“Gesù
entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di
nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma
non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura” (Lc
19,1-10).
Gesù sta
andando verso Gerusalemme. Gerico si trova ad una trentina di chilometri da
Gerusalemme, lungo una grande via di comunicazione. Proprio per la sua
posizione la città costituiva un punto strategico per l’amministrazione romana;
era quindi piuttosto facile imbattersi in funzionari imperiali, uomini dell’esercito
ed esattori delle tasse. Era una località molto frequentata e affollata.
Ed è qui
che Zaccheo incontra Gesù. O è Gesù che “incontra” Zaccheo?
Ma poi
chi è questo Zaccheo? È un pubblicano: i pubblicani erano quelli che avevano
avuto in esclusiva dai Romani l’appalto per la riscossione dei tributi, delle
tasse: un lavoro ingrato, maledetto e odiato dagli ebrei, dal quale però i
pubblicani traevano grossi guadagni personali.
Il
termine pubblicano era infatti sinonimo di “immorale”; dare del “pubblicano” a
qualcuno era come dargli del falso, del ladro, del traditore. E Zaccheo non
solo è un pubblicano ma è il capo dei pubblicani: è il più ladro dei ladri. E
tutti lo sanno! È insomma un poco di buono, un infedele, un venduto a Roma, un
collaborazionista, un peccatore. Uno che aveva accumulato ingenti ricchezze,
defraudando la povera gente.
Il nome
Zaccheo però vuol dire “giusto, puro”. Certo nessuno lo vedeva così; ma Gesù
sì. Anche se uno al di fuori sembra a tutti un poco di buono, un figlio di “buona
donna”, anche se sembra un pervertito o quant’altro, Dio vede la sua piccola
parte pura e giusta, la sua bontà, la sua “verginità”. Per Lui il valore e la
dignità di noi uomini, di sue creature, per quanto ci accada nella vita, non
viene mai meno.
Zaccheo
dunque “cerca di vedere”. Ora, “cercare di vedere” lascia intuire un desiderio:
c’è un’insoddisfazione dentro di lui, c’è un tormento, una inquietudine, una
irrequietezza; egli cerca di trovare qualcos’altro; quello che ha, per quanto
sia, non gli basta più. Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta, perché
la felicità non sta nelle cose ma nei valori morali. Le cose sono solo uno
strumento per raggiungere quei valori che danno piena serenità e appagamento.
Per
questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” qualcos’altro.
Per questo decide di fare qualcosa di diverso nella sua vita: abbandonerà il
banco delle imposte per andare a “vedere” Gesù. Ed è meraviglioso perché
Zaccheo, così facendo, dimostra di aver capito che solo Colui che vuole
incontrare può dargli pace e serenità.
Zaccheo
è piccolo: “piccolo” non tanto di statura, ma della percezione interiore che
egli ha di se stesso. Anche se in realtà è “più”, anche se è “superiore” agli
altri, egli si sente comunque “inferiore”, si sente incapace, completamente
privo di una ricchezza “diversa”, si sente come menomato. Il suo vero problema
è quello di sentirsi addosso tutto il peso della sua inferiorità spirituale.
Finora
cos’ha fatto? Poiché si sentiva il più piccolo (inconsciamente) ha voluto
diventare il più grande (capo dei pubblicani). Pensava che una volta diventato
il più ricco, il più potente, sarebbe stato anche il più ammirato, il più
amato: ma non è stato così!
Allora
reagisce ancora, e trova dentro di sé la forza per riscattarsi, per ribellarsi
da una situazione che ormai lo soffocava.
Mettiamoci
nei suoi panni: tutti lo conosco, tutti sanno chi è. È uno degli uomini più
famosi, più conosciuti, più temuti della città: e che fa? sale su di un
sicomoro, cosa molto poco elegante per uno come lui, e lo fa semplicemente per
veder passare un “predicatore”. Ci vuole coraggio! Sa che tutti lo vedranno (e
infatti tutti lo vedono), che lo derideranno, lo segneranno a dito, ma lui ha
il coraggio di farlo comunque, vincendo il timore di essere “chiacchierato”
dalla gente. Nella vita è necessario infatti vincere la paura del giudizio
degli altri per trovare la propria strada sicura.
E Gesù
che fa? Gesù non gli fa nessuna predica, non lo vuole convertire né cambiare.
Gesù
semplicemente lo chiama, per nome. Per tutti gli altri egli era “il capo dei
pubblicani”, “il ricco”, ma per Gesù è soltanto Zaccheo. Chiamare per nome una
persona vuol dire dargli dignità, dargli un volto. In pratica Gesù gli dice: “Io
credo in te Zaccheo; io vedo che in te c’è qualcosa di buono. Per gli altri sei
solo un farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti gli altri. E tutti
gli uomini, nella profondità del loro cuore, hanno sempre un angolo nascosto
con un po’ d’amore”. E gli fa una proposta, secca, veloce, efficace: “Scendi
subito” (Gesù è sempre diretto e lapidario, con chi gli chiede qualcosa: “alzati;
taci; esci; mettiti nel mezzo; vai dai sacerdoti; apriti; vieni fuori”; ecc..).
