«E fu
trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…» (Mc 9,2-10).
Oggi il
Vangelo cambia radicalmente la sua ambientazione. Domenica scorsa eravamo nel
deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nella possibilità di
fare scelte sbagliate, di imboccare vie apparentemente facili, ma ingannevoli.
Oggi siamo invece in una situazione diametralmente opposta: lo scenario è
dominato dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza; è come “toccare
il cielo, toccare Dio, con un dito”. Domenica scorsa la solitudine, oggi un
gruppo di persone (Pietro, Giacomo, Giovanni). Lì la voce e la visione del maligno,
qui la voce e la visione di Dio. Allora la sofferenza, oggi la gioia e la
festa. Lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto luminoso di Gesù. A un
Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino
che si trasfigura. Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una
quaresima che noi ancora interpretiamo come triste, funerea, votata ai
sacrifici e alla preghiera continua? Cosa vuol dire? La spiegazione sta nell’insegnamento
che oggi Gesù vuol darci: ci offre in pratica, già su questa terra, un piccolo
assaggio di quella che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, fatta di
luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice che la quaresima non è
tristezza, ma gioia, entusiasmo, un cammino di “con-versione” fatto con il
sorriso e la fiducia. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita può
diventare radiosa attraverso l’amore; ci dice in pratica che, attraverso
l’amore, possiamo pregustare un piccolo anticipo del nostro Tabor eterno. Sì,
fratelli, perché è l’amore, solo l’amore, che dà felicità all’uomo: è l’amore
che gli offre la possibilità di toccare con mano, già da subito, l’immensità
dell’amore che Dio nutre per lui.
La “trasfigurazione”,
la nostra “trasfigurazione”, è proprio questo: vedere e sperimentare con gli
occhi del cuore, con l’amore, quelle cose meravigliose che nessun occhio umano vide
mai e mai potrà percepire.
Trasfigurarsi:
ecco a cosa ci porta l’amore. Perché solo gli innamorati autentici, quelli che veramente
sono persi d’amore, possono apprezzare le cose più belle: il sole specchiarsi
sul volto della persona amata, ammirare la luce negli occhi di un bimbo, cogliere
l'universo intero nella faccia rugosa di un vecchio, estasiarsi dei cieli
stellati, dei soli, delle galassie intere, riflessi negli occhi premurosi di chi
ci vuol bene. Penso che a tutti noi sarà capitato di commuoversi davanti ad un
volto segnato dal dolore di una perdita, davanti a scene di altruismo e di
amore eroico, oppure semplicemente davanti ad un tramonto e ad un’alba
silenziosi: di sentirsi così pieni di gioia, di sensazioni così profonde, di commozioni
così intense, da non aver potuto trattenere le lacrime. Ecco: anche tutto
questo è “trasfigurarsi”. Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di
debolezza, di mancanza di virilità. Ma oggi so che vuol dire essere vivi, vuol
dire percepire ciò che siamo dentro, condividere con gli altri ciò che essi vivono
dentro; vuol dire lasciarsi toccare il cuore, vuol dire lasciarsi colpire e farsi
coinvolgere da ciò che succede intorno a noi; vuol dire non essere gelidi come
il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo inanimato.
In una parola vuol dire lasciarsi “trasfigurare”.
Sì,
fratelli, sono proprio questi i momenti della nostra “trasfigurazione”; sono i
momenti in cui ci rendiamo conto che vale la pena di vivere anche per un solo istante;
sono i momenti in cui ci sentiamo “speciali” per essere nel mondo, per esistere,
per poter amare, credere, donare. Sono i momenti che ci danno l'energia, la
forza e il coraggio di andare sempre avanti e di affrontare serenamente le “discese”
dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno. Senza queste ricariche di
gioia, di felicità, di vita, di infinito, di “Dio”, tutto rimarrebbe drammatico,
angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché dobbiamo permettere alla felicità
di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci immerga, che viva in noi,
che sussulti, che si muova, che nasca continuamente. Se ciò non ci accade,
dobbiamo preoccuparci, fratelli: se non ci succede, dobbiamo chiederci seriamente
se il nostro cuore pulsi ancora o sia già immobile, morto.
Ripeto:
questa è la Trasfigurazione, fratelli. Questa deve essere la nostra
trasfigurazione. Possiamo averne continue esperienze: basta saperle “vedere”. Per
esempio quando nel buio, nello smarrimento di una situazione difficile, veniamo
investiti improvvisamente da un raggio di luce e, già persi, ritroviamo Dio,
facciamo esperienza di trasfigurazione; quando scopriamo che la nostra vita,
così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini che
lo abitano, ha un senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di
trasfigurazione; quando percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la
sua sensibilità, anche se al di fuori non trapela nulla, questa è
trasfigurazione. Trasfigurazione poi è vedere le persone nella loro essenza; è cioè
vedere il loro volto, il loro “essere”, il loro vivere, esattamente come è stato
pensato da Dio, ancora “immacolato”, prima di venire inesorabilmente deformato
dai giorni, dalle paure, dal dolore, dalle angosce del quotidiano. Così se
piangiamo di gioia, se tocchiamo il cielo dalla felicità, se ci sentiamo ricchi,
pieni, immensi, caldi come il sole, scintillanti come la neve, potenti come le
onde del mare, beh, fratelli, tutto questo è trasfigurazione. Il mondo, nella
sua infelicità, dirà che siamo matti: e forse un po’ matti lo siamo anche, ma di
certo siamo tanto, tanto felici.
“Tabor”,
il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico”
e anche “principio di luce”. Bene: la trasfigurazione ci invita a tagliare tutti i
cordoni ombelicali, tutte le dipendenze ormai inutili, per poter rinascere,
crescere, rivivere ogni giorno: se non tagliamo questi cordoni ombelicali, se
non recidiamo energicamente certi legami, certe condizioni di vita, convinti di
poterle cambiare, modificare, trasformare, non arriveremo mai ad avere vita
piena, anzi la nostra esistenza è destinata a cadere inesorabilmente nel nulla,
nella morte. Insistere nel voler conservare in noi situazioni negative,
esperienze che ci hanno traumatizzato, che ci hanno procurato dolore e
disperazione, sperando in una loro catarsi, in una loro rigenerazione, trasformazione,
sublimazione, significa solo rimandare una fine già annunciata, una ricaduta
ancor più implacabile e devastante.
Per
poter crescere, per poter procedere spediti nel nostro cammino verso la Luce,
senza esitazioni, senza tentennamenti, senza rallentamenti o impedimenti,
dobbiamo pertanto essere decisi, dobbiamo recidere senza esitazioni questi “cordoni
paralizzanti”.
Uno
solo è il cordone ombelicale che non deve essere mai tagliato. È quello che ci
tiene legati a Dio. Il Tabor, l'ombelico del mondo, ci dice infatti: “Se sei legato,
attaccato a Dio (“religione” da “re-ligo”,
significa essere legati a doppio filo); se respiri con Dio e ti nutri di Lui, allora
sei al sicuro, sei nella Luce calda e sfolgorante. Questo legame deve durare in
eterno, perché vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo vuol
dire lontananza, condanna, perdizione. È l’unico canale attraverso cui Dio può colmare
il tuo cuore di amore. Per quanto in basso tu cada o vada, questo cordone ti
terrà sempre unito a Lui, e non correrai mai il pericolo di perderti nel vuoto”.
