mercoledì 25 novembre 2015

29 Novembre 2015 – I Domenica di Avvento – Anno C


«Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo»( Lc 21,25-28.34-36).

Inizia il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e che ci prepara al Natale.
Sul piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita” possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. Non è un dato rituale, cronologico, tradizionale. E’ un fatto: Dio continua a nascere; Dio, dove c’è spazio e disponibilità, certamente verrà. Ecco allora che l’avvento non è tanto un periodo dell’anno ma una dimensione della vita, è la certezza che una nuova nascita sta per avvenire in noi: Dio, con la sua venuta in noi, vuole sorprenderci, meravigliarci; vuole portarci lontano, molto lontano dalle nostre derive di insicurezza.
Questo vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche Luca usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche qui egli verrà in maniera apocalittica, da fine del mondo. Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo?”.
Il termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele (7,13-14). Per “Figlio dell’uomo” si intende un uomo comune che, partendo da condizioni umili, è chiamato a vivere qualcosa di grande, ha una missione importantissima, è in intimo contatto con Dio l’Altissimo.
Un particolare che ci deve rincuorare: perché anche noi non siamo certo molto “importanti”. Anche noi, tutto sommato, siamo dei perfetti “nessuno”. Eppure possiamo essere “Figli dell’uomo”. Anche per noi cioè c’è qualcosa di grande! Anche noi siamo grandi! Anche la nostra vita ha un senso profondo per noi e per il mondo. Certo il Figlio dell’uomo non nasce senza sconvolgimenti, senza “angoscia” e sconvolgimenti. Tutto ciò che è grande, vero e potente, ha un costo. E diventare noi stessi ha il costo più grande.
Se guardiamo all’investimento dal punto di vista di coinvolgimento, pericolo, esposizione, difficoltà, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se guardiamo a ciò che possiamo essere, allora ne vale proprio la pena; anzi di più: ne vale assolutamente la pena! Perché questa è la nostra vera libertà: diventare ciò che possiamo essere.
Poi il vangelo parla di vegliare, di non dormire (21,36), di non farci prendere dal sonno.
Gesù lo diceva in continuazione: “Tenete gli occhi aperti, non dormite; non addormentatevi; non anestetizzatevi”. Perché se dormiamo, ad un risveglio improvviso, tutto ciò che ci succede intorno, sembra un tranello, un imprevisto: ma non è così.
Quante persone dicono di star male, di soffrire, di essere insoddisfatte. Ma cosa fanno per uscire dalla loro situazione? Alcuni dicono che “non hanno tempo; che è difficile, che è troppo impegnativo”: e continuano a dormire!
Altre persone, invece, dicono di voler cambiare. E si buttano a capofitto: frequentano tutti i corsi di catechesi, sono presenti a tutti gli incontri di spiritualità, in qualunque iniziativa sono sempre entusiasticamente in prima fila: ma poi, se si guardano dentro, sono sempre allo stesso punto, non fanno un passo in avanti. È come se dormissero profondamente.
A volte, purtroppo, anche i cammini spirituali possono diventare una droga: ne facciamo tanti, a volte troppi, pensando che questo basti a renderci migliori. Talvolta succede anche, paradossalmente, che questi percorsi individuali di spiritualità, frequentati al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo miglioramento di noi stessi, diventino al contrario una fuga dalle nostre responsabilità, diventino un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle nostre parrocchie: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di perfezionamento in quell’altra parrocchia, in quel Centro di spiritualità; non posso mancare! Del resto quello che succede qui, è ben poco istruttivo, non mi attira, non vedo spiccare “carismi”, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli più impegnativi, più avanzati! Io sento di incontrare Dio solo in quelle specifiche realtà”.
Quanto ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella città, in quella parrocchia, dove Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo nostro”, seguendo le nostre ispirazioni, non vuol dire che siamo svegli e nella giusta attesa della sua venuta.
Per questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).
A pensarci bene, allora, una grande forma di preghiera è il non prendere sonno, non dormire.
Il verbo “pregate”, infatti, (“deomai”), vuol dire anche “aver bisogno, necessitare, desiderare”. Quindi noi, “abbiamo bisogno di non prendere sonno”, di non alienarci, di non vivere in un mondo che non è il nostro, di non ubriacarci di chimere.
Non permettiamo che il nostro cuore prenda sonno e non provi più la gioia per le cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per il luogo dove Dio ci ha chiamati: non corriamo il pericolo che la nostra anima, stanca di cercare Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire la Sua voce proprio in casa nostra, dove Lui ci ha chiamati e dove ci aspetta pazientemente.
Non permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”, da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, nella nostra normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, nella nostra Parrocchia, tra i nostri fratelli più vicini.