Per
guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono proprio quelle che non
vogliamo fare, e per questo serve un ordine preciso, perentorio. Zaccheo si crede
chissà chi, si atteggia “a sapientone” e normalmente si mette sul piedistallo
con tutti: “Smettila e scendi giù – gli dice Gesù - sei un uomo come tutti gli
altri”. E se non obbedirà, Zaccheo non potrà guarire; ciò che si deve fare, va
fatto. Punto. Altrimenti non si può proseguire.
Ma egli
ha già capito tutto: la sua vita non è vita; e per questo scende. Ha scelto
finalmente la via dell’amore.
Ma l’amore
è condivisione. L’amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare
il meglio di sé, che possano esprimersi, che possano fiorire, che possano
essere al massimo di sé. L’amore non è dare ma darsi. E
Zaccheo si dà, dando tutto ciò che ha.
Tutti possono amare, anche se non
hanno nulla o se sono poveri. Per l’amore basta avere un cuore. Ci si converte
all’amore non perché l’ha fatto qualche santo, o perché qualcuno ci dice che
bisogna fare così, che è importante. Ci si converte perché ci si rende conto
che continuare a vivere senza dare e ricevere amore, non è vivere, ma morire.
Dio ci cerca: è lui che prende l’iniziativa,
che ci ama senza giudicarci. Cerchiamo allora sul serio colui che ci cerca.
Smettiamola di giocare a rimpiattino con Dio, lasciamoci raggiungere!
Dio non ci ama per il fatto che
siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni.
Gesù non chiede: dona
continuamente, senza condizioni. Se Egli avesse detto: “Zaccheo, so che sei un
ladro: se restituisci il quadruplo di ciò che hai rubato, vengo a casa tua”,
credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull’albero!
Dio ci perdona prima ancora del
nostro pentimento: è il suo perdono che ci converte.
Ecco: chi vuole seguire Gesù si
faccia avanti, scenda dall’albero, si schieri. Non importa chi siamo veramente,
né quanta strada abbiamo fatto o che errori portiamo nel cuore. Non importa se
guardiamo il passaggio del Maestro per semplice curiosità. Non importa nulla;
perché una cosa è certa: oggi, ora, in questo istante, Lui vuole entrare in
casa nostra. Amen!
“Due
uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il
fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non
sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo
pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello
che possiedo” (Lc 18,9-14).
La
parabola di oggi ci propone due personaggi, un fariseo e un pubblicano; due
uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il
fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono:
fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano
all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità,
si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati
dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo
sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù?
Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a
tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra
come molto spesso siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad
essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi c'è
l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici degli occupanti Romani;
erano considerati dei traditori, dei collaborazionisti, e per questo erano cordialmente
odiati dagli ebrei.
Entrambi
questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale
si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella
preghiera, che i due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del
fariseo è lunga, piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al
contrario di quella del pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il
fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé” in silenzio. La cosa era normale
per un ebreo, ma Luca lo interpreta come un segno di superbia: in greco questa forma
verbale significa letteralmente “egli prega sé stesso”. Nella sua
preghiera egli ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla
comune gentaglia: la sua preghiera altro non è che un panegirico di sé stesso.
Dapprima mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto,
un disonesto, non è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi,
non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa:
digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge,
che limitava il digiuno a pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime,
cioè la decima parte del raccolto e di quanto possedeva che veniva devoluta al
tempio e ai poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua
preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla.
Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Il “pubblicano”,
invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Egli era la personificazione
della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i
miseri, i deboli; era coinvolto in traffici di denaro “sporco”. Faceva un
mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un
povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse
o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi
sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va
giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché? Scendiamo nei
particolari.
Il fariseo inizia molto bene la
preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione dell'uomo è infatti quella di
ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo
di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie per ogni cosa, faremmo della
nostra vita una “liturgia”, una preghiera continua, un'eucaristia. Poi però il
fariseo, nel mettersi a confronto con gli altri, sbaglia tutto, cade
completamente in basso.
Egli non risulta gradito a Dio
perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi dietro a quelle
poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con sé stesso, si mente,
si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare non sia vero, ma
perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella meno importante. Gli
ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche lui, come e forse
più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Purtroppo, c'è sempre qualcuno
che, pensando di essere perfetto, “scaglia per primo la pietra”; sempre! C'è
sempre qualcuno che, non vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a
causa del buio pesto che vi regna, si permette di giudicare gli altri, di
credersi qualcuno, di non essere come loro. Molte persone hanno rimosso così
bene qualunque imperfezione dalla loro coscienza, da sentirsi completamente
“puliti”, immacolati: ecco perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti
di essere ottimi cristiani; quando invece non sono che dei miseri farisei.
Nella sua preghiera il
pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la verità: “Abbi pietà di
me peccatore”. Questa è la realtà: e gli dispiace sinceramente. Per questo
chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per le sue
zone oscure, per le ferite, per il male procurato agli altri, per i suoi
peccati e per i suoi errori. Egli riconosce che la sua situazione è
compromessa, non mente a sé stesso, non si inganna. Sa di aver bisogno di Dio;
ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che
lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa”
della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che
è Dio. Per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e
pacificato.