Allora
potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le inevitabili
“prove”; allora potremo affrontare i momenti più duri e difficili; allora
potremo affrontare qualunque difficoltà perché dentro di noi abbiamo energia,
forza, entusiasmo: abbiamo Dio nel cuore.
Giunti
sulla vetta del nostro Tabor, abituati alle ricorrenti esperienze di “trasfigurazione”,
chiediamoci umilmente: “È sempre bello per noi stare qui con il Signore?” “È ancora
bello stare con Lui nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, in
Chiesa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?”. Diamoci una
risposta sincera in questa quaresima, una risposta come quella di Pietro, piena
di entusiasmo e di felicità: «Signore, è proprio bello stare qui con te». È
vero, fratelli, è veramente bello stare con Gesù: e tutti, tutti noi che
abbiamo sperimentato il suo amore, tutti indistintamente, siamo chiamati a urlare
al mondo intero quanto sia bello stare con Dio.
Per
farlo però dobbiamo ritagliarci degli spazi di silenzio, dobbiamo dedicarGli
tempo, metterci in sintonia con Lui. E per farlo, come suggerisce il Padre,
dobbiamo “ascoltare”. Ascoltare il Figlio, ascoltare la Parola, ascoltare noi
stessi, ascoltare ciò che di bello, di Dio, hanno da dire ogni uomo, ogni
nostro fratello. La bellezza è esperienza che scaturisce dall'ascolto. Per
questo dobbiamo ascoltare: perché solo ascoltando riusciremo a recuperare nella
nostra vita cristiana il concetto della bellezza di Dio. Si, fratelli: perché è
da questo che dobbiamo ripartire: noi viviamo in orrende città, orrende sono le
nostre periferie, orribili le proposte martellanti e sguaiate della nostra
pubblicità, orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono dal mondo
della politica, dello spettacolo, dell’informazione. È proprio vero: abbiamo
urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità, vita, amore.
Quella
bellezza di Dio che rende bella la nostra anima: la nostra vera bellezza,
fratelli, non è quella esteriore, quella che rispetta tutti i canoni estetici! Tutti
i più bravi chirurghi estetici di questo mondo, non riusciranno mai a trasformarci
in “belle” persone! Perché senza la bellezza interiore, la bellezza della nostra
immagine di Dio, noi assomigliamo soltanto a fredde, dure e infelici bambole; non
certo a “belle” persone!
Riappropriamoci
allora, a tutti i costi, di quel senso di stupore e di bellezza che ci porta in
alto, lassù, sul monte Tabor, per poter ammirare con sguardo estatico il Cristo
trasfigurato. Rigenerati dalla Sua luce, trasformiamo le nostre chiese in altrettanti
Tabor, in altrettanti luoghi di “bellezza”: il silenzio, il canto, la fede, i
momenti di preghiera e di carità, devono riportare nelle nostre quotidianità un
briciolo della bellezza di Dio: una bellezza fatta di gratuità, di gentilezza,
di attenzione, di compassione, di amore, di verità e di tenerezza.
Allora
la nostra vita sarà bella, fratelli! Sarà veramente bella, perché avremo finalmente
imparato a viverla e a donarla. Amen.
«Lo Spirito sospinse Gesù nel
deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana».
È la
prima domenica di quaresima. Siamo all’inizio del vangelo di Marco, e Gesù,
subito dopo la teofania del battesimo in cui ha sperimentato la vicinanza col
Padre, sentendosi amato, accolto e voluto incondizionatamente, deve affrontare
un’altra esperienza: quaranta giorni di deserto, di preghiera, di penitenza e
solitudine. Quaranta giorni: quaranta, da cui deriva la parola “quaresima” (40
giorni, appunto), è un numero simbolico: 40 sono i giorni che Mosè sta sul
monte Sinai; 40 sono i giorni di cammino di Elia; 40 sono gli anni del popolo
ebreo nel deserto; a 40 anni Maometto incominciò la sua missione; a 40 anni
Buddha divenne un illuminato; a 40 anni Mosè sente la chiamata di Jahweh e
fugge nel deserto, scappando dalla reggia del faraone. Questo numero, come
anche il tre o il sette, non rappresenta, dunque, un tempo cronologico reale,
scandito dalla somma dei giorni. Indica piuttosto una lunga attesa, una lunga
prova, un tempo sufficiente per vedere le opere di Dio, un tempo entro il quale
occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza ulteriori
rimandi. È il tempo delle decisioni mature. Verso i 40 anni, infatti, avviene normalmente
il grande cambiamento della nostra vita: la prima parte se ne è andata, è già alle
spalle. Ci si sente realizzati, compiuti. Ma incominciamo anche a notare le
prime avvisaglie dell’inevitabile declino: i tratti del volto si induriscono,
le prime rughe fanno da corona agli occhi, la bellezza perde di luminosità, diventa
più faticoso realizzare i propri sogni, molti ideali che sembravano il massimo dell’esistenza,
si rivelano fatue illusioni e profonde delusioni. La vita ci chiama a puntare e
a costruire su altre cose. Dall’esterno (lavoro, studio, casa, carriera,
famiglia) si passa all’interno: che senso ha vivere? Perché vivo? Come vivere?
La vita cioè ci chiama ad approfondire la nostra esistenza.
Ebbene:
la Quaresima è il tempo propizio per questo passaggio; è il tempo nuovo in cui
siamo chiamati a crescere, a fare un passo decisivo, a prendere decisioni risolutive,
a fermarci e a porci domande profonde: “In cosa debbo crescere? In cosa debbo
maturare? Cosa debbo lasciare e cosa di nuovo prendere?”. La quaresima è il
tempo in cui si lascia una terra (l’Egitto), terra di schiavitù, per andare
verso una terra di libertà (terra promessa). Un passaggio che si attua nel deserto.
Sì, perché deserto vuol dire spogliarsi di fronte a se stessi, vedersi per
quello che si è realmente. Significa affrontare le barriere, gli ostacoli, le
montagne per diventare dei camminatori della vita: superare gli sbarramenti che
non ci fanno evolvere, per poter progredire sulla strada che conduce verso noi
e verso Dio. Questo è il percorso che ciascuno deve affrontare. Lo ha fatto
Gesù, lo dobbiamo fare anche noi. È un’esperienza ineludibile.
È il
nostro “esodo” dalla quotidianità, dalla spensieratezza, dall’indifferenza,
dalla nostra sciatteria spirituale, dalla nostra tiepida quotidianità.
Viviamo
soddisfatti, stiamo bene, tutto funziona; ma poi improvvisamente le cose
cambiano, poi il meccanismo si inceppa, poi il rapporto si incrina. Capiamo che
quel che facciamo non basta, cominciamo a pretendere di più; iniziamo a sentirci
soffocati, insoddisfatti; ciò che prima ci andava bene adesso non ci soddisfa
più. Nuove esigenze emergono; nuovi lati del carattere bussano alla porta;
nuove situazioni e sfide ci si fanno avanti.