Perché quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro, non ci chiederà quanto conosciamo di lui, quanto abbiamo studiato per capirlo, quanto lo abbiamo cercato di qua o di là, in ogni angolo della terra; ma più semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in casa nostra, nella nostra comunità, per i nostri fratelli; su quanto siamo stati attivi nel farlo conoscere, amare, servire, insieme a noi, in quell’angolo di mondo in cui Lui ci ha posto.
Amen.


mercoledì 18 novembre 2015

22 Novembre 2015 – Solennità di Gesù Cristo Re dell’universo

«Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,33-37).

Oggi la chiesa celebra la festa di Cristo Re. Il vangelo di Giovanni ci propone una scena del processo di Gesù: dopo il suo arresto e la consegna da parte del sommo sacerdote Caifa alle autorità romane, Gesù risponde ad una serie di domande che gli vengono poste da Pilato.
Interessante è qui sottolineare un particolare: Gesù è legato, ma in effetti è l’unico libero: tutti quelli che lo giudicano, apparentemente “liberi”, non legati, sono invece imprigionati tutti dalle loro paure.
Le autorità religiose sono infatti legate dalla paura di perdere i loro privilegi, la loro posizione. Anna e Caifa, le autorità religiose, sono terrorizzati dal potere di Gesù e dalla sua libertà. Gesù è un uomo pericolosissimo perché fa ragionare perfino le guardie che vanno da lui per arrestarlo. Un uomo che fa ragionare le persone, un uomo libero, è pericoloso perché non è controllabile da niente e da nessuno. Ogni potere si fonda infatti sul fatto che chi sta sotto deve credere a chi sta sopra; e quando questo non succede più, il potere di chi sta sopra crolla. Perché se chi sta sotto inizia a ragionare, a pensare diversamente, a vedere le cose da un altro punto di vista, questo mina il potere di chi sta sopra. Per questo Gesù è da eliminare.
La massima vittoria del potere è smettere di far pensare autonomamente quelli che stanno sotto. Quando chi sta sotto è ubbidiente, un semplice esecutore di ordini, un burattino, allora chi sta sopra può fare tutto.
Anche Pietro, che seguiva Gesù da lontano, è legato dalla paura di scegliere, ha paura di schierarsi, di prender una posizione chiara, di stare dalla parte “di Gesù”. E in certe situazioni il non schierarsi è condannare la verità.
Pilato stesso è legato dalla paura dell’opinione altrui: i capi religiosi portano Gesù nel pretorio, la sede di Pilato, ma non entrano per non contaminarsi, dovendo mangiare la Pasqua (Gv 18,28). Pilato è un pagano e loro, da bravi credenti, non entrano in luogo pagano.
Giovanni mette in luce l’ipocrisia di questa gente: “Stanno per condannare Gesù ma non entrano nel pretorio per non contaminarsi!”. Sembra dirci: “Attenti a quelli troppo devoti, troppo pii, a quelli che hanno troppa fede!”: esibire troppa bontà, spesso rivela il contrario: l’assenza, la carenza totale di bontà.
Quando gli portano Gesù, Pilato dice loro: “Che accusa portate contro questo uomo?”. E loro si sentono subito offesi: “Se non fosse un malfattore non te l’avremmo consegnato” (Gv 18,30).
Le persone super-religiose non si sentono mai in discussione: gli altri sbagliano, gli altri fanno male, gli altri sono cattivi, ma loro mai. Questi infatti vanno da Pilato e gli fanno capire a chiare lettere: “Noi l’abbiamo già condannato!”. Loro non possono sbagliare, loro sanno.
C’è un modo di ragionare talvolta così arrogante, come in questo caso, che invece di contribuire a farci cambiare opinione, a farci rivedere il nostro parere, a farci evolvere, a farci ricredere, in una parola invece di aiutare a “convertirci”, contribuisce solo a rinforzare in noi la presunzione di stare nel giusto.
Allora Pilato dice loro: “Prendetelo e giudicatelo secondo la vostra legge(Gv 18,31). Pilato ricorda a questa gente che non si può accusare qualcuno senza prima averlo ascoltato. E questi gli rispondono: “A noi non è consentito di mettere a morte nessuno” (Gv 18,31-32). Eccoli qua! Non portano Gesù da lui per processarlo ma per ammazzarlo. “A noi non è permesso mettere a morte nessuno!”. Per ottenere da Pilato il verdetto di morte, lo ricattano minacciandolo di inadempienza nell’esercizio della giustizia. Una falsa accusa che, se riferita a Cesare, poteva compromettere la sua posizione: e questo lo induce ad accogliere la loro richiesta.
Prima però, e da questo punto inizia il vangelo di oggi, Pilato entra nel pretorio, chiama Gesù e gli dice: “Tu sei il re dei Giudei?” (Gv 18,33). Pilato sa già che i capi religiosi accusano Gesù di essere un rivoluzionario.