Di
fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far
passare qualunque menzogna per verità; possiamo fingere sulla nostra
preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo
mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi
ci vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi
non valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra falsa “verità”,
nudi e spogli.
È dalla
“verità” che sgorga la preghiera vera: quella verità che, senza menzogne, senza
false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli altri vedono solo il nostro
contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere: vedono la nostra
scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in chiesa, fare carità,
fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma che brava persona!
Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma essi non possono vederci dentro,
noi lo sappiamo, per questo nascondiamo loro la cruda realtà, ciò che è
imperfetto, doloroso, negativo, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i
nostri lati oscuri. Riusciamo a nasconderli così bene anche a noi stessi, che
addirittura ce ne dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in
cantina, in soffitta. Non li vediamo più e quindi ci convinciamo che non esistano
più. Non li vediamo più e quindi pensiamo di essere migliori degli altri: più
bravi, più giusti, più umani, più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci
conosce dentro, alla perfezione. E Lui non possiamo ingannarlo.
Ecco perché
la preghiera non deve essere formale, esteriore; deve invece essere intima,
sincera, onesta, vera: pregare è aprire a Dio tutte le stanze della nostra
vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Lui spanda
la sua luce sui nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò
che grida, che urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci
ripugna anche solo ascoltarlo; su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su
tutto ciò che non vorremmo confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare;
su tutto ciò che ci nascondiamo per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò
che abbiamo nascosto in cantina a marcire ma che Lui vuole liberare e far
rifiorire. Perché Egli non teme nulla. Noi abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha
vinto il mondo. Lui non teme le nostre nefandezze e ci ama comunque, in tutto
il nostro squallore. Lui può andare ovunque noi ci rifiutiamo di andare:
“pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di
entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove
noi ci nascondiamo.
Dobbiamo
convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro
orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci
appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre
manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel
calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo
piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro
di noi.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà, dobbiamo distruggere le nostre illusioni, le
nostre convinzioni di perfezione, di essere bravi, virtuosi, impeccabili: solo
così potremo far spazio all’amore di Dio. Perché noi, a ben guardare la realtà,
assomigliamo un po' tutti al fariseo. Amen.
«Dio
non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di
lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia
prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla
terra?» (Lc 18,1-8).
La
parabola del vangelo di oggi ci presenta due personaggi: un giudice e una
vedova. Per la Bibbia, il compito dei giudici era quello di difendere i più
deboli: le vedove, appunto, i bambini e i poveri. Ma non è sempre così: in
realtà, la stessa Bibbia condanna più volte le ingiustizie commesse con la
complicità e l’appoggio degli stessi giudici (1Re 21,8-14; Am 5,10-33; Mic
3,1-2); come si vede, da che mondo è mondo, gli odierni problemi di
malcostume sono sempre esistiti!
Questo
giudice dunque non teme nessuno, se ne infischia altamente di quello che la
gente può pensare o dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli crei
sensi di colpa o che lo faccia ricredere sui suoi comportamenti. Fare il male,
per lui, non è mai un problema.
Di
contro c’è poi una vedova, una donna che appartiene alla categoria più debole
della società, sprovvista di autonomia e di protezione.
Ma questa volta è una
“tosta”, una che noi oggi definiremmo, più argutamente, una “rompiscatole”: infatti
ogni santo giorno, puntualmente, senza mai demordere, continua ad andare imperterrita
dal giudice per sollecitare il suo intervento: il verbo greco all’imperfetto,
ci sottolinea proprio la ripetitività costante di questa sua azione.
Il fatto
che si rivolga ad un solo giudice, e non ad una corte giudiziaria, ci fa capire
che il suo problema è di carattere amministrativo: vuol dire cioè che la
poveretta da troppo tempo sta aspettando di incassare del denaro che le è dovuto; e non disponendo di soldi per potersi “comprare” un magistrato, non
riesce ad ottenere giustizia.
È il
classico caso di pessima gestione della giustizia in cui un giudice
opportunista, disonesto, che pretende somme illecite per compiere il suo
dovere, si trova a dover risolvere il caso di una povera donna che, essendo in
miseria, non avrebbe mai potuto assicurargli l’incasso di una tangente extra.
Per cui rimanda continuamente il caso, lo accantona, e infine lo blocca in
attesa di tempi migliori; la donna non può fare nulla, il suo è un caso chiuso
in partenza, impossibile.
A prima
vista non le rimane altro da fare che arrendersi.
Quanti,
di fronte a situazioni, anche apparentemente critiche, si scoraggiano:
“Impossibile, non ce la farò mai!”. Ma noi non possiamo mai essere rinunciatari
a priori; dobbiamo provarci sempre e comunque; non dobbiamo correre il pericolo
di scambiare per “impossibile” un’impresa che magari è soltanto “difficile”.
C’è chi purtroppo
si rassegna, si adagia; preferisce fare la vittima.
Ma la
donna della parabola ci dice: “Fai come me. Provaci sul serio, non per finta;
non guardare alle difficoltà, abbi fede, fidati di te, delle tue forze e
soprattutto del fatto che Dio è sempre con te; devi lottare con tutto te
stesso”.