Il
nostro cammino è giunto ai margini del deserto: dobbiamo affrontarlo; dobbiamo cambiare
stile di vita, anche se non sappiamo cosa ci aspetterà; ci sono cose che
dobbiamo assolutamente abbandonare, altre da correggere, altre da coltivare e
promuovere: e per farlo possiamo contare soltanto su di noi e su Dio. Ogni uomo
è chiamato ad uscire verso la sua terra promessa, verso se stesso, la sua
anima, verso Dio: ma la strada del suo esodo passa attraverso il deserto, le
barriere, gli ostacoli, gli stop della vita: ed è la crisi.
Una
parola, “crisi”, che oggi è molto di moda: si va in crisi perché la vita ci
chiama ad evolverci e a cambiare, ma noi non ne siamo capaci, non ci adeguiamo,
recalcitriamo, stiamo bene come stiamo. E così entriamo in crisi: un momento di
dolore, di grande passione, negativo quanto si vuole, ma anche positivo e tonificante.
Anche noi, come gli Ebrei, ci ribelliamo: “Basta, io mi fermo! Ma chi me l’ha
fatto fare! Stavo così bene prima!”. Ma dopo l’iniziale sgomento, ci scopriamo più
profondi, più veri, più trasparenti, più inseriti nel mistero della vita, più
capaci di amare, più uomini, più liberi. Ogni crisi ci costringe a tirare fuori
nuova energia, più grinta, più voglia di attingere a nuove e impensate risorse.
Dio
dice al popolo ebreo: “Ti ho portato nel deserto per vedere quello che avevi
nel cuore”; è il deserto infatti che ci mostra immediatamente cosa abbiamo
dentro, ci toglie tutte le illusioni che ci siamo costruite negli anni, tutti
gli abbagli, ci toglie tutte le maschere, ci spoglia, ci riporta all’essenziale,
all’originale innocente nudità.
Tentazione
vuol dire: “Stai attento, perché tu questo, hai nel cuore!”. Significa essere
messi alla prova, non per vedere se siamo buoni o cattivi, ma perché possiamo
renderci conto, in maniera trasparente e chiara, cosa abbiamo dentro.
Il
deserto è così, fratelli: è spietato perché ci mostra esattamente quello che siamo,
senza fronzoli e ipocrisie. È come essere di fronte ad uno specchio: “Questo
sei tu! Guardati! Non scappare! Non nasconderti!”. Per questo lo eviteremmo molto
volentieri. Per questo lo consideriamo “pericoloso”. Per questo cerchiamo in
tutti i modi di evitarlo.
Il nostro
deserto sarà sempre il luogo dei demoni e di tutte le voci demoniache che ci
scuotono dentro: “Vedi come sei realmente? Sei un mascalzone; te lo meriti,
potevi ascoltarmi; non vali niente; sei un fallito; guarda cos’hai fatto; non
sei capace neppure di amare; sei un’incapace; oh, se gli altri sapessero!”. Chi
vorrebbe ascoltare queste voci? Chi vorrebbe misurarsi con loro? È molto meglio
stordirle con il baccano, con fiumi di chiacchiere e di parole, con i rumori, con
vuoti divertimenti, annegarle in mille cose inutili da fare.
Anche
Gesù ha dovuto confrontarsi con l’animalesco, il terribile, il demoniaco: in
una parola con il male. Non si può compiere nessun serio viaggio cristiano,
evangelico, umano, senza questo terribile confronto. È nella nostra natura, ci
segue passo passo. Qualche esempio?
Nessuno
di noi ha problemi sessuali. Ovvio! È chiaro! Nessuno ha bisogno di
confrontarsi con questa sfera, di conoscerla, di comprenderla, di integrarla.
Ma allora non si capisce come mai la pornografia sia così diffusa; non si
capisce perché certi “spettacoli” tv continuino ad essere proposti di notte;
non si capisce perché nel web la mercificazione del nudo femminile e
dell’erotismo abbiano così tanti consensi; non si capisce perché una grossa
percentuale delle riviste cartacee in commercio, siano a carattere
pornografico!
Nessuno
di noi ha sentimenti di odio. Ovvio! È chiaro! Ma non si capisce perché talvolta
ci si debba scagliare con tanta rabbia e brutalità contro chi sbaglia; perché
succedano tante manifestazioni animalesche negli stadi e nei luoghi di
divertimento giovanili (eppure sono i nostri giovani, i nostri figli: li
abbiamo educati noi, sono venuti nelle nostre scuole, hanno frequentato le
nostre chiese!). Violenze, omicidi, soprusi, insolenze, sono cronaca quotidiana:
basta guardare come ci comportiamo al lavoro, per strada, in macchina. A volte
ci relazioniamo non come persone, ma come “bestie”!
Nessuno
di noi è ipocrita. Ovvio! È chiaro! Ma non si capisce perché a volte capita di
sorridere del male altrui; siamo contenti che si dica male del nostro collega,
che venga infangato; che gli altri siano considerati meno di noi; che sbaglino:
“ben gli sta; sono proprio contento; così impara!”. Non mordiamo nessuno, ma siamo
contenti se qualcun altro lo fa al posto nostro.
Noi
mercoledì scorso ci siamo messi la cenere in testa: non è stato un gioco ma un
bagno di umiltà: dobbiamo cioè avere l’umiltà di riconoscere che talvolta anche
noi ci comportiamo così. Dobbiamo riconoscere che il male abita in noi forse
più che negli altri.
Dopo
questo incontro-scontro con i fantasmi e i demoni interiori, intenso e
terribile, Gesù ha trovato tutta la forza per andare avanti. Da qui in poi,
nessuno potrà più fermarlo.
Soltanto
confrontandoci decisamente con il potenziale distruttivo che abbiamo dentro,
anche noi potremo convertirlo in forza, vigore, energia, passione, potenza.
Il nostro
valore non è dato dall’esterno, né da ciò che gli altri pensano di noi, né da
ciò che conquistiamo; ma dalla nostra capacità di confrontarci con ciò che abbiamo
dentro, gestendolo senza falsi timori, trasformando i nostri demoni in
altrettanti angeli positivi. Niente di ciò che è dentro di noi è pericoloso se
lo affrontiamo, lo conosciamo, lo addomestichiamo. Anche ciò che sembra
distruttivo, pericoloso o malvagio può trasformarsi e diventare positivo, un
angelo, una forza, una luce, una sensibilità, uno spazio d’amore. Diceva giustamente
il poeta Rainer Maria Rilke: “Ho paura che se i miei demoni mi lasciano, se ne
andranno anche i miei angeli”.
È dunque
dopo l’esperienza tremenda del deserto che diventiamo consapevoli della nostra
forza. Perché? Perché è il confronto, lo stare con la sofferenza, che ci
matura, che ci fortifica, che ci rende potenti.