Ma Gesù ama tutti, anche Pilato: per questo gli chiede di ragionare con la sua testa: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Cioè : “Sei tu che lo pensi o sono gli altri che pensano in te? Ti fai influenzare dagli altri?”. E Pilato di contro: “Sono forse io Giudeo!”. Cioè: “Non sono giudeo! Io non penso come la tua gente”. Ed è vero: non pensa come loro ma si lascerà condizionare dal loro giudizio. Pilato può liberare Gesù, ma ha paura di quello che potrà pensare e fare la gente.
L’unico uomo che ha realmente potere, Pilato, è l’uomo più legato e imprigionato.
E qui c’è una frase tremenda: “La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me: che cosa hai fatto?” (Gv 18,35). Gesù portava un Dio diverso, un Dio nuovo. Per questo era pericoloso. Il vangelo, la buona novella, non è stata rifiutata perché era buona ma perché era nuova. Le persone preferivano credere al vecchio (anche se era disumano) piuttosto che accettare il nuovo cambiamento e la nuova immagine di Dio.
Allora Gesù chiarisce le cose: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36).
Cosa gli dice Gesù? “Il mio regno non ha nulla a che vedere con i regni di quaggiù. I regni di quaggiù hanno soldati, servitori e armi; e i potenti si fanno servire. Ma nel mio regno più uno è potente, grande, e più lui si mette a servire, non a farsi servire”. Nel regno umano la gente chiede: “Cosa fai tu per me?”. In quello divino: “Cosa posso fare io per te?”.
Nel regno umano: “Mi ami? Mi vuoi bene? Perché non me lo dici mai?”. In quello divino: “Io ti amo; ti voglio bene; io ci sarò sempre per te; e tu potrai venire sempre da me!”.
Nel regno umano: “Mi aiuti? Perché non mi aiuti?”. In quello divino: “In cosa ti posso essere di aiuto?”. Nel regno umano: “Non ci sei mai! Mi trascuri!”. In quello divino: “Esci con me? Mi piacerebbe invitarti a mangiare con me. Ti va?”. Nel regno umano: “Tu non mi hai mai dato nulla”. In quello divino: “Sento quanto mi ami; riconosco il tuo aiuto; grazie per tutto quello che hai fatto per me; ti sarò sempre riconoscente”.
Nel regno umano la gente chiede, pretende, vuole e si aspetta dagli altri. Nel regno divino, invece, la gente si propone, si offre e si mette a servizio.
Allora Pilato gli dice: “Dunque tu sei re?” (Gv 18,37). E Gesù: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Gv 18,37). Gesù è il re della verità, ma di quale verità? La verità di Dio.
Gesù manifesta la verità di Dio: Dio non è colui che chiede, che vuole, che s’indigna o s’arrabbia, ma colui che si mette in ginocchio davanti agli uomini e lava loro i piedi. Dio non chiede, Dio dona. Dio non vuole l’amore, Egli viene a portare il suo.
Questo era inaccettabile per i religiosi del tempo: se l’uomo è amato da Dio, loro, i sacerdoti e le autorità del Tempio, a cosa servono? Se l’uomo ha libero accesso all’amore di Dio, perché andare al Tempio per il perdono dei peccati? Se Dio ti ama al di là di tutto, perché rispettare tutte le 613 regole religiose? Se è Dio che ama, a che serve il culto?
Tutto questo non poteva essere accettato dalle autorità religiose del tempo perché scardinava alla base le loro strutture, perché in questo modo loro perdevano di senso. Per questo Gesù deve essere ucciso.
Gesù dice: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,37). Noi avremmo detto il contrario: “chi ascolta la voce di Gesù è nella verità”. Cosa vuol dire esattamente Gesù? Verità (aletheia) vuol dire “togliere il velo”. La verità è quella cosa che ognuno deve scoprire da solo: deve tirare su il velo e vedere cosa nasconde sotto. Magari non è come lui pensava, magari non è come voleva, magari lo costringe a cambiare vita, magari lo sconvolge, magari è difficile da accettare, magari è dolorosa. Ma è la verità.
Per ascoltare Gesù, bisogna avere questa capacità, essere disponibili a non mettere “filtri”, a non anteporre continuamente le nostre vedute alla verità.
Per ascoltare Gesù, portatore di verità, dobbiamo avere il coraggio di affrontare la verità, di essere pronti cioè a scoprire, a vedere, ad affrontare ciò che si cela dietro la nostra facciata di perbenismo, qualunque cosa essa nasconda. Altrimenti di Gesù accetteremo solo ciò che vorremo accettare, solo ciò che ci piacerà o ciò che è conforme alle nostre idee.
