Inizia
il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e che ci prepara al Natale.
Sul
piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita”
possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. Non è un dato
rituale, cronologico, tradizionale. E’ un fatto: Dio continua a nascere; Dio,
dove c’è spazio e disponibilità, certamente verrà. Ecco allora che l’avvento
non è tanto un periodo dell’anno ma una dimensione della vita, è la certezza
che una nuova nascita sta per avvenire in noi: Dio, con la sua venuta in noi, vuole
sorprenderci, meravigliarci; vuole portarci lontano, molto lontano dalle nostre
derive di insicurezza.
Questo
vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche
Luca usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche qui egli verrà in maniera
apocalittica, da fine del mondo. Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo?”.
Il
termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele (7,13-14). Per “Figlio
dell’uomo” si intende un uomo comune che,
partendo da condizioni umili, è chiamato a vivere qualcosa di grande, ha una
missione importantissima, è in intimo contatto con Dio l’Altissimo.
Un
particolare che ci deve rincuorare: perché anche noi non siamo certo molto “importanti”.
Anche noi, tutto sommato, siamo dei perfetti “nessuno”. Eppure possiamo essere “Figli
dell’uomo”. Anche per noi cioè c’è qualcosa di grande! Anche noi siamo grandi!
Anche la nostra vita ha un senso profondo per noi e per il mondo. Certo il Figlio
dell’uomo non nasce senza sconvolgimenti, senza “angoscia” e sconvolgimenti.
Tutto ciò che è grande, vero e potente, ha un costo. E diventare noi stessi ha
il costo più grande.
Se
guardiamo all’investimento dal punto di vista di coinvolgimento, pericolo,
esposizione, difficoltà, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se guardiamo a
ciò che possiamo essere, allora ne vale proprio la pena; anzi di più: ne vale
assolutamente la pena! Perché questa è la nostra vera libertà: diventare ciò
che possiamo essere.
Poi il
vangelo parla di vegliare, di non dormire (21,36), di non farci prendere dal sonno.
Gesù
lo diceva in continuazione: “Tenete gli occhi aperti, non dormite; non
addormentatevi; non anestetizzatevi”. Perché se dormiamo, ad un risveglio improvviso,
tutto ciò che ci succede intorno, sembra un tranello, un imprevisto: ma non è
così.
Quante
persone dicono di star male, di soffrire, di essere insoddisfatte. Ma cosa fanno
per uscire dalla loro situazione? Alcuni dicono che “non hanno tempo; che è difficile,
che è troppo impegnativo”: e continuano a dormire!
Altre
persone, invece, dicono di voler cambiare. E si buttano a capofitto: frequentano
tutti i corsi di catechesi, sono presenti a tutti gli incontri di spiritualità,
in qualunque iniziativa sono sempre entusiasticamente in prima fila: ma poi, se
si guardano dentro, sono sempre allo stesso punto, non fanno un passo in avanti.
È come se dormissero profondamente.
A
volte, purtroppo, anche i cammini spirituali possono diventare una droga: ne facciamo
tanti, a volte troppi, pensando che questo basti a renderci migliori. Talvolta succede
anche, paradossalmente, che questi percorsi individuali di spiritualità, frequentati
al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo
miglioramento di noi stessi, diventino al contrario una fuga dalle nostre responsabilità,
diventino un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle
nostre parrocchie: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di perfezionamento
in quell’altra parrocchia, in quel Centro di spiritualità; non posso mancare!
Del resto quello che succede qui, è ben poco istruttivo, non mi attira, non vedo
spiccare “carismi”, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli
più impegnativi, più avanzati! Io sento di incontrare Dio solo in quelle specifiche
realtà”.
Quanto
ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella
città, in quella parrocchia, dove Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per
noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria
ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per
Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo
nostro”, seguendo le nostre ispirazioni, non vuol dire che siamo svegli e nella
giusta attesa della sua venuta.
Per
questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).
A
pensarci bene, allora, una grande forma di preghiera è il non prendere sonno,
non dormire.
Il
verbo “pregate”, infatti, (“deomai”), vuol dire anche “aver bisogno,
necessitare, desiderare”. Quindi noi, “abbiamo
bisogno di non prendere sonno”, di
non alienarci, di non vivere in un mondo che non è il nostro, di non ubriacarci
di chimere.
Non
permettiamo che il nostro cuore prenda sonno e non provi più la gioia per le
cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per il luogo dove Dio
ci ha chiamati: non corriamo il pericolo che la nostra anima, stanca di cercare
Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire la Sua voce proprio in
casa nostra, dove Lui ci ha chiamati e dove ci aspetta pazientemente.
Non
permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”,
da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, nella nostra
normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, nella nostra Parrocchia,
tra i nostri fratelli più vicini.
Perché
quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro, non
ci chiederà quanto conosciamo di lui, quanto abbiamo studiato per capirlo,
quanto lo abbiamo cercato di qua o di là, in ogni angolo della terra; ma più
semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in casa nostra, nella
nostra comunità, per i nostri fratelli; su quanto siamo stati attivi nel farlo
conoscere, amare, servire, insieme a noi, in quell’angolo di mondo in cui Lui
ci ha posto.
Amen.