Le
esperienze belle, piacevoli, ci rendono la vita meravigliosa; ma sono quelle
dolorose che ci fanno crescere, che ci fanno cambiare radicalmente, che ci
trasformano. È incontrando e addomesticando i nostri demoni, che arriveremo ad incontrare
i nostri angeli; non giustifichiamo la nostra accidia, pensando di avere dentro
solo demoni, solo schifezze, solo casini, difficoltà, problemi, confusioni. Non
attacchiamoci a questo pretesto, non “tiriamo avanti”, carponi.
Soprattutto
perché noi, fratelli, noi dentro abbiamo Dio, non dimentichiamolo. Lui è in noi.
Scopriamo dunque il nostro valore! Riprendiamocelo tutto il nostro valore!
Siamo
dei privilegiati, in tutto. Anche nella nostra vita normale. Abbiamo delle mani
e con le mani possiamo accarezzare, abbracciare, costruire, lavorare, creare,
dipingere, suonare, dare la mano, giocare, cullare, scalare, scrivere, unire la
nostra mano alla mano di chi amiamo. Ci rendiamo conto di cosa possiamo fare? Ci
rendiamo conto del valore delle nostre mani?.
Abbiamo
degli occhi e possiamo vedere il sole, la luna e le stelle, il mare, il cielo,
il volo degli uccelli, la neve che cade a fiocchi, il sorriso delle persone che
amiamo, la luce nei loro occhi. Abbiamo delle orecchie e possiamo sentire la
voce di chi ci ama, il pianto di chi soffre, il respiro tremante di chi ha
paura, il canto degli uccelli, il rumore della risacca marina, il mormorio del
vento, le voci gioiose dei bambini, la passione di chi parla.
Abbiamo
poi un cuore e con il cuore possiamo dire: “Ti voglio bene. Lo sai che sei
importante per me. Lo sai che ti amo! Nei tuoi momenti bui e difficili, io sarò
al tuo fianco. Non ti preoccupare, non me ne andrò. Qui dentro sei a casa tua”.
Possiamo accarezzare, abbracciare, baciare ed esprimere l’amore che abbiamo
dentro. Possiamo farlo.
Abbiamo
infine un’anima che può decidere di vivere, di spendersi per qualcosa di
grande, di appassionarsi per la vita e per tutto ciò che vive, che può non
accontentarsi del naturale, ma anela di entrare nel mistero dell’esistenza; abbiamo
un’anima che può entrare in contatto con Dio, che può cogliere il senso di
tutto, che può cogliere il vero senso della vita, che può lottare per grandi
valori e ideali, che può cambiare certi destini, che può essere felice e vivere
divinamente da liberata e illuminata.
Ci
rendiamo conto di cosa abbiamo davanti, di come potremmo vivere? È difficile
tutto questo?
Sì e
no. Potremo vivere tutto questo solo dopo aver passato il deserto e aver vinto i
nostri demoni.
E allora,
che ne pensate fratelli? Non vale forse la pena di vivere coraggiosamente il
nostro deserto per arrivare a questa beatitudine? Perché accettare di vivere
come galline quando siamo fatti per volteggiare in cielo come aquile? Perché avere
paura dei “quaranta giorni” di deserto, quando poi abbiamo una vita intera,
un’eternità, da vivere nell’amore di Dio? Non dimentichiamo, fratelli, che siamo
Figli di Dio; che Dio stesso è in noi e con noi.
Che
vogliamo di più? Siamo ricchi, fratelli; possiamo vivere cose intense, grandi,
enormi. L’importante è non dimenticare mai a chi apparteniamo; non dimenticare mai
da dove proveniamo e dove siamo diretti; non dimenticare mai di quale dignità
siamo rivestiti, e a quale dignità siamo chiamati. Soltanto dopo il nostro
“deserto”. Buona quaresima, fratelli! Amen.
«Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao
dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone, che
non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la
Parola. Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone...».
Gesù ritorna
a Cafarnao, dove continua a predicare e a guarire gli infermi. Questa volta il
vangelo ci presenta un paralitico. È immobile. Non fa nulla. Non parla, non
dice una parola, non si muove, non interviene, non cammina. Non ha neppure un
nome: è un uomo paralizzato nel corpo, nella mente, nel cuore; è sclerotizzato,
fossilizzato, totalmente passivo. Il fatto che, disteso su di un lettuccio, sia
portato da quattro persone, ci dice appunto che la sua paralisi è totale. Noi
ci saremmo aspettati che Gesù, vedendolo, lo toccasse e lo guarisse. Ma non è così:
la paralisi del corpo non è il suo vero problema: la sua malattia è molto più
grave, è al suo interno, dentro il suo cuore; e Gesù lo sa. È la sua anima che
è paralizzata, è bloccata dal peccato, una paralisi invisibile ma reale. Il
paralitico vuol guarire da questa sua infermità dell’anima, perché da buon
ebreo sa bene che è il peccato la causa dell’infermità corporale. Egli crede in
Gesù, ha una fede profonda: è deciso a modificare il suo atteggiamento
interiore, e vuole guarire sul serio, da tutto. Non come tanti di noi che vogliono
sì guarire, ma senza cambiare nulla del loro comportamento: lamentano mancanza
di dialogo e di carità nel loro ambiente; vorrebbero più riconoscimenti, più
gioia, più amici, più amore, più rispetto: ma per arrivare a questo, non sono disponibili
a cedere in nulla; quelli che devono cambiare sono sempre e solo gli altri. È
questo Il vero nostro guaio, fratelli: non accettiamo di essere messi in
discussione. Perché non abbiamo fede; andiamo avanti imperterriti per la nostra
strada, facciamo tutto ciò che gratifica il nostro ego, non importa se lecito o illecito, morale o immorale; non
crediamo in Dio, non rispettiamo il prossimo. È questo il male che ci
paralizza, fratelli, è questa la nostra paralisi che ci confina nella immobilità
sul nostro lettino.
Il
paralitico del vangelo invece ha tanta fede; egli crede, è fermamente convinto di
poter guarire. È questo che lo rende diverso dagli altri. È questo che lo salva
e lo guarisce. Gesù gli dice: «Figlio, ti
sono perdonati i peccati». Nient’altro. La guarigione dalla paralisi del
corpo è conseguente al perdono dei peccati. E per dimostrarlo ai suoi soliti denigratori
aggiunge: «Alzati e cammina».
Qualunque
sia la nostra situazione, qualunque sia il nostro errore, qualunque sia il
baratro in cui siamo caduti, qualunque sia la nostra malattia o la nostra
disperazione, con la fede, l’amore e la contrizione, tutto si annulla, tutto
viene perdonato, tutto viene ricomposto: “Alzati e cammina”. È il comando
invitante che Gesù ci dà dopo ogni caduta, nel lungo cammino della nostra vita.
“Tirati su, riparti, vai! Prova di nuovo e vedrai che ci riuscirai. Non piegarti
alle tue sconfitte, non rassegnarti e non abbandonarti ad esse: ma “alzati e
cammina”.