E Pilato chiede: “Che cos’è la verità?” (Gv 18,38). A lui non interessa nulla della verità: cerca solo di menar il can per l’aia. E se ne lava le mani. Pilato non accetta la verità; egli agisce seguendo il suo credo: delle verità giudee, a lui non interessa proprio nulla. Per due volte dice: “Io non trovo in lui nessuna colpa” (Gv 18,38; 19,6) e cerca di liberarlo (Gv 19,12). Un paradosso: Lui, che non vuole sapere, che non vuole “aprirsi”, Lui conosce perfettamente la verità: Gesù è innocente. Ma la sua cecità, la sua ignavia, il suo tornaconto, avranno il sopravvento su di lui: si arrenderà, se ne fregherà della verità, e lo consegnerà in mano ai Giudei.
Ebbene: cosa ci dice oggi questo vangelo? Che Gesù fu un uomo libero: e che se vogliamo essere felici, dobbiamo essere “liberi” anche noi.
Per molte persone, banalmente, la libertà consiste nel fare ciò che vogliono, nel seguire i propri istinti, nell’ignorare la volontà degli altri; è “libero” chi mostra i muscoli, chi esibisce la sua forza, chi è franco e dice le cose in faccia: ma tutto questo, scusate, non vuol dire essere “liberi”; vuol dire semplicemente essere aggressivi. Questa gente non è libera: ma giustifica il proprio comportamento, la propria forza, la propria “pseudo sincerità”, la propria franchezza, solo per legittimarsi, per essere cioè “liberi” di ferire il prossimo, di comportarsi come meglio crede: ma questa non è libertà, è sopraffazione!
Per il vangelo, libertà è vivere nella verità: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Ciò significa che noi diventeremo liberi solo se scopriremo chi siamo realmente, solo facendo verità su di noi stessi. La libertà è un cammino, è un processo dinamico. E più diventeremo liberi, più diventeremo sovrani, re, padroni della nostra vita. Ogni verità, che scopriremo dentro di noi, ci renderà sempre più liberi; e ogni libertà ci renderà sempre più felici.
Amen.

mercoledì 11 novembre 2015

15 Novembre 2015 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,24-32).

Il vangelo di oggi è uno di quei testi che viene preso come l’annuncio della fine del mondo. Ci sono dei gruppi, come i testimoni di Geova o i gruppi religiosi apocalittici, che parlano moltissimo di “prepararsi”, di “vegliare”, di “essere pronti”, di “fine del mondo”, vedendo segnali premonitori in ogni dove.
Ma questo passo del vangelo, come tanti altri dello stesso tenore, non alludono affatto alla fine del mondo. Parlano della fine di “un mondo”, è vero;  ma non della fine “del mondo”.
Penso che il bisogno di attaccarsi alla “fine del mondo” risponda soltanto ad una loro esigenza interiore, inascoltata, di far finire un loro mondo, a cui sono molto attaccati e da cui non riescono a staccarsi. Sperano che accada dal di fuori , e dall’alto, ciò che loro non riescono a fare personalmente nel loro intimo.
Bene: il testo di oggi inizia dunque col v. 24 del capitolo 13 di Marco. C’è un antefatto: al primo versetto dello stesso capitolo un discepolo, uscendo con Gesù dal tempio, gli dice: “Maestro guarda che pietre e che costruzioni” (Mc 13,1): di fronte a tanta bellezza, a tanta maestosità e potenza del tempio di Jahweh, il poveretto rimane rapito. Non per nulla tutti erano convinti che se Gerusalemme si fosse trovata in difficoltà, Dio sarebbe intervenuto in prima persona proprio lì, nel tempio, per salvarla.
Ma Gesù gli risponde: “Vedi queste grosse costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non venga distrutta” (Mc 13,2). E più avanti, ribadendo il concetto, dice: “Ciò sarà il principio dei dolori” (Mc 13,8): in realtà il testo greco dice: “sarà il principio delle doglie”; cioè: sarà doloroso, come il partorire, ma che Gerusalemme venga distrutta, è un bene, è un fatto positivo, poiché questo tempio impedisce la comunione tra Dio e gli uomini.
Già dall’inizio del capitolo 13 si parla quindi di cadute di elementi ritenuti simboli di certezze, elementi indistruttibili. “Infatti sorgeranno falsi cristi e falsi profeti i quali daranno segni e prodigi per sedurre, se possibile, gli stessi eletti (Mc 13,22). È un avvertimento.
Ma vediamo cosa segue subito dopo. Gesù (siamo al vangelo di oggi), prosegue:
“In quei giorni, dopo quella tribolazione (cioè la distruzione del tempio) il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,24).
Cosa vuol dire qui Marco? Egli utilizza semplicemente delle espressioni dell’Antico Testamento, in cui il sole, la luna, gli astri erano oggetti di culto, venivano adorati dalla gente.
