«In quel tempo, uno della folla
disse a Gesù: Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità» (Lc
12,13-21).
Gesù
sta parlando a migliaia di persone. Dice che chi lo seguirà sarà rinnegato dal
mondo, disprezzato, portato di fronte ai tribunali, ma di non aver paura “perché anche i capelli del vostro capo sono
tutti contati” (Lc 12,7.9). Gesù sta parlando di cose profonde, della
natura della vita, dell’ essenza del vivere.
E cosa
succede? Improvvisamente un tale se ne esce con una domanda su un suo problema privato,
personale, specifico. Tanto da far pensare: “Ma questo sta veramente ascoltando
Gesù o sta rimuginando sugli affari suoi?”. Certo doveva essere completamente concentrato
su se stesso se, nel bel mezzo di quelle profonde parole di vita, di fronte a
migliaia di persone, interrompe Gesù per porgli una questione tanto banale e
privata: “Maestro, di’ a mio fratello che
divida con me l’eredità”.
È
chiaro che quello che gli sta a cuore non sono certo le parole di Gesù, ma le sue
proprietà, in particolare quella parte di raccolto con cui avrebbe colmato i
suoi magazzini, e che suo fratello, evidentemente, non vuole cedergli. La sua unica
preoccupazione è dunque trovare un modo per rientrare in possesso dei suoi
beni.
Gesù è
una persona importante, la sua autorità di fronte alla gente è indiscussa: in pratica
il tizio sta cercando di “appropriarsi” di Gesù, di portarlo dalla sua parte, di
sfruttare il peso della sua persuasione; in pratica gli mette già in bocca la
risposta: “Mio fratello sta commettendo un’ingiustizia, come puoi non darmi
ragione Gesù!?”.
Ma
Gesù gli legge dentro: “Amico, tu vuoi giustizia non per il valore della
giustizia, ma perché sei attaccato ai soldi, perché ne sei avido, perché invidi
chi li ha, perché li desideri con tutto il tuo cuore. Allora non chiamarmi in
causa, non usarmi per i tuoi scopi, per i tuoi interessi”.
Non gli
dice: “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Ma: “Tu, tuo fratello e tutti
quelli che confidano solo nelle ricchezze perderanno la vita, perderanno l’anima,
perderanno la parte feconda, creativa, vera della loro vita”.
Gesù
va oltre la divisione tra giusto/sbagliato e dice: “Tutti quelli che vivono
così, moriranno così”. Perché se uno è preoccupato esclusivamente di accrescere
il suo benessere materiale, esteriore, se uno si lascia dominare dall’ansia continua
del “di più” (più di immagine, di potere, di fama, di ricchezza), ovviamente non
farà altro che trascurare la sua vita interiore, l’anima, le relazioni, il
regno di Dio. È inevitabile!
Quante
volte sarà capitato anche a noi, in certi momenti della vita, pregando magari per
nobili motivi, di chiedere a Dio di far crescere il nostro “magazzino” di
potere, di successo, di ammirazione!
Ebbene:
con questa parabola Gesù vuol riportarci, anche se bruscamente, alla realtà
della vita.
Le sue
parole sono così perentorie e drastiche da sembrare, più che un insegnamento, una
maledizione: “Tu hai fatto di tutto per accumulare così tanto, ed io ti tolgo
tutto”. Sembra quasi che Dio voglia farci un dispetto, che se la rida dei “ricchi”,
che li prenda in giro aspettando il momento giusto per privarli di tutto: ma non
è questo il messaggio della parabola.
È piuttosto
l’amara constatazione di ciò che inevitabilmente accadrà a tutti quelli che sprecano
la loro vita rincorrendo unicamente le ricchezze materiali, a tutti quelli che non
si arricchiscono di Dio, a tutti quelli che non pensano per nulla alla loro anima,
ma preferiscono proiettarsi unicamente sui loro “magazzini strapieni”, sul
possedere, sul riempirsi di cose frivole e caduche; in pratica Gesù ci dice: “Fate
attenzione, perché chi vive così, finirà così, senza nulla in mano, non
dimenticatelo!”.