Ascoltiamo
riconoscenti e con gioia questa voce di Gesù, fratelli: invece quanti non
ascoltano, quanti si stancano, si arrendono, si abbandonano sfiduciati lungo la
strada, nonostante i compagni di viaggio cerchino di sorreggerli; quanti addirittura,
senza voler far nulla, pretendendo che siano gli altri a farsi carico dei loro
problemi! Non pensiamo di essere sempre e solo noi le vittime; smettiamola di fare
sceneggiate ad ogni contrarietà; soprattutto smettiamola di comportarci come
dei bambini viziati. Troppe volte ci offendiamo e ci isoliamo per delle sciocchezze,
facciamo tragedie per delle stupidaggini, e rispondiamo a piccoli screzi
insignificanti con autentico odio: dovremmo vergognarci; finiamola di auto commiserarci;
prendiamo in mano il nostro giaciglio, alziamoci in piedi, e camminiamo.
Il
lettuccio del paralitico rappresenta la malattia con le umane debolezze. Gesù
non dice: “Butta via il lettuccio. Liberatene, Lascia perdere tutto”. Ma:
“Prendilo e cammina”. Ci dice: “Prendi il tuo lettino, il tuo giaciglio: prendi
in mano la tua vita, le tue paralisi, i tuoi problemi, le tue paure, le tue
sconfitte, i tuoi complessi! Non vergognarti davanti agli altri dei tuoi
limiti, accetta apertamente le tue debolezze e fattene carico tu, personalmente”.
Certo, noi tutti vorremmo essere felici, liberi senza costrizioni,forti e
decisi. Purtroppo non siamo così; è la vita a non essere così. Noi prima vorremmo
essere sicuri, forti, perfettamente in forma, e poi affrontare il mondo e gli
altri. Ma non funziona così. Dobbiamo invece alzarci, prendere umilmente il nostro
lettuccio sotto braccio, e andare, affrontare la vita così come siamo, con le nostre
meschinità, con le nostre debolezze, con le nostre insicurezze: ma con tanta
fede in Lui.
Il
vangelo ci dice poi che accanto e intorno al paralitico, nella casa di Cafarnao,
c’è tutta una serie di personaggi, che bene o male influiscono su si lui.
C’è la
folla. La folla è l’indifferenza; quando arriva il paralitico, nessuno se ne
accorge. La casa è piena, stipata di gente: sono tutti presi dalle parole di
Gesù; sono talmente impegnati che non si accorgono di nulla. Non si rendono
conto che sono proprio loro, la “folla”, ad impedire ai barellieri e a
quest’uomo di affrontare la guarigione, la libertà, la Verità, la Vita. Noi,
spesso siamo così. Non siamo cattivi, ma la nostra indifferenza, la nostra pigrizia,
la nostra svogliatezza, senza soluzioni di sorta, il nostro cuore ottuso, senza
luce, senza amore, ci impediscono l’incontro con la Via, con la Verità, con la Vita,
con l’autentica Carità.
Accanto
a noi ci sono persone poi che non credono, che non hanno fede, che non immaginano
neppure la possibilità di una nostra guarigione, di diventare migliori, diversi,
uscendo dalle nostre malattie immobilizzanti per vivere in maniera più ampia, più
estesa, più solare. Non ci pensano e neppure vogliono questo per noi: sono come
gli scribi, non ci amano. Ci dicono: “Che vuoi di più? Di che ti lamenti? Hai tutto!”;
e per "tutto” intendono vestiti, casa, soldi, piaceri, auto, cibo a
volontà, benessere. Non immaginano neppure che esistano altre cose, altri
valori nella vita; come: felicità, senso, verità, autenticità, libertà, amore
vero.
Poi ci
sono i barellieri. I barellieri del paralitico hanno anch’essi una grande
fiducia in Gesù. Loro lo portano fin lì, ma non sono loro che lo mettono in
piedi, guarito: è il paralitico che si rialza da solo, è lui che lo vuole e sarà
lui che, obbedendo all’ordine di Gesù, otterrà la guarigione completa. Non sono
ovviamente loro i guaritori, ma se non avessero avuto fede, se non l’avessero
portato davanti a Gesù, forse quel poveretto avrebbe perso la sua grande occasione
e sarebbe rimasto paralizzato per tutta la vita. Sono stati i suoi angeli. Gli stessi
numerosissimi angeli che anche noi abbiamo nella nostra vita: sono tutte quelle
persone che ci amano e credono in noi. Talvolta ci crediamo dei falliti, degli
incapaci, ma c’è sempre qualcuno che ci sorregge, ci fa rialzare, ci fa credere
nuovamente in noi. Quando pensiamo di non farcela più, di non riuscire a
superare certe crisi, improvvisamente arriva qualcuno che ci affianca, ci accompagna
da qualche Gesù per farci parlare, aprirci, esprimere il nostro tormento,
ritrovare luce, ritrovare noi stessi.
Tutte
queste persone sono i nostri angeli, sono delle benedizioni, delle visioni che
ci aiutano a incontrare e a rivedere il Volto luminoso di Dio. Ringraziamo Dio,
fratelli, per queste persone, per questi angeli autentici della nostra vita.
E poi
c’è Gesù. Gesù che gli dice: “Figliolo ti sono rimessi i tuoi peccati”. Parole
che lasciano un po’ tutti nello sconcerto; ma come, in quattro fanno una faticaccia,
innalzano il paralitico fin sul tetto della casa, praticano un’apertura e lo calano
giù glielo mettono davanti, completamente paralizzato, immobilizzato, e Gesù,
il grande guaritore, che fa? gli annuncia candidamente che i suoi peccati sono
rimessi. Tutti ovviamente si aspettavano che Gesù stendesse la mano e guarisse al
suo tocco, come succedeva normalmente. Ma questa volta nulla di ciò: Gesù intuisce
qual è la vera infermità di quel poveretto. Non è il corpo che soffre; è il suo
animo, è nel suo profondo che egli è paralizzato, è dal peccato che egli è immobilizzato.
È il peccato la sua vera malattia. Rimosso dall’anima il peccato, la guarigione
del corpo è assicurata. Poi gli basta una parola: «alzati e cammina».
Ebbene
fratelli, anche noi a volte sentiamo il peso delle nostre infermità, delle
nostre paure, dei nostri egoismi, dei nostri peccati: un peso, un macigno che paralizza
la nostra vita spirituale. Non ignoriamo questo segnale di Dio, scuotiamo la
nostra fede intorpidita, rivolgiamo fiduciosi il nostro sguardo a Gesù: egli ci
aspetta, ci guarda amorevolmente e ci capisce. Egli vede la paralisi del nostro
cuore, egli vede la nostra sincera volontà di risorgere, di liberarcene, di
confessare i nostri errori, di farla finita con i nostri compromessi. E
sorridendo ci dice: “Prendi il tuo giaciglio, alzati e cammina”. Allora,
fratelli, non tentenniamo oltre, non fermiamoci a pensare. Alziamoci di slancio,
riprendiamo in mano la nostra vita, buttiamo alle spalle il nostro
passato, e incamminiamoci fiduciosi, rinnovati nella fede e nell’amore, dritto
davanti a noi: e accettiamo di stringere, nella nostra, la mano che Egli, con
tanta tenerezza e sollecitudine, quotidianamente ci tende. Amen.
«In quel tempo, venne da Gesù
un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi
purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo
voglio, sii purificato!”».
