sta purtroppo perdendo il suo smalto, la sua spiritualità, il suo entusiasmo, la sua vitalità; di questo passo, tra breve, non ci sarà più traccia di quel cristianesimo profondamente vissuto e amato dai nostri padri. 
È una parabola tragica quella di oggi: una parabola che dovrebbe veramente farci riflettere, perché è la storia di Dio e dell’umanità: è la nostra storia, è la storia delle nostre incomprensioni; è la storia del dolore di un Padre per le nostre infedeltà, di quel dolore di Dio, che noi alimentiamo con i nostri continui rifiuti.
È la storia di questo nostro Dio sconsiderato, che continua a insistere, a ripetersi; la storia infinita di una Padre che continua a mettere a repentaglio la vita di suo Figlio, inviandocelo vivo ogni giorno nell’Eucaristia, pensando di suscitare in noi, con tale  sovrumana e impensabile prova d’amore, rispetto, adesione, cambiamenti che al contrario da noi non arrivano! Come i vignaioli perversi, noi continuiamo a rifiutarlo.
Ma perché? Forse Dio non è abbastanza buono con noi? Non dimostra di amarci abbastanza? Ci sentiamo ingannati? No, al contrario! Perché Egli ci guarisce sul serio, ci fa risorgere, ci sfama, ci perdona, ci illumina, ci fa sentire insomma perdutamente amati. Ma allora perché lo rifiutiamo? Cosa dovrebbe fare più di quanto ha fatto e continua a fare? Cosa dovrebbe promettere più di quanto ha già concretamente promesso? Cosa dovrebbe ancora dimostrarci, per essere accettato, amato, accolto nel nostro cuore? Assolutamente nulla! 
Abbiamo avuto e sentito tutto, sappiamo tutto; tutta questa sua “grazia”, incessante e continua, dovrebbe bastarci, come scriveva Paolo ai Corinzi (2Cor 12,9): solo che purtroppo, nella nostra “infermità”, rimaniamo impenetrabili, non assorbiamo nulla: siamo fossilizzati, chiusi, insensibili. Non riusciamo a vedere in positivo; non vediamo le migliaia di gesti d’amore che i nostri fratelli ci fanno grazie a Lui; non vogliamo vedere la bontà di chi ci aiuta, di chi ci sostiene. Siamo occupati continuamente a rimarcare i loro difetti, le loro lacune, le loro debolezze, senza mai riuscire ad apprezzare il bene, la cortesia, la gentilezza, la premura, di cui essi ci circondano. 
A volte ce ne rendiamo conto soltanto quando qualcuno di essi viene a mancare. Soltanto quando perdiamo una persona vicina, finiamo per accorgerci di quanto fosse importante, di quanto ci amasse. Solo allora i nostri occhi, il nostro cuore, finalmente, si aprono: ma è ormai troppo tardi. Ma allora, perché non farlo prima? Perché rimanere talmente incentrati nel nostro ego da lasciare che anche un piccolo gesto negativo, un soffio appena indisponente, basti a distruggere migliaia di gesti d’amore? 
Siamo la copia esatta dei vignaioli: come loro, dimostriamo solo egoismo: vogliamo possedere, possedere, possedere tutto anche l’impossibile: ma la “vigna” non è nostra. Noi dobbiamo solo renderla fertile e fruttuosa: dobbiamo lavorarla, amarla, custodirla, senza poterla possedere. Non ci appartiene! La vigna è la nostra vita. Che non è nostra! Non ne siamo i padroni, non possiamo campare alcun diritto su di essa, prima o poi dovremo lasciarla, anche se in realtà ci comportiamo come se fossimo immortali.
Illusi! Non ci rendiamo conto che al massimo 
possiamo decidere come vivere, mai di vivere “per sempre”! Tutto è dono, tutto ci è gratuitamente affidato da Dio, nulla può essere preteso. Per questo dobbiamo fidarci di Lui, abbandonarci a Lui, alla Vita; tutti noi siamo nelle sue mani: esistiamo, siamo vivi, ma non siamo “nostri”! 
Quanta pazienza ha Dio con noi! Anche quando, come i vignaioli, avanziamo pretese assurde, quando cerchiamo di sovvertire l’ordine, quando non portiamo più frutto, ebbene: anche allora Dio non ci abbandona; anzi ci manda continui “messaggi”, degli avvertimenti importanti: “Stai attento perché le cose così non vanno!”. Ma noi molto spesso non ce ne curiamo, andiamo avanti per la nostra strada, ridiamo e facciamo finta di nulla. 
Già, siamo tutti concordi nel definire stupidi, cialtroni, assassini, quei lavoratori; ma noi? Forse che noi accettiamo con profitto i “messaggi” che Gesù ci manda? E non sono pochi, sono invece tanti e frequenti: così quando siamo insoddisfatti, quando siamo nervosi, irritabili, quando non proviamo più stupore, né gioia, quando non ci entusiasmiamo più per nulla; quando la vita cristiana è un peso, la Chiesa è un peso, la famiglia è un peso; ecco, sono tutti segnali della nostra anima che langue, che sta morendo. Sono messaggi importanti. Non illudiamoci attribuendoli al super lavoro, ad un periodo particolarmente critico, pensando che prima o poi tutto si sistemerà. Non è così,! I segnali che Dio ci manda, vanno ascoltati. Smettiamola di continuare a comportarci stupidamente da vignaioli omicidi. Amen.