Noi, quando parliamo di religione ebraica, pensiamo subito ad una religione rigidamente monoteista, una religione cioè che adorava un unico Dio. Ma se andiamo a vedere non è stato sempre così: all’inizio anch’essi credevano nel sole, nella luna e in tante altre divinità; soltanto con il tempo sono arrivati a credere in un solo Dio. C’è stato, cioè, nel corso dei secoli un lungo processo di purificazione, anche se in certi periodi la religione politeista cananea riprendeva il sopravvento.
Allora cosa sono questi “astri” che cadranno dal cielo? Qui, lo ripeto, la fine del mondo non c’entra niente: nessuna calamità, nessun giudizio, nessun sconvolgimento cosmico. Lo sconvolgimento e la catastrofe riguardano solo le entità celesti (gli dei) che abitano nei cieli, non la terra.
In altre parole, tutte queste divinità pagane sono destinate a cadere giù definitivamente: un certo tipo di religione pagana finisce, perde il suo splendore e l’idolatria entra in crisi. Ma prima è necessario che “il vangelo sia proclamato a tutte le genti” (Mc 13,10). Cioè: quando il vangelo sarà accolto da tutti, queste divinità pagane finiranno, perché di fronte al vangelo tutta questa religiosità scompare.
Ecco perché “gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,25: il verbo indica un cadere continuo): non è una pioggia di asteroidi, di stelle, di pianeti, ma semplicemente la caduta progressiva e inarrestabile delle divinità celesti di quel tempo; inoltre anche i potenti, i principi, i re, cioè tutte quelle persone che si ritenevano “divine”, di fronte all’annuncio e all’espansione del vangelo, subiranno la stessa tragica fine .
Per capire ancora meglio dobbiamo riferirci al profeta Isaia: “Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli?” (Is 14,12).
Questo “astro del mattino” (identificato con Lucifero, precipitato dall’alto dei cieli) altri non era che il re di Babilonia, che si arrogava il rango divino, era “salito in cielo” diventando, oggi diremmo, una vera “star”, era cioè convinto di essere Dio, una divinità. E cosa dice Isaia di lui?
“Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio, innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi (=sotto terra), nelle profondità dell’abisso” (Is 14,13-14); il potente re di Babilonia, che si credeva un Dio, è finito anch’egli in una tomba (lett. nell’Ade/Sheol, nel regno dei morti)! Così sulla tomba di Alessandro Magno hanno scritto: “Basta questa terra (un metro per due!) all’uomo a cui non bastava il mondo”. Ecco dov’è finita tutta la sua potenza!
Dunque: “le potenze nei cieli saranno sconvolte” (Mc 13,25). Sono tutte queste pseudo divinità (potenti, governanti, false divinità, ecc.) che finiranno saranno sconvolte!
“Allora si vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26). “Venire sulle nubi”: le nubi non sono il mezzo di trasporto di Dio, ma indicano la realtà di Dio, come avviene nella trasfigurazione in cui nella nube la voce dice:  (cfr. la nube della trasfigurazione e la voce: “Questi è il figlio mio prediletto” (Mc 9,7). Cioè: gli “astri” cadono, mentre il Figlio dell’uomo “sale”.
Qui c’è una regola valida in ogni tempo: ogni volta che cade un regime ingiusto, un potere disumano, la dignità, l’Uomo, si afferma (il Figlio dell’uomo = la vera umanità). Ogni caduta di un sistema oppressore o di un’idea iniqua, qualunque esso od essa sia, è una liberazione per l’uomo.
Allora non c’è una venuta fisica del Figlio dell’uomo: ma è il risplendere di Dio in noi, nella nostra cultura, nella nostra società, nelle nostre relazioni, nel nostro vivere personale e sociale.
“Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino alle estremità del cielo” (Mc 13,27).
“Manderà gli angeli”: chi sono questi angeli? Per Marco è addirittura una persona, il Battista: “Ecco, io mando il mio “ànghelon”, il mio messaggero, davanti a te” (Mc 1,2). Per cui gli angeli sono quelle persone che diventano “messaggeri” di pienezza di vita; sono i messaggeri umani di Dio. L’angelo non trasmette una dottrina ma un’esperienza: questi angeli non sono quindi nient’altro che le persone che hanno già conosciuto, che hanno già sperimentato Dio.
Saranno essi che “riuniranno gli eletti” (Mc 13,27), riuniranno cioè tutti coloro che hanno vissuto per il bene dell’uomo. Cioè: mentre le potenze dei cieli (gli oppressori), coloro che hanno combattuto contro la Vita, cadranno, tutti quelli che hanno combattuto per la Vita verranno fuori e vivranno.