Oggi
Marco ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso e la sua
guarigione. Tranquilli, la malattia della lebbra è stata ormai quasi
completamente debellata; non dovremmo quindi temere più di “toccare”, di “comunicare”
con gli altri (la lebbra a quei tempi impediva qualunque tentativo di avvicinamento,
di socializzazione). Purtroppo però oggi dobbiamo fare i conti con un’altra malattia
epidemica, altrettanto invalidante: l’incomunicabilità, l’indifferenza,
l’ermetismo, la chiusura totale verso gli altri. In questo senso tutti noi continuiamo
ad essere dei lebbrosi; e ciascuno di noi può immedesimarsi in quel poveretto.
Sì, perché la nostra vita è infestata di questa nuova lebbra, con tutte le sue
variabili di isolamento e solitudine: c’è la lebbra di chi non si sopporta; di
chi non sopporta il proprio fisico, il proprio carattere, la propria vita; e non
si sopporta perché, quando si guarda dentro, non trova niente per cui valga la
pena di impegnarsi. C’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare
la propria dignità; c’è la lebbra della vergogna: di quando si viene additati; di
quando ci viene continuamente rinfacciato il nostro errore; la lebbra di chi
non si perdona, di chi confessa sempre la stessa colpa da anni, di chi si sente
sempre colpevole; la lebbra della vergogna di sentirsi inferiore agli altri, per
non aver studiato, per non essere brillante, per non essere fisicamente bello e
attraente; c’è la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti,
insignificanti. Ebbene, fratelli, chi di noi non si è sentito discriminato,
etichettato, evitato, come il lebbroso del vangelo? Ma ci sono anche altre
lebbre che fanno terra bruciata intorno a noi, essendo gli altri a farne le
spese, a pagarne le dirette conseguenze: alludo alla lebbra dell’invidia, della
superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della
lussuria… ; sono tutte lebbre deformanti, che di fronte ai nostri fratelli ci
rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi esente da
queste forme di lebbra? Penso proprio ben pochi. Allora andiamo da Gesù,
supplichiamolo anche noi! Facciamo anche noi come ha fatto il lebbroso del
vangelo.
Riviviamo
per un attimo la scena: il poveretto si butta in ginocchio e supplica Gesù: “Se
vuoi puoi guarirmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che
da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Gesù e gli
dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa
confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver
bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si crede malato
non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Per questo il lebbroso si
abbandona, e chiede a Gesù di fare tutto lui: “Se vuoi puoi guarirmi”.
E Gesù
interviene. Egli prova nei confronti di tanta arrendevolezza qualcosa di forte
ed intenso: è “mosso a compassione”.
Il termine greco, oltre che compassione,
indica addirittura un “amore materno”, un amore che tocca dentro, un amore
viscerale. Un amore che compendia i sentimenti umani più vulnerabili: la
misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Quando
un uomo è rifiutato da tutti, ha una vitale necessità di questo amore; ha
bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno
di poter sentire che c’è qualcuno che lo accoglie, che lo apprezza, che non lo
evita. Perché questo è un amore che salva.
Gesù guarda
questo relitto umano con occhi diversi da quelli degli altri: “Io ti conosco, credo
in te; so che sotto questo tuo aspetto disgustoso, sopravvive ancora un germoglio
stupendo, un qualcosa di grande e prezioso. Sei così, perché sei stato deformato
dal dolore della vita; ma io vedo la tua bellezza, le tue potenzialità. E voglio
che torni a risplendere”.
E l’amore
“materno” di Gesù, da sentimento, diventa
azione: “Stese la mano”. Il verbo “ekteino” vuol dire proprio “distendere”, un allungare le mani, protenderle:
Gesù lo ama e il suo amore si fa azione, si protende verso di lui e lo tocca.
Immaginiamolo quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno
alla larga, tutti dicono: “Tu sei peccatore per questo sei ammalato; tu non hai
speranze”; mentre Gesù, il maestro - sfidando la religione per la quale chi
toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro – si “distende”, gli va incontro, allunga la mano e lo “tocca”; il verbo greco “apto” oltre che “toccare” indica “afferrare”:
un significato che rende l’azione di Gesù ancora più amorevole: si dirige decisamente
con le braccia protese verso di lui, ma l’uomo, consapevole della sua
deformità, istintivamente si ritrae, tenta di scappare; ma Gesù lo “afferra”, lo trattiene con forza (“lo voglio”), e aggiunge “guarisci”. In altre parole, “sii te
stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha
impresso in te quando ti ha creato. Se ti liberi del rancore, dell’amarezza, della
vergogna, dei rifiuti che ti hanno deturpato, riacquisterai la tua luce
primordiale”.
Ecco,
questo in sostanza vuol dire “guarire”:
ritornare ad essere se stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea che Dio, la
Vita, aveva in testa per noi e che i fatti e le situazioni umane hanno gradualmente
deformato, alienato, distrutto. Come a dire “sii ciò che eri; ritorna ad essere
esattamente quello stesso che Dio aveva in testa quando ti ha pensato”.
Perché
c’è tanto scontento sulla terra, tanta infelicità? Perché le persone non vivono
quello che sono: vogliono essere qualcos’altro che non sono, vogliono essere continuamente
“altro”. Non si riconoscono in chi sono, e cercano affannosamente di vivere
qualcosa che non sono. La felicità invece è fare esattamente ciò per cui siamo
stati creati. Se vogliamo altre cose, primo, non riusciremo mai a farle e,
secondo, la nostra vita sarà sempre incompleta, vana, non realizzata, inutile.
Se uno non vive la propria “forma” si sforma, si deforma.
Ci chiediamo continuamente: “Che devo fare?”. Domanda più che lecita. Ma non
ci accorgiamo che intorno a noi troppe persone fasulle sono pronte a darci le “loro”
risposte; e ci costringono a vivere vite non nostre, vite di altri. In realtà,
la domanda che tutti dobbiamo porci, è un’altra: “Chi sono io?”. E solo Lui,
sommessamente, può suggerirci la risposta. “Sii te stesso e saprai chi sei; con
il mio “contatto” guarirai dalla tua lebbra e vivrai ammirandomi nella tua
immagine”. Questo vivere è la sorgente della vita, della felicità, del nostro
esserci.
La
risposta di Gesù al lebbroso: “Lo voglio,
guarisci”, stupenda, rassicurante, entusiasmante nella sua essenzialità, merita
bene qualche altra considerazione.
Prima
di tutto Gesù non teme di sporcarsi le
mani, di contagiarsi, e tocca quel
poveretto devastato dalla lebbra. Egli crede in lui. Lo conosce da sempre, lo ama;
si sporca le mani, si lascia coinvolgere da lui, proprio perché lo ama: e
subito l’altro inizia a guarire. Potenza dell’amore.
Un
giorno una suora disse a Madre Teresa: “Madre perché i miei ammalati non
trovano la pace come qui da te?”. “Perché io non lavoro per portar loro la
pace; io la trovo qui con loro”. Sporcarsi
le mani vuol dire condividere:
“Mi metto in gioco con te e ti accompagno nella tua strada”. Questo è l’amore
vero, fratelli, l’amore autentico; un amore fiducioso e lungimirante che dice: “In
te c’è una sorgente pura; io la valorizzerò”.