Spesso
ci lamentiamo che in questa società non c’è più amore, che in questo mondo non
ci si capisce più nulla, che i giovani sono intrattabili, ribelli, nevrotici,
infelici; ma cosa pretendiamo di diverso? Cosa pensavamo succedesse in un mondo
completamente materializzato, laicizzato, in cui nessuno più si prende cura dei
valori morali, dell’anima, del mondo interiore, del soprannaturale? In un mondo
in cui noi stessi, che ci professiamo cattolici osservanti, assistiamo
passivamente alla deriva della nostra religione, delle nostre tradizioni, dei
nostri principi; in cui pensiamo sempre a tutt’altro, in cui giriamo
sistematicamente la testa altrove, concentrandoci esclusivamente nei nostri minuscoli
interessi materiali?
L’uomo
della parabola non ha nome come, quasi sempre, i ricchi del vangelo. Il “ricco”,
nel vangelo, non ha un nome; è anonimo, perché ha perso la sua identità, la sua
personalità, il suo carattere. Non ha più un nome perché si è autoescluso dal
reale, ha spostato ogni suo interesse dal mondo interiore, spirituale, dell’anima,
del regno di Dio dentro di lui, al mondo esteriore, al “fuori di sé”, alle
ricchezze, al benessere, a tutto ciò che ancora non possiede, e che forse non
potrà mai possedere, ma che comunque vuole ad ogni costo.
In
questa affannosa ricerca egli ha perso l’unica cosa preziosa che aveva: se
stesso, il suo tesoro, la sua vera ricchezza. Gesù dice: “A che serve guadagnare il mondo intero se poi si perde la propria
anima (psiché)?”. Già, a che serve conquistare il mondo, se perdiamo la nostra
libertà interiore, la nostra creatività, la nostra voglia di vivere; se
perdiamo chi amiamo; se perdiamo le cose più belle della vita, come l’infanzia e
la crescita dei nostri figli, l’amore di nostra moglie o di nostro marito, la
forza consolante di una sincera amicizia?
È
questo senso di terribile “irrealtà” che tormenta l’uomo del vangelo. Il suo
rapporto spazio-tempo è completamente sfasato. Parla sempre al futuro: “Farò, demolirò, costruirò, raccoglierò”.
Ignora il presente, ha perduto completamente il concetto di “limite temporale”,
pensa solo in termini di “eternità”. Ma dove vive? Non sa che tutto finisce,
che tutto passa, che tutto ha sì un inizio, ma anche e soprattutto una fine?
Tutto
passa. Nessuno di noi è eterno. Ciò che è andato è andato per sempre e non
torna mai più. Ciò che non abbiamo gustato a suo tempo, non lo potremo gustare
mai più. Quante persone per prendere delle decisioni sulla loro vita aspettano
la pensione, aspettano che i figli crescano e diventino grandi, aspettano di
essere “liberi”, senza altre preoccupazioni: attenzione, perché molto spesso, questo
rimandare, significa “mai”.
Se non
gustiamo, se non assaporiamo oggi, se non siamo capaci di farlo oggi, ora, chi
ci dice che potremo farlo domani?
La
vita non è domani, è ora. Un celebre giornalista, stroncato all’apice della sua
carriera da una grave forma tumorale, prima di morire scrisse: “Volete far
ridere Dio? Parlategli dei vostri progetti futuri!”.
Se da
un lato l’uomo del vangelo ignora volutamente il fattore “tempo”, dall’altro dimostra
invece di essere completamente preso dal fattore “spazio”: la sua unica preoccupazione
è quella di ampliarsi sempre più, ingrandirsi, costruire nuovi granai, più capienti,
per poterne trarre maggiori ricchezze.
Ma
farsi case sempre più grandi, avere sempre più soldi, proprietà sempre più
vaste, è assolutamente irrilevante per l’anima: vuol dire che si cerca la grandiosità
esteriore, per riempire il nostro vuoto, il nostro nulla interiore! Costruiamo fuori,
perché dentro non abbiamo realizzato nulla; cresciamo fuori perché dentro non siamo
mai nati; continuiamo ad allargarci fuori per bilanciare la nostra limitatezza interiore.
La
vita per molte persone è una continua, ininterrotta frustrazione, poiché
condizionano la loro felicità non sull’essere ma sull’avere; sono convinte cioè
che solo ottenendo un qualcosa, saranno felici: per questo lottano, combattono,
spendono tutto il loro tempo. Salvo poi constatare che proprio quelle cose
tanto desiderate, una volta conquistate, perdono ogni valore, ogni attrattiva, non
bastano più; non sanno più che farsene, vengono subito attratti da altre cose,
secondo loro ben più grandi, più spaziose, più importanti, più appetibili.