Concludo: cosa può dire a noi questo vangelo?
Dobbiamo saper valorizzare ciò che ci succede, sia esso un dramma, una tragedia oppure un’occasione da non perdere, altrimenti in nessun altro modo avremmo potuto fare ciò che non volevamo o temevamo di fare.
Cadono il sole, la luna, gli astri: crollano cioè tutti i nostri punti di riferimento; può sembrare la fine, ma al contrario può essere la venuta del Figlio dell’uomo in noi, cioè la nascita di una parte di noi molto più vera, una parte di noi che altrimenti, in nessun altro modo avrebbe potuto nascere.
Noi tentiamo di controllare tutto: decidiamo, pianifichiamo, progettiamo, facciamo delle previsioni, dei sogni, cerchiamo di raggiungere sempre ciò che ci proponiamo, per i nostri sogni impieghiamo tutte le nostre energie, ecc. Bene: ma in tutto questo, dove mettiamo Dio? Dov’è il suo spazio di azione? Se decidiamo tutto noi, Lui come può agire?
Proprio per questo Dio si trova nell’imprevisto, in ciò che non ci aspettiamo, nelle sorprese. Perché questo è l’unico spazio che gli rimane per agire, visto che noi decidiamo e pianifichiamo sempre tutto. E se Dio volesse farci capire qualcosa che non vogliamo capire, in quale altro modo potrebbe farlo, se non sorprendendoci, se non dandoci qualche sberla per farci pensare?

Allora, quando tutto ci va bene, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando tutto crolla, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è l’amore, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è il rifiuto, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è la vita, viviamola e ringraziamo Dio. Quando la morte ci tocca da vicino, viviamola e ringraziamo comunque Dio. Viviamo insomma ogni istante della nostra vita, ringraziando Dio per quell’istante. Amen.


mercoledì 4 novembre 2015

8 Novembre 2015 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme e la gente lo ascolta volentieri, accorrendo da ogni parte. E qui dà una prima spallata ai notabili del Tempio: “Guardatevi dagli scribi” (Mc 12,38).

Ma chi erano questi scribi? A noi il termine “scriba” ci fa pensare a degli “scrivani”, a degli “amanuensi”, gente incaricata di copiare i libri sacri per divulgarli, ma non è così. Gli scribi erano i teologi per eccellenza, il magistero infallibile, la Dottrina della Fede del tempo. Studiavano la Scrittura tutta la vita e a quarant’anni ricevevano lo stesso “Spirito di Mosè”: e da quel momento erano “la Parola” del Dio vivente. E se vi era contraddizione tra la parola di Dio scritta e quella dello scriba, la sua era quella corretta, che tutti dovevano seguire. La loro autorità era maggiore dei re e del sommo sacerdote.
Purtroppo, a quel tempo, il grande problema degli scribi, era Gesù. Sì, perché la gente lo ascoltava, pendeva dalle sue labbra, era entusiasta delle sue parole: come era successo fin dagli inizi nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1,21-28), in cui tutti i presenti si ripetevano l’un l’altro: “Oh, questo sì che viene da Dio!” (Mc 1,27). “Finalmente delle parole chiare e comprensibili! Parlano al cuore, vengono da Dio! Non sono come quelle quelle degli scribi!”.
E decretano: “Questa è una nuova dottrina insegnata con autorità” (Mc 1,27): “nuova” non perché è un’altra: ma perché è di una qualità totalmente superiore a quella precedente, cioè a quella degli scribi.
Di fronte a questa campagna “dissacratoria”, gli scribi decidono di partire da Gerusalemme (Mc 3,22) per raggiungere il luogo dove predicava Gesù, e controllare l’ortodossia di quest’uomo che si atteggiava a Maestro. Sono in gruppo compatto, come se fossero la Santa Sede dell’epoca: non dei semplici preti ma il fior fiore di cardinali, di teologi: gente preparatissima, intelligente!
E cosa vedono? Vedono immediatamente la coerenza di Gesù: tutto quello che Lui dice e insegna, Lui stesso lo mette prima in pratica. Non possono dire alla gente: “Gesù vi inganna, vi racconta falsità” perché tutti hanno occhi: e con Lui i ciechi tornano a vedere, gli zoppi a camminare, i paralitici si rialzano e i morti tornano a vivere. Sono cose che tutti possono vedere. E loro non possono certo dire: “Non è vero!”. Allora dicono: “Sì, lo fa’, ma lo fa in nome del diavolo!”. “Gesù? È un indemoniato, un eretico! Bestemmia!” (Mc 3,22). “È vero che guarisce (non potevano negarlo!), ma fa il vostro bene per portarvi ancor di più nella perdizione”.