Può succedere
che anche noi, poveri lebbrosi, perdiamo il senso della nostra origine e del nostro
essere; però se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di calarci
completamente nella nostra anima, scopriremo sicuramente una piccola radice,
una minuscola parte di noi che non è deformata, che non è corrotta, distrutta. È
la nostra sorgente di luce interiore, che può anche essere spenta, offuscata,
coperta, ma non cancellata. È come entrare in una stanza completamente buia: non
si vede nulla, ma la luce c’è, basta girare l’interruttore, aprire le
tapparelle. Con il soffio della vita, tutti abbiamo ricevuto questo dono di
luce: ripeto, può capitare che in qualcuno non sia accesa, non risplenda, ma
c’è (e continuerà ad esserci).
Ecco
perché, fratelli, ogni uomo merita rispetto, onore, accoglienza. Non per quello che fa, ma
per quello che è, per la sua essenza. Possiamo certamente condannare quello che
fa, possiamo rifiutarlo o non accettarlo; ma dobbiamo sempre ricordare che nel suo
profondo vive e sgorga la stessa nostra Sorgente Pura. È per questo che,
davanti a Lui, siamo tutti uguali; è per questo che ogni uomo è mio fratello: e
in questo tempo di decadimento dei valori morali, di chiusura alla religione e
a Dio, di mancanza di validi riferimenti, dobbiamo riscoprire questa realtà e
dare nuovo vigore alla nostra spiritualità: “Tu sei mio fratello. Non temere, camminiamo
insieme, corriamo al Suo passaggio sulle strade della nostra vita, e
chiediamogli a gran voce: Se vuoi, puoi purificarmi!”.
“Io lo
voglio!” risponde Gesù al lebbroso; “Io lo voglio!” è sempre pronto a
rispondere anche a noi. Ma noi, lo vogliamo veramente? vogliamo che Gesù ci
guarisca? È importante chiederselo, perché Dio non può niente se noi non lo vogliamo.
Dio può tutto, ma solo se noi lo vogliamo.
Verrebbe
da dire: “Esiste forse un ammalato che non vuole guarire? Tutti lo vogliono!”. Eppure
non è così, fratelli. Perché “guarire”
vuol dire “rendere puro, luminoso”,
portare luce nel nostro buio, ridare forza al nostro fisico stremato, fare
pulizia, eliminare le impurità della nostra lebbra. Tutte cose che ci
coinvolgono in prima persona, che costano fatica. Tutti vogliamo guarire, ma
non tutti siamo disposti a faticare, a collaborare, a metterci del nostro, ad
accettare le conseguenze della guarigione. Non possiamo guarire senza
trasformarci radicalmente. Non siamo più noi, non siamo più l’originale; e dobbiamo
essere noi a voler “guarire”, ad abbandonare questa nostra falsa e deformante
identità per ritornare alla purezza originale. Tutti vorremmo guarire senza far
nulla; senza cambiare idee; senza cambiare le nostre certezze, i nostri pensieri,
il nostro modo di vivere. Ma guarire così è impensabile! Se il nostro modo di
vivere e di pensare non ci guarisce, vuol dire che dobbiamo cambiare mentalità
e modo di vivere: insistere sulle nostre posizioni significa ammalarsi sempre
più gravemente. “Io lo voglio” continua a ripeterci Gesù. E noi che aspettiamo
ancora? Affrettiamoci, “tocchiamolo”. Amen.
«La suocera di Simone era a
letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece
alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva».
Il
vangelo di oggi ci offre l’opportunità di fare una serie di considerazioni.
Siamo sempre in Galilea, nella cittadina di Cafarnao, dove Gesù ha fissato la
sua provvisoria dimora; e qui passava i suoi giorni “insegnando” e “guarendo”.
A
questo punto Marco ci offre una notiziola, un piccolo spaccato di vita privata.
Che succede? Gesù ha appena finito di parlare nella Sinagoga, e viene sollecitamente
informato che la suocera di Simone è a letto con la febbre, gravemente malata. Una
innocente annotazione, che però ci rivela un particolare della vita privata di
Simone, il pescatore che poco prima aveva abbandonato il suo lavoro per seguire
Gesù: che cioè è sposato, ha una famiglia da mantenere, possiede una casa, in
cui abita con la moglie e la suocera. Quest’ultima dunque sta male, è a letto
con la febbre, e per Gesù, che guarisce chiunque incontra nel suo cammino, è assolutamente
naturale correre a casa di Simone e guarire la sua parente. Un normale fatto di
vita quotidiana che potrebbe anche esaurirsi qui, se non fosse per un
particolare che mi ha incuriosito e che mi ha spinto ad andare oltre: la “malattia”
della suocera.
Marco
parla di “febbre”: una febbre così
alta da costringerla a letto. Ora, leggendo il testo, penso che sarà successo anche
a voi di domandarvi quale fosse in realtà la vera causa di questa “febbre”. La risposta è facilmente
intuibile: se pensiamo infatti che il genero di questa poveretta, l’unico uomo
di casa, poche ore prima, per seguire Gesù, aveva piantato reti, barca e lavoro,
distruggendo così, in un istante, la tranquillità e la sicurezza della loro
esistenza, arrivando addirittura a togliere materialmente, a lei e a sua figlia,
il pane di bocca, beh, i motivi per farsi cogliere da un febbrone, questa
povera suocera, li aveva proprio tutti. “Ma che sta facendo questo scriteriato
di Simone? È diventato matto? Come facciamo noi ora? Non siamo mica ricche noi!
Non può certo permettersi una cosa del genere! Come camperemo? Sarà per caso questo
Gesù che ci darà da vivere? Non si rende conto che si sta esponendo alle
critiche della gente e della sinagoga? Questo Gesù per il quale lui stravede, si
è già messo contro la sinagoga, e molti dicono che fa cose “pericolose”; dicono
addirittura che guarisca i malati in nome del “demonio”. Possibile che quel
credulone di mio genero si lasci abbindolare da un tizio come questo? Io mi
vergogno perfino ad uscire di casa! Qui le cose si mettono veramente male!”. E
questa poveraccia, angustiata continuamente da tali preoccupazioni, peraltro
giustificabilissime, impotente di fronte alla decisione già presa dal genero, viene
colta improvvisamente da un febbrone da cavallo.
La
parola greca “pir” (da cui “pirèssusa”
nel testo originale), indica appunto “fuoco”; e in senso derivato, “febbre, calore,
alterazione”. La suocera è pertanto “infuocata”, alterata; altro che “febbricitante”,
è piena di rabbia, furiosa; e più che con Simone, che considera una testa
calda, un credulone, lo è soprattutto con Gesù, che considera la causa scatenante
di tale situazione.
La sua
“febbre” non è altro che un segnale della
sua lotta interiore, è sinonimo di “rabbia” che cresce sempre più col passare
delle ore; è un cartello che dice chiaramente “qui c’è guerra; state attenti!”;
è il segno esteriore di quella sofferenza interiore che gli sconquassa l’anima
e che ancora non riesce a buttar fuori con le parole.