E allora
non fingiamo con noi stessi: proviamoci, insistiamo, con tutte le nostre forze,
usando tutte le tattiche possibili: tant’è che la strategia della donna di
“rompere le scatole”, anche se non del tutto ortodossa, alla fine si è
dimostrata vincente.
Il verbo
greco “hypopiazèin” (letteralmente “colpire sotto l’occhio, fare un
occhio nero) in senso figurato significa “seccare, importunare, colpire
qualcuno ripetutamente”. La vedova cioè diventa per il giudice un incubo
costante, un autentico fastidioso "colpo in faccia", una continua e
puntuale scocciatura. Una situazione insopportabile!
Non è
che noi dobbiamo essere proprio così (di rompiscatole ce ne sono già troppi in
giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se per noi è importante, vitale, dobbiamo
percorrere tutte le strade a nostra disposizione. Non fermiamoci al primo
tentativo; non sentiamoci incapaci e soprattutto non consideriamoci delle
vittime. Il messaggio della parabola è chiaro: “Insisti: sii ostinato,
caparbio, assillante; non arrenderti, non mollare, tieni duro”. Dobbiamo
insistere, non per il piacere di fare le teste matte, i testardi, i cocciuti
come i muli, ma perché crediamo fermamente in quello che facciamo, perché siamo
spinti da una fede solida, una fede incrollabile. Qualunque nostra lotta
tenace, forte, importante, deve avere come presupposto essenziale il nostro
credere, il nostro essere certi che Dio ci dà una mano, e che prima o poi la
soluzione si risolverà a nostro favore. Dobbiamo però fare attenzione: questo non
significa pretendere che Dio faccia ciò che vogliamo noi: sarebbe un delirio di
onnipotenza! Dobbiamo semplicemente non lasciare nulla di intentato: il che
vuol dire affidarci alla fede, percorrere quella strada nuova e sconosciuta che
essa ci suggerisce. Se ci accontentiamo delle solite strade che conosciamo, la
fede non serve: basta ripetere i passi che abbiamo sempre fatto; ma sappiamo
già che questa scelta non ci porterà a nulla.
La
situazione della vedova, come abbiamo visto, è dunque critica, sembra già una
causa persa in partenza. Ma lei possiede ciò che serve, ciò che è determinante,
ciò che fa la differenza: lei ha fede. Questa donna è sicura di una cosa: non
sa come, non sa quando, ma sa per certo che qualcosa cambierà: e agisce di
conseguenza. Se noi non abbiamo fede, se non crediamo che le cose possano
cambiare, non cambierà mai nulla. Questo è un assioma della vita. Ma se
crediamo che qualcosa cambierà e ci attiviamo per questo, stiamone certi che
accadrà. E anche questo è un assioma della vita. Sembra incredibile: ma ciò
succede non per logica, ma per la forza unica della fede. Virgilio esprime con
parole sue questa grande verità: “Possono, perché credono di potere” (Eneide).
Conclusione: se non crediamo in ciò che facciamo, non arriveremo mai a nulla.
Il
vangelo dunque ci stimola a combattere contro il male che ci insidia: “Tira
fuori la tua voce; lotta per la tua fede; se nel farlo, infastidisci, molesti
qualcuno, pazienza: non è possibile andare sempre bene a tutti; fatti sentire;
non arrenderti!”. In pratica ci invita a non accettare bavagli di alcun genere,
a non avallare imposizioni intollerabili.
Allora,
non uccidiamoci con le nostre mani, amiamoci: diamo
spazio, visibilità e forza alla nostra fede, ai nostri sani principi,
alla nostra morale cattolica; noi ci siamo, alziamo la voce, facciamoci
sentire! Comportiamoci soprattutto avendo sempre presente la voce di Gesù che
chiede a noi: “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora la fede
sulla terra?”.
Certo, durante il suo ministero
su questa terra, Gesù di interrogativi ne ha posti tanti; ma quello di oggi, ci
mette l’angoscia. Quello che trapela è un dubbio atroce per il domani, uno
sguardo carico di tristezza per un futuro lontano che purtroppo è già diventato
l’oggi.
Egli non si chiede: “Ci saranno
ancora associazioni e movimenti cattolici, la gente andrà ancora in Chiesa, a
Messa, farà ancora l’elemosina?” No, Gesù è angosciato perché vede che la sua
Chiesa, quella che Lui ha fondato con tanto amore, oggi ha perduto la fede:
vede che la preghiera è senza fede, vede che i Sacramenti sono vissuti senza
fede, vede che l’annuncio del Vangelo è proclamato senza fede.
Di fronte al disinteresse
religioso della società contemporanea, di fronte ad un mondo sempre più
ingiusto, sempre più crudele, sempre più materialista, sempre più nemico di
Dio, noi, suoi seguaci, ci siamo effettivamente demoralizzati, la nostra fede
ha vacillato, è venuta meno, siamo caduti anche noi nell’apatia. Credere con
assoluta coerenza oggi è diventata una rarità, è sempre più difficile: il
cristiano è debole, frastornato, insicuro, non coglie più indicazioni certe
neppure dai pastori, da quegli “Episcopoi”, ai quali Gesù ha affidato la guida
e la custodia del suo gregge. Oggi il dubbio attanaglia il cuore dei fedeli:
eventi come le guerre, le lotte per il potere, l’arricchimento personale
truffaldino, l’egoismo imperante, il dilagare di ideologie amorali, sono
diventate la “normalità”: Cristo stesso viene pubblicamente e impunemente
irriso con opere di pseudo “artisti” e scrittori, peraltro osannati da una
critica acefala. Tutto è messo in discussione, tutto è messo alla berlina,
tutto è negato, tutto è oltraggiato.