E qui Gesù pronuncerà le parole più dure della sua vita: “Tutti i peccati saranno perdonati e anche le bestemmie, eccetto chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo: sarà reo di colpa eterna, senza nessun perdono” (Mc 3,28-29).
Parole forti, Parole che hanno fatto da sempre tanta paura e tutti si saranno chiesti (e si chiederanno): ma cos’è questo peccato contro lo Spirito Santo? È il peccato che commettono le autorità religiose (Papa, Vescovi, preti, teologi: quanti cioè sono preposti ad insegnare e a trasmettere la Parola di Dio; qui sono gli scribi, ai quali Gesù appunto si riferisce) quando,  avvalendosi della loro autorità, sostengono che gli insegnamenti di Gesù (Vangelo e dottrina della Chiesa) non solo non fanno bene all’uomo, ma addirittura sono per lui un male, lo ingannano, lo portano alla perdizione. Non possono essere perdonati perché, consapevolmente, chiamano “male” ciò che al contrario è “bene”. Per Gesù questo è intollerabile, è la cosa più nefasta possibile.
Per questo dunque Gesù esclama senza eufemismi: “Guardatevi dagli scribi” (Mc 12,38). Che significa: “State attenti!”. Non fatevi ingannare! Non c’è da fidarsi di loro, evitateli! Non fatevi ingannare dalle loro cariche, dal ruolo e dall’immagine che ostentano. Non lasciatevi suggestionare dai modi con cui si presentano, dai comportamenti con cui si esibiscono in pubblico!”.È semplice riconoscerli, questi “scribi” di ieri e di oggi, questi “ricchi di nulla”, questi arricchiti arroganti e dispotici: perché “amano passeggiare in lunghe vesti” (Mc 12,38) (letteralmente non “amano”, ma “thelo”, vogliono). Loro non si sentono come tutti gli altri: loro sono “di più”, sono superiori a tutti gli altri; loro hanno un rapporto particolare e diretto con Dio: per questo indossano vestiti (stolè) particolari, proprio per distinguersi dagli altri.
Chi veste così, chi “sfoggia” i vari Armani, Valentino ecc., vuole essere ammirato, vuole essere notato, invidiato. Ma il vestito che li diversifica, nasconde la loro miseria interiore. Luca in 16,19 ricorda che il ricco vestito di porpora e di bisso era un poveraccio nel cuore, senza misericordia, senza amore, pieno solo di inferno e di insensibilità. Più uno è povero nello spirito, vuoto dentro, e più cercherà di coprire la sua miseria con abiti sontuosi.
Quando poi sono in mezzo alla gente, questi scribi vogliono che sia chiaro che: “Io non sono come voi”: amano “Ricevere i saluti nelle piazze” (Mc 12,38). I saluti non sono: “Buongiorno, buona sera…”, ma l’essere additati di nascosto con ammirazione: “Ecco lo scriba, il dottore, il monsignore, Sua Eccellenza, il Presidente…”; poiché dentro sono vuoti (non c’è la persona) vivono di questo; poiché si sentono nessuno, hanno bisogno dei titoli e del ruolo per sentirsi qualcuno: di modo che la gente possa dire: “Che persona importante!, Che persona gradevole, quanto è istruita! Chissà quante lauree ha conseguito”. Non cadeteci!
Vogliono inoltre “i primi seggi nelle sinagoghe” (Mc 12,39): nella sinagoga c’erano dei gradini per cui i primi seggi stavano in alto, sopra gli altri, bene in vista, mentre gli altri erano sotto. Oggi stanno tutti in prima fila, seduti nelle poltrone di velluto rosso… Vogliono esser ben visibili, distinti dagli altri. Vogliono “i primi posti nei banchetti” (Mc 12,39): sono quelli a fianco del padrone di casa, i posti migliori per essere serviti per primi, per essere considerati importanti.
Lo stesso vale anche per quando pregano: “Io non sono come gli altri, che sono peccatori…”.
Questo è dunque quanto gli scribi dimostrano all’esterno; ma al loro interno? Altra realtà: “Divorano le case delle vedove” (Mc 12,40). Nella Bibbia le vedove e gli orfani sono la categorie più deboli, perché non hanno nessuno che le difenda, sono le meno protette. Per questo, si dice, che è Dio stesso il loro protettore. Al contrario cosa fanno questi signori? Non hanno alcuna pietà per questa gente che dovrebbero difendere. “Non hai soldi? È un problema tuo!”. “Hai peccato? Potevi pensarci prima! Fuori!”.
“Ostentano di fare lunghe preghiere” (Mc 12,40). Tante preghiere, tanti rosari, tante funzioni, tanti segni di croce ma per Gesù è tutto un “bla, bla, bla...”.
Una storia vecchia quanto il mondo: già il profeta Isaia lo aveva notato: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano” (Is 29,13; Mc 7,6).