Dunque
la suocera sta male. E Gesù che fa? Appena lo avvisano del malessere di questa
povera donna, corre subito a trovarla. Egli ha intuito immediatamente la
situazione, ha capito al volo la vera causa della sua malattia. Poteva far
finta di niente; poteva tranquillamente dire: “Beh, se ha qualcosa contro di me,
venga a dirmelo di persona! Sono problemi suoi, non miei!”.
Ricordate
invece cosa ci dice Gesù? “Seti ricordi
che tuo fratello ha qualche cosa contro di te,lascia lì il tuo dono davanti
all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad
offrire il tuo dono” Mt 5,23s). E questo è esattamente il comportamento coerente
di Gesù: egli corre e va subito da lei.
Primo
insegnamento: nutriamo rabbia, risentimento, odio, nei confronti di qualcuno? Non
perdiamo tempo; andiamo noi da questo qualcuno, chiariamoci, confrontiamoci con
lui. Perché, fratelli miei, l’odio genera altro odio e il fuoco della rabbia dissecca
il cuore e acceca l’anima.
Gesù,
ci dice il vangelo, «si accostò, la
sollevò e la prese per mano».
“Si
accostò” (prosèrchomai) vuol dire esattamente “farsi vicino”. Fra i due c’era
distanza, ma Gesù si fa vicino, riduce la distanza, prende lui l’iniziativa e
la incontra. “La sollevò” (egheiro, “alzarsi, svegliarsi, sollevare, risorgere”):
la donna è distesa, non vuole avere a che fare con Gesù, ma Gesù le parla, le
sta vicino, finché la donna gli dà ascolto e “si solleva” dalla sua paura che
la domina e dalla preoccupazione per ciò che sta accadendo.
“La
prese per mano”: il verbo greco “krateo” vuol dire “dominare, impadronirsi,
impossessarsi, avere potenza”. Gesù vuole incontrarla, toccarla, perché vuole
che questa donna “senta” chi è lui, che possa “farne esperienza” di persona,
che lo possa “conoscere”, “impadronirsi” di lui. Da questo verbo deriva anche
la parola “cratere”: la donna è un
cratere pieno di fuoco e nella sua debolezza potrebbe esplodere; Gesù, invece,
è un cratere di energia, la sua “lava” è vitale, non rimane dentro covando odio,
ma si espande benefica, trasformandosi in amore, in tenerezza, in attenzione
per l’altro; riducendo, annullando, la distanza che esiste con lui. A questo
punto cosa accade tra Gesù e la suocera di Simone? Non sappiamo cosa si siano
detti o cosa sia esattamente successo. Ma dalle poche parole del vangelo capiamo
che Gesù, sentito il risentimento della donna, ha preso l’iniziativa è andato
da lei, piano piano le si è avvicinato, le ha parlato; finché la donna ha capito
che quell’uomo non è né un pazzo, né un fuori di testa. E lo ha accolto. Anzi, come
sottolinea il vangelo, si è subito alzata ed ha iniziato a “servirli”.
Tutta
la sua rabbia, il suo astio, improvvisamente sono scomparsi. Appena incontra
Gesù, in lei avviene una trasformazione radicale: il suo è un passaggio simultaneo
dall’ignorare Gesù, al mettersi a suo servizio; dall’odio profondo, all’amore assoluto
per quest’uomo; dal volergli stare il più lontano possibile, al volergli stare sempre
vicino; dal considerarlo come un nemico, al sentirlo come un amico, uno affidabile,uno
su cui può contare, che è sempre con te e per te.
Secondo
insegnamento: finché la donna combatte Gesù, non può guarire. Ma quando lo
ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando ascolta le sue
ragioni, allora tutto il suo fuoco, la sua febbre e il suo odio, scompaiono.
A
volte noi proviamo rancore verso i nostri fratelli, perché siamo concentrati unicamente
su noi stessi: non ci mettiamo nei panni degli altri, non vogliamo ascoltarli,
non vogliamo sentire le loro ragioni. Vediamo solo noi stessi e sentiamo solo
il nostro dolore. Ma se riusciamo a comunicare il nostro dolore, le nostre
ragioni, la nostra parte (e se loro si lasciano toccare da ciò), allora stabiliamo
con loro un contatto e sarà possibile incontrarsi; e tutte le ragioni del
nostro odio finalmente cadranno.
Anche
quando qualcuno ce l’ha con noi, cosa possiamo fare? Come dobbiamo comportarci
quando qualcuno è arrabbiato con noi? Beh, la prima reazione, quella naturale, è
di stargli più alla larga possibile. Ma questo crea altra diffidenza, ingigantisce
la distanza.
Impariamo
invece da Gesù. Egli fa due cose.
La
prima: prende lui l’iniziativa e va di persona. Spesso noi rimaniamo nella
nostra rabbia, facciamo gli offesi e diciamo: “Deve venire lui da me! Con
quello che mi hai fatto è il minimo che possa fare!”. Quando si è feriti è
normale chiudersi: ma se rimaniamo chiusi nel risentimento non c’è possibilità
di incontro; se ci chiudiamo nel silenzio e ci rifiutiamo di parlare, non risolviamo
nulla.
La
seconda: usa tenerezza e amore. In fin dei conti Gesù capisce le ragioni di
questa donna: sa che è arrabbiata perché non lo conosce; perché lui ha un suo
modo di vivere che non è “come quello di tutti”; perché Simone ha fatto una
scelta radicale e difficile, contraria al buon senso, che lei non arriva ancora
a capire.
Ebbene
fratelli: nel mondo c’è tanta rabbia e tanto dolore: è una prerogativa della umana
esistenza. Quando una persona è arrabbiata, vuol dire che nel suo intimo è
ferita; e con una persona ferita, dobbiamo avere tanta comprensione, tanta delicatezza,
tanta cura: altrimenti non riuscirà mai ad aprire il suo cuore. Dobbiamo ascoltarla,
questa persona; dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto dobbiamo capire
il suo dolore. Se rimaniamo nel piano della rabbia, ci facciamo solo la guerra;
se invece ci incontreremo nell’amore, allora ci capiremo, allora non saremo più
indifferenti gli uni con gli altri.
Così
faceva Gesù per le strade della Palestina. Tutti i giorni, per tutto il giorno.
Ma da dove
prendeva tanta forza, il Signore, per riuscire ad accogliere tutti, ad
ascoltarli, a guarirli? Da dove prendeva tanta energia per fare della sua vita
un “annuncio” costante?
Dalla
preghiera, fratelli. Da una preghiera lunga e attenta, che gli permetteva di capire
la volontà del padre. Una preghiera che stupisce e affascina tutti, i discepoli
e noi. Una preghiera che non è la lista della spesa da presentare a Dio, quando
le cose non funzionano, ma il dialogo intimo e intenso di chi si lascia
plasmare. E poiché la giornata è frenetica anche per Lui, Gesù prega di notte.
Così faceva
Gesù; così dobbiamo fare anche noi, se vogliamo seguirlo come Simone e i discepoli.
Rubiamogli questo suo grande “segreto”: poniamoci anche noi umilmente in un costante,
intimo colloquio col Padre, che ci permetta di fare sempre della nostra vita un
dono agli altri. Amen.