Dio aveva consegnato all’uomo un
mondo che poteva essere un capolavoro di misericordia, di fraternità, di amore.
Ma questi, con la sua presunzione, lo ha ridotto a un covo di ladri, di
malfattori, un accumulo di indifferenza, di ingiustizia, di malvagità.
Ebbene,
quello che ci dice il vangelo di oggi è che non possiamo più ignorare una
situazione tanto drammatica, non possiamo più avallare, in nome di un falso
“buonismo”, una situazione che sta vanificando definitivamente l’autentico
messaggio d’amore di Cristo.
La
volontà decisa dei buoni, la loro azione personale, umile ma perseverante, la
loro incessante preghiera, intrisa di fede vera, autentica, costante e
fiduciosa, può fare il miracolo: “Io vi dico che [Dio] farà loro giustizia
prontamente” afferma Gesù. Sarà Dio allora che interverrà a mettere le cose
a posto. Fidiamoci di Lui, crediamoci. Anche se facciamo fatica a capire,
stiamoci: ripartiamo, lavoriamo alacremente in questo mondo greve e
insensibile, sicuri che la giustizia di Dio inizierà a contagiarlo, a guarirlo,
partendo sicuramente col rinfrancare il nostro cuore. Amen.
“Gli
vennero incontro dieci lebbrosi… Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro
lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per
ringraziarlo. Era un Samaritano” (Lc 17,11-19)
Il
vangelo parla di dieci “guarigioni” e di un solo “miracolo”: dieci lebbrosi
vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo si rende conto di ciò che realmente
gli è successo, solo in lui avviene il miracolo della conversione. Perché
“guarire spiritualmente” è molto più che ottenere la guarigione corporale;
“guarire” non è un qualcosa di statico, di automatico: implica sempre una personale
trasformazione, una conversione interiore.
Gesù
dunque entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra,
allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti
devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il
lebbroso per la società era infatti un morto vivente, un isolato, un escluso, non
poteva avere più contatti con nessuno. Avere la lebbra era una sentenza di
morte lenta. Nel caso di una improbabile guarigione, era il sacerdote che aveva
il compito di esaminare il lebbroso, di dichiararlo “puro”, cioè guarito: ma
soltanto dopo essersi sottoposto a tutta una serie di riti, poteva essere reinserito
nella società.
Qui Gesù
– contrariamente al suo normale comportamento nei casi di guarigione - non fa
nulla: non li tocca, non li guarisce immediatamente, non si informa su di loro,
sulla loro vita. Li manda semplicemente dai sacerdoti, ancora malati, ancora
lebbrosi. Come mai? Non poteva guarirli subito? O la loro guarigione dipendeva
proprio dall'andare dai sacerdoti? In effetti è così: questi dieci credono alla
parola di Gesù, hanno fede e questa loro fiducia li guarisce.
La fede
di questi dieci è che sono convinti di poter guarire, di poter cambiare la loro
situazione, e così avviene. Non è semplice per loro presentarsi a
quell’autorità che li rifiutava proprio per la loro malattia: ma essi, anche se
si vergognano della loro condizione, sfidano il giudizio pubblico e sociale,
sfidano il rifiuto di quelle persone e vanno comunque da loro. Il segreto della
loro guarigione sta qui: nell’aver recuperato la fiducia in sé e nell’andare
incontro proprio a quella situazione che temono di più.
Se noi
non crediamo in qualcosa di meglio per noi, non ci potrà mai succedere nulla di
meglio. Se noi non crediamo che Dio ci ama, che Lui può cambiare la nostra
condizione, se dubitiamo, se siamo scettici, Dio non potrà mai trasformarci. Se
non crediamo di poter veramente guarire, non guariremo mai!
Molte
persone continuano a vivere nelle loro malattie, nelle loro paure, nelle loro situazioni
negative, perché non credono che “la guarigione” possa capitare proprio a loro.
Quando
ci sentiamo in colpa, il nostro impulso è quello di scappare, di nasconderci,
di evitare qualunque incontro. Gesù invece ci dice: “Fuori”. “Hai paura di esporti?
Ebbene: è proprio lì che devi andare! Vai, apriti, fatti vedere, chiedi
e non vergognarti”.
Ai
lebbrosi che invocavano la sua misericordia, Gesù non dice: “Andate nel tempio
e fermatevi lì a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”. È un’azione che egli
richiede, non un’attesa rassegnata, una staticità passiva; la preghiera, la richiesta
di guarigione, deve trasformarsi in “movimento”, in energia. Pregare infatti è
agire, altrimenti la preghiera rimane un lamento inutile, una filastrocca
arida. Pregare è uscire, combattere, affrontare ciò che temiamo; è muoversi, è
cambiare, è fare esattamente ciò che Lui ha detto.