“Essi riceveranno una condanna più severa”, dice il vangelo: la loro condanna viene qui ancora una volta decretata.
Poi, di punto in bianco, il vangelo mette Gesù nel tempio, di fronte al tesoro.
Dobbiamo sapere una cosa: quando uno peccava, per ricevere il perdono doveva “pagare” in denaro o portando degli animali. I sacerdoti del tempio, quindi, erano felici quando la gente peccava, perché più peccava e più loro si arricchivano!
E cosa vede Gesù di fronte al tesoro? Tutti i ricconi arrivano e gettano le loro cospicue offerte. Una povera donna, invece, vi getta solo due spiccioli, tutto quello che aveva per vivere. I primi hanno fatto una cospicua elemosina, donando comunque un nulla rispetto a quanto possiedono. Questa donna, invece, no! Lei dà al tempio tutto ciò che le serve per vivere. Senza preoccuparsi di cosa l'indomani mangeranno lei e i suoi figli.
Da un altro punto di vista, il vangelo ripropone lo stesso concetto: da un lato i ricchi, i potenti, che vivono la loro “religiosità” con superba ostentazione; dall’altro il poveretto che offre a Dio tutto se stesso nel silenzio e nell’anonimato.
E allora, una domanda nasce spontanea: “Perché Dio dimostra di apprezzare di più una poveretta che offre al tempio tutto ciò che ha? Forse che Dio vuole la morte delle persone? Forse che Dio vuole da noi soltanto sacrifici e privazioni? È questo il comportamento che Dio ci chiede?”..
Nossignori: Dio non vuole la morte di nessuno. Anzi, se leggiamo attentamente il vangelo, vediamo che il messaggio è decisamente un altro: “Vivi! Dio non vuole la morte ma la vita”.
Infatti cosa ha fatto Gesù in tutti suoi giorni di vita terrena? Ha sempre aiutato la gente a vivere per davvero. Se uno era cieco gli diceva: “Apri gli occhi non nasconderti la verità”. Cioè: “Puoi vivere di più”. Se uno era paralitico gli diceva: “Smettila di piangerti addosso, alzati in piedi, affronta le difficoltà e fai la tua strada. Vivi in prima persona, perché ne sei capace”. Se uno era morto (come l’amico Lazzaro) gli diceva: “Vieni fuori. Smettila di morire: vivi, senti, emozionati, slegati da ciò che ti fa morire, esprimiti, realizzati”. Se uno era imprigionato dai sensi di colpa per la sua vita, come la peccatrice, Lui diceva: “Vivi. Avrai sbagliato, ma tu sai amare. Adesso torna ad amare perché tu lo puoi”. Se uno era ingabbiato da tristi e ottuse leggi religiose, Lui gli diceva: “Vivi! La religione, il sabato, le regole religiose sono fatte per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. Se uno era insoddisfatto, Lui gli diceva: “Vivi! Seguimi! Se vuoi la vera felicità devi trovare un senso alla tua vita e un modo per spendere ciò che sei e metterlo a servizio degli altri”. Se il tuo rapporto con Dio ti spegne, questo non è il Dio del vangelo.
Quello che nel vangelo di oggi Dio ci fa capire è invece un’altra cosa: la condanna della superbia, del fare il bene unicamente per farsi ammirare, dell’ostentare una religione puramente esteriore, superficiale, priva di contenuti, di pietà, di convinzioni, di fede, di serietà; di prediligere al contrario chi è umile, chi fa il bene nel nascondimento, nella modestia, senza esibizionismi, senza pubblicità, chi ama i fratelli col poco a sua disposizione, chi condivide il suo niente nella gioia e nell’amore per gli altri.
Egli fa esplicito riferimento infatti a quelle leggi che Lui stesso ha scolpito nel cuore di ogni uomo: “Scegli la vita e non la morte: tu sei vita. Scegli te stesso così come sei: tu sei questo; accetta la tua storia, le tue origini, la tua infanzia, le tue radici; se vuoi essere qualcos’altro da quello che sei, non potrai che fallire; parti dalla tua realtà. Scegli di diventare te stesso: tu sei unico; tu non sei come tuo padre, né come tua madre, né come gli altri: il tuo compito è fare il tuo viaggio verso di te per esser ciò che veramente sei, come Dio ti ha creato. Scegli l’amore: fai vivere il tuo amore; l’amore di Dio vive in te: conoscilo, sperimentalo e poi usalo verso di te e verso gli altri, usando la misericordia, la tenerezza, la compassione. Scegli di donarti: realizzati nel dono di te; la vita ha bisogno di essere data, versata, spesa per una grande causa: allora ci si sente al servizio del mondo e di Dio, allora si è utili, e vivere acquista finalmente il suo senso profondo.
Amen.