È inutile
illuderci pensando che, raggiunti i nostri traguardi (soldi, posizione sociale,
ammirazione della gente), saremo finalmente felici. Saremmo dei fuori di testa,
dei completamente “out”. Perché la realtà è un’altra, completamente diversa: l’unica
ricchezza da conquistare, l’unico tesoro che conserverà sempre il suo valore, siamo
solo noi stessi, la nostra anima. Niente e nessuno, oltre noi, potrà farci sentire
importanti, se non siamo noi stessi a sentirci importanti; nulla potrà farci
sentire sicuri, se non siamo noi a sentirci tali; nessun amore potrà farci
sentire amabili se non siamo noi ad amarci per primi; nessun Dio potrà farci sentire
vivi, se non riusciamo a vivere noi ciò che siamo”. Questa è la differenza sostanziale
tra chi continua ad accumulare tesori esteriori, e chi invece raccoglie
ricchezze interiori, davanti a Dio: perché il nostro unico tesoro è Lui che
vive in noi, nel nostro cuore, nella nostra anima.
Questo
vangelo ci interroga pertanto, e a ragion veduta, sul nostro rapporto con i
soldi.
La
saggezza popolare diceva una volta che i soldi “sono lo sterco del demonio”. Ma,
sterco o non sterco, gran parte della gente vive purtroppo solo per i soldi.
Va
detto che il denaro in sé non è né buono né cattivo: ma è il mezzo con cui noi dimostriamo
di percepire la realtà: il denaro altro non è che la “materializzazione” dei
nostri valori, la dimostrazione di quello in cui crediamo sul serio, con il
conseguente svilimento di tutto ciò che possediamo “dentro”, in profondità.
Molte
persone che da piccole non sono state amate, che hanno sofferto molto della
mancanza o della scarsità d’amore, una volta cresciute pensano di poterlo
comprare con il denaro. Ma nessuna somma di denaro ci garantisce l’amore oggi, né
ci ripaga per la sua mancanza di ieri.
Il
denaro è solo un surrogato dell’amore: essere ricchi, importanti, potenti, essere
famosi, può anche convincere gli altri, quelli che ci ammirano, giammai però
noi stessi; influisce sicuramente sul nostro “apparire”, sull’immagine che gli
altri possono farsi di noi, ma non cambia di una virgola ciò che noi siamo realmente.
Potremo avere tutti i soldi di questo mondo, ma per assicurarci la felicità, la
serenità interiore, non saranno mai sufficienti, non basteranno mai, perché non
è il denaro a farci felici ma l’amore vero. È solo l’amore, l’amare e il
sentirsi amato, che riesce a soddisfare pienamente l’uomo.
Molte
persone si gettano a capofitto nel possedere, nell’avere, nel raggiungere obiettivi
economici, perché si sentono insicure dentro, avvertono distintamente il continuo
riemergere del loro vuoto interiore. Sono convinte di poter coprire col denaro
l’angoscia della morte, i segni ineluttabili del tempo che passa, di una vita
che inesorabilmente declina. Si affidano ai soldi per non invecchiare: cure
cosmetiche, lifting, gioielli, vestiti; con il denaro, con la notorietà,
cercano in qualche modo di proteggersi dalla paura di venire dimenticati, di non
essere più “nessuno”, di dover morire. Ma non è il denaro che toglie l’angoscia
della fine, bensì una vita sensata, una vita vera, piena, morigerata, nella
fiducia in Dio.
E
concludo. Usiamo i soldi, ma non facciamoci mai usare dai soldi. Tutte le
ricchezze che abbiamo non potranno mai restituirci la dignità interiore una
volta che l’abbiamo “barattata” per la gloria, per una inottenibile immortalità.
“Rabbì, cosa pensi del denaro?”, chiese un giovane monaco al suo maestro. “Guarda
dalla finestra”, disse il maestro. “Cosa vedi?”. “Vedo una donna con un
bambino, una carrozza trainata da due cavalli e un contadino che va al mercato”.
“Bene. Adesso guarda allo specchio: cosa vedi?”. “Beh, vedo me stesso,
naturalmente”. “È vero. Ora pensa: la finestra è fatta di vetro, esattamente come lo
specchio. Ma se sul vetro metti anche solo un sottilissimo strato di costoso argento,
allora vedi solo te stesso!”.
Questo purtroppo è l’effetto del denaro: fa vedere solo noi stessi! Amen.