Non
cadiamo nel qualunquismo religioso, non facciamo del nostro credo, del nostro
vangelo, della Parola di Dio, solo una egoistica sintesi personale di ciò che
ci fa comodo. I miracoli avvengono, ma solo se noi crediamo in Dio con fede
autentica, intima, cristallina; altrimenti Lui non può farci nulla. Non basta
sperarlo, non basta desiderarlo, non basta volerlo ardentemente: il miracolo,
la guarigione, avviene solo se noi Gli crediamo.
Tutti e
dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché?
Non erano stati guariti tutti e dieci? Il vangelo spiega che “uno di loro, vedendosi
guarito, tornò indietro”. Ebbene: è proprio quel “vedendosi” che è
decisivo. Uno di loro “vede”, si accorge di ciò che gli è successo: se ne rende
conto, riconosce il dono, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è
successo. E gli altri? Degli altri non si dice che abbiano visto. Hanno
eseguito materialmente l’invito di Gesù e sono andati dai sacerdoti: hanno
obbedito al suo ordine e si sentono a posto. Ma questa è la religione del
“contabile”: tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non si sono
accorti del dono; non sono stati toccati nel profondo. Sono guariti dalla
malattia ma non sono cambiati dentro. Sono guariti ma non hanno visto Dio. Non
c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento in loro; avevano sete,
hanno ricevuto il bicchiere d'acqua e si sono accontentati, tutto è finito lì.
Non sono stati neppure sfiorati dal desiderio di andare oltre, di raggiungere
la sorgente, di abbeverarsi alla fonte, di fare propria quella Forza che li
aveva guariti.
Il
ritorno del lebbroso samaritano è il segno che lui solo ha “visto”; ha capito
cioè di aver ottenuto un qualcosa di molto prezioso che non gli era dovuto. E
per questo “ritorna” a ringraziare Gesù.
Le persone pensano che tutto sia loro
dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, nei confronti degli
altri, e di sé stesse: i privilegi non bastano mai. I nove lebbrosi hanno avuto
anch’essi un dono grandissimo, ma non se ne sono accorti, non se ne sono resi
conto; è stato come se non l'avessero avuto! E non sono tornati a ringraziare,
a rendergli gloria: un’azione questa che è strettamente legata all’accorgersi,
all’essere consapevoli, al rendersi conto di ciò che succede, di ciò che
capita, di ciò che avviene in loro e attorno a loro.
L’uomo in questo è
particolarmente distratto. È refrattario alla riconoscenza. Così la nostra Messa,
la nostra “Eucarestia”, (dal greco eÇcar°zw,
ringraziare, esprimere gratitudine, riconoscenza) dovrebbe essere il
modo migliore per “rendere grazie” a Dio, per ringraziarlo della sua costante
presenza nella nostra vita. Purtroppo le nostre eucaristie domenicali sono
troppo spesso senz'anima; rischiano di essere un precetto, un'osservanza; sono tristi,
senza gioia, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria amministrazione,
un inno all'indifferenza: non “vediamo”, non ci rendiamo conto del passaggio di
Dio, non sappiamo vedere cosa Egli fa per noi, non c'è sussulto nel nostro
esserci, non c’è “partecipazione”.
L'egocentrismo delle persone si
manifesta infatti nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non si
accontentano mai, pensano di non ricevere mai abbastanza; sono sempre fissati
su quel qualcosa che ancora non hanno. Dio, la società, gli altri, sono sempre
colpevoli di non dar loro di più. Il miracolo è invece rendersi conto,
percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto. “Ringraziare,
grazia, gratitudine”, provengono infatti dalla stessa parola: “gratis”.
Tutto ciò che abbiamo e siamo, è
gratis. Non ce lo meritiamo e non ci è dovuto: tutto è solo un dono.
Apprezziamolo e ringraziamo Dio: ringraziamolo per i figli, non ci sono
“dovuti”, sono un dono; ringraziamolo per l'amore, non ci è dovuto, ma è un
dono; ringraziamolo per la vita, non ci è dovuta: è un dono. Godiamo di questi
doni, godiamo di essere sue creature, frutto del suo amore: godiamo del sole che ci riscalda,
della strada su cui camminiamo, degli uccelli che ogni mattina cantano, del
respiro che pulsa e del cuore che batte in noi; godiamo
perché siamo vivi, perché possiamo parlare, perché possiamo esprimerci, perché
possiamo piangere. Ringraziamo Dio per gli amici, per le occasioni che abbiamo,
per le possibilità di vita che ci ritroviamo. Tutto questo per noi è gratis.
Ringraziamo Dio, perché nulla ci è dovuto. Ringraziamolo perché tutto ciò che
avviene, tutto ciò che ci riguarda, è un dono miracoloso del Suo amore.
Chi non
ringrazia, dimostra di non conoscere Dio. E non conoscendolo, si auto esclude
dal rendergli lode. Al contrario “tornerà indietro” a ringraziare, a
“bene-dire”, a lodare Dio, colui che si rende conto di essere una
insignificante particella di un immenso, meraviglioso mosaico; di appartenere
cioè ad un mistero divino di amore incalcolabile, un mistero che lo trascende,
che lo supera vorticosamente, nel quale si sente totalmente immerso.
Fare
della nostra vita una lode perenne a Dio: è questo il senso della nostra vita.
E ciò non significa esibire costantemente un sorriso beota stampato in faccia
(oltretutto indice di grande falsità); ma significa dire sempre di sì a Dio;
significa accoglierlo e dargli voce in tutti gli istanti della nostra vita. Una
vita di lode è la vita di colui che non si sottrae alla Sua volontà; di colui
che continua a “tornare” alla sua presenza; di colui che, dal suo profondo, gli
innalza lode per tutto ciò che vive, in segno di umile ringraziamento. Perché
egli ha veramente “visto”. Amen.
“Gli
apostoli dissero al Signore: Aumenta la nostra fede!” (Lc 17,5-10).
Gli
apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano
una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di
crescere, di maturare, di capire; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza,
essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di
essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare.
Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a
provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già
a un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di
coscienza dei nostri limiti.
Gesù a
tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non dice neppure cosa
dovrebbero, o non dovrebbero fare, per raggiungere una maggior comprensione del
suo annuncio; si limita semplicemente a indicare alcune possibilità estreme,
realizzabili con una fede veramente autentica: un modo per metterli in
condizione di fare da soli delle considerazioni, di fare un'autoverifica sulla
portata e l’autenticità della loro fede: «Se aveste fede quanto un granello
di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”,
ed esso vi obbedirebbe».
Un
granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi
invisibile: salvo poi, una volta seminato e messo a dimora, crescere
rapidamente a dismisura, per diventare, nell'arco di un solo anno, una pianta alta
anche tre o quattro metri. Il gelso, invece, è un albero secolare, che può
vivere anche seicento anni; ha radici molto profonde, che si abbarbicano
tenacemente nella terra. È un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di
solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo
posto e si radichi addirittura nel mare, beh non solo è difficile, ma
sicuramente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta una fede minima, purché autentica, sincera,
trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile.
In altre
parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi
ha un po’ di fede.
Nel
vangelo troviamo molti riferimenti sulle possibilità della fede: “Tutto è
possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le
montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come
facciamo a misurare la qualità della nostra fede, se abbiamo veramente fiducia
in Dio e nella Vita? Semplice: basta guardare a come reagiamo di fronte agli
ostacoli che incontriamo.
Abbiamo
un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Se abbiamo anche un
briciolo di fede vera (il granello di senapa!) riusciamo a fare miracoli, anche
enormi.
Dobbiamo
spostare il “gelso”, l’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada?
Il primo impatto ovvio è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai! È
troppo grande”. Ma il gelso, in fin dei conti, altro non è che la nostra paura
di cambiare, la paura dell’ignoto, del non sapere cosa ci accadrà poi; il
timore di non essere all’altezza, di non avere le forze per reggere; la paura
di guardarci dentro; la paura di affrontare quelli che temiamo, quelli che
consideriamo superiori; la paura che ci fa mendicare amore per non rimanere
soli; la paura di diventare impopolari, di essere derisi per aver fallito il
nostro inserimento nella società; la paura di una malattia improvvisa e
mortale...
Ma
niente è impossibile, niente insuperabile, niente insopportabile: basta solo un
po' di fede. Dobbiamo solo iniziare, darci da fare, metterci in movimento: e
poi scopriremo che il nostro iniziale barlume di fede diventerà ben presto
enorme (il piccolo seme che diventa un albero rigoglioso) e compirà
l'impossibile.
Avere
fede non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli
(“aumentala, dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più
sensazionali, non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta
pochissima, quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale
è che sia vera, sincera, autentica, profonda.
Perché
avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se
non sappiamo come; significa: “qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò
sempre e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile,
inconcepibile, controproducente”.
Non
confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede:
quanti purtroppo pregano senza fede, anche tra i preti! quante Eucaristie si
vedono presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante
davanti a loro sia presente Dio in carne e sangue!
E non
parliamo di noi “fedeli”: un disastro! Siamo convinti che l’aumento e la
purezza della fede dipenda dalla visita ai più celebri Santuari mondiali, dal
partecipare ai pellegrinaggi di folle oceaniche a Medjugorje, a Fatima, a
Pietrelcina o a Lourdes, piuttosto che dalla costante e fedele partecipazione
alle umili liturgie settimanali delle proprie Parrocchie.
La fede infatti
è una disposizione dell’anima, è prestare attenzione a Dio, è avere piena fiducia
in Lui, è convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è la percezione netta,
convinta, di essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non
poterne fare a meno, di sentirsi protetti da Lui, di poter affrontare e
superare con Lui qualunque difficoltà la vita ci riservi.
Questo
significa avere fede! In altre parole, la fede in Dio non è quello che sappiamo
di Dio, quello che abbiamo studiato di Dio nei trattati di teologia e di mistica;
ma è quello che viviamo, come lo viviamo, quanto viviamo di ciò che percepiamo
dentro di noi: fede è sentimento, forza, energia, amore, un’emozione
incondizionata che regola la nostra esistenza.
Certo,
la fede non elimina i problemi e le difficoltà della vita: ci dà però
sicuramente la pace e la serenità per poterli affrontare. L'uomo di fede vive
con una fiducia profonda: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con
me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. In
questo modo affronta ogni cosa con una tale energia da riuscire a piegare
veramente gli eventi e le situazioni anche più gravi a suo favore.
Il
“gelso”, oltre che le difficoltà materiali, rappresenta anche i nostri
schemi mentali malsani, le nostre abitudini distorte, le nostre convinzioni
egoistiche, le nostre fissazioni: i nostri schemi ci danno sicurezza, sono
conosciuti, ci fanno agire in maniera automatica, senza fatica, anche se spesso
sono inutili, inconcludenti. Aver fede, in tal caso, vuol dire: “Riconosco i
miei automatismi; mi credo libero e invece sono un manichino che reagisce meccanicamente.
Più vivo di automatismi, di pensieri e di idee altrui, di frasi ricorrenti e
preconfezionate, più mi immedesimo negli altri, mi uniformo, mi adeguo, mi adatto
al sistema, mi condiziono, sono meno padrone di me stesso, meno libero. Aver fede,
vuol dire insomma che posso fare le cose in maniera diversa, vuol dire che ciò
che sembra impossibile, è al contrario, con Dio, sempre fattibile.
Luca
poi, nel vangelo di oggi, introduce una piccola parabola che non intende tanto
descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro
comportamento di uomini verso Dio: un comportamento nei suoi confronti che deve
essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si
entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di
lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Dopo una giornata piena
di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare
diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti
con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono
soltanto un servo”.
L’esempio
portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi
servi, al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi
servo la cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e
servitemela!”. Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che
devono servire il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo
sentirsi obbligato nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che
rientrava nei loro compiti. Così “anche voi quando avrete fatto tutto quello
che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili” (Lc 17,10).
Ma cosa
vorrà mai dire Gesù con le parole “Servi inutili”? Nel testo greco
questo aggettivo è “acreios”, reso in italiano con “inutili”, pur
essendo evidente che i servi della parabola non sono stati inutili; è una
parola di difficile traduzione, un termine che implica un particolare
atteggiamento di modestia, tipico di persone “misere”, degli “schiavi”;
l’atteggiamento di coloro cioè che lavorano stando al proprio posto con umiltà,
senza ostentazione o presunzioni; che sono consapevoli di essere dei servi e
che tutto quanto fanno rientra, nella normalità del loro stato: in loro nulla
di eclatante, nulla di eccezionale. Sappiamo infatti che servire
Dio è per sua stessa natura gratuito, rientra nella logica del dono: “gratuitamente
avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
In
particolare la parabola di oggi colpisce una certa mentalità dell’epoca, che
accampava pretese verso Dio: la fedeltà alla sua Legge e ai precetti religiosi,
infatti, costituiva per molti credenti un merito acquisito, un titolo di
credito che assicurava loro dei diritti nei confronti di Dio. Era una specie di
“do ut des”, uno scambio: “Sono stato bravo, rispettoso, non mi sono mai
comportato male, e quindi tu mi devi un premio; mi devi amare, perché avendo
osservato i tuoi comandamenti, mi spetta di diritto!”.
Una
mentalità che talvolta è presente anche tra noi, soprattutto quando preghiamo:
l’aver fatto delle donazioni, delle offerte, l’essere stati sempre
caritatevoli, puntuali nei nostri doveri di cristiani, l’aver frequentato la
Chiesa, ci dà in qualche modo la pretesa di avere in cambio da Dio grazie e
benefici, di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, e via
dicendo”; quando preghiamo, invece, dobbiamo stare molto attenti a non
mercanteggiare con Dio, a non imporgli la nostra volontà, vantando eventuali
nostri “meriti”.
La vera
preghiera a Dio, al contrario, serve solo per aprirgli il nostro cuore, per
convertire la nostra anima, per accettare più docilmente la Sua volontà, per
esprimergli tutto il nostro amore, la nostra riconoscenza, assumendo sempre nei
Suoi confronti, lo stesso umile comportamento del giovane Samuele: “Parla
Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10).
Soprattutto
non dobbiamo mai dimenticare che siamo sempre e comunque dei “servi inutili”.
Evitiamo dunque di armarci di quel sacro “zelo” da “iniziati”, così comune e
così fuori luogo; non imbarchiamoci in “sante crociate” personali, non
pretendiamo incarichi per i quali spesso siamo decisamente inadeguati.
Impariamo a stare umilmente al nostro posto, accettando di buon grado le scelte
dei nostri pastori, ancorché non condivise. Quello che Gesù vuole da noi è che
viviamo da persone di grande fede, che andiamo avanti per la sua strada con un
cuore umile e caritatevole, stracolmo di pace, completamente aperto
all’accoglienza dei nostri fratelli, pregando per il trionfo della sua Parola e
della sua Chiesa: con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Accantoniamo
quindi definitivamente le nostre arie di superiorità, inopportune e
commiserevoli. Lasciamo, insomma, fare a Dio il suo mestiere: perché, lo
ripeto, non abbiamo assolutamente nulla da insegnargli. Amen.