«Ma quello, volendo
giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo
scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli
portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo
morto...” (Lc 10,25-37).
Il
vangelo di oggi si concentra sulla parabola del buon samaritano, sull’amore
verso Dio e verso il prossimo. Lo spunto viene offerto a Gesù dall’intervento,
puramente provocatorio, di un “dottore della legge”. L’interrogante è un
autorevole rappresentante della classe dirigente ebraica; è un’autorità, è l’uomo
delle regole, colui che sa con esattezza cosa è bene e cosa no, cosa si debba o
non si debba fare. Insomma è un “maestro” molto competente nel suo campo. Il
guaio è che, ritenendosi anche molto scaltro, pensa di poter in qualche modo mettere
in ridicolo Gesù, l’unico vero “maestro”. Che lui si ritenga all’altezza di ciò,
traspare dal fatto che, mentre tutti ascoltano in silenzio e seduti le parole
di Gesù, egli “si alza”: si rivolge a Lui, cioè, stando in piedi (solo i
maestri parlavano in piedi), rivelando apertamente l’intenzione di cercare una
sfida tra “maestri”, un confronto/scontro tra “pari”.
Il
testo italiano traduce blandamente: “Per
metterlo alla prova”. Ma il testo greco, più incisivo, usa “ek-peirazo”, che significa tentare con cattiveria, tendere un tranello per far cadere l’altro:
troviamo insomma il classico verbo usato per descrivere le tentazioni del maligno.
La
domanda che gli pone, non certo dettata dall’amore per la verità, è infatti tendenziosa;
gli chiede cioè di pronunciarsi su un argomento abbastanza banale, sul quale
tutto sommato c’era ben poco da chiarire, visto che tutti gli ebrei conoscevano
perfettamente l’argomento: “Maestro, cosa
devo fare per ereditare la vita eterna?”. Il tentativo di screditarlo, di
deriderlo, è già evidente nell’attribuirgli il titolo di “maestro”, anche se in
cuor suo non lo considera tale; sembra infatti dire: “Tu che ti definisci
maestro, vediamo un po’ come te la cavi con questa questione”.
La sua,
oltretutto, è la classica domanda, una delle domande fondamentali, tipica della
gente comune, non particolarmente religiosa; gente cioè il cui scopo primo
della vita non era certo amare, non era “vivere in pieno”, non era relazionarsi
con gli altri con tutta la forza dei propri sentimenti, con tutta l’intensità dell’anima,
con tutta la vibrazione del cuore. No, nella loro vita la preoccupazione più importante
era di trovarsi “in regola”. Nessuno di essi, in pratica, cercava veramente Dio,
nessuno cercava l’altro, nessuno cercava di “vivere”. Ciò che contava era
“essere osservanti”. In pratica, l’unica domanda che tutti si ponevano,
adattata all’oggi, poteva suonare più o meno così: “Cosa devo fare per andare
in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Cosa dicono le
regole, i comandamenti, il Catechismo, i precetti della Chiesa? Una domanda sicuramente
lecita, carica di preoccupazione se uno l’avesse posta a Gesù in sincerità, con
umiltà e retta intenzione. Ma ciò esula dalle intenzioni del dotto ebreo, che
lascia trasparire in essa tutta la sua sarcastica sicurezza. Ma Gesù non cade
nel tranello, capisce dove vuole arrivare l’altro; non si scompone e gli rigira
la domanda: “Cosa dice la legge?”. In
pratica lo “trascina” nella sua materia, nel suo campo di specializzazione; all’uomo
di legge, a questo punto, stuzzicato nella sua vanità di “maestro”, non par
vero di rispondere a raffica: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente,
e il tuo prossimo come te stesso”. “Bene”, continua Gesù. “Che vuoi di più?
Che altro vai cercando? È semplice, sai tutto: comportati osservando la legge, e
sarai certo di avere la ricompensa prevista dalla legge”. Finito. Tutto chiaro!
Ma il
dottore della legge non demorde: vedendo sfumare il suo momento di gloria, gli
pone un’altra domanda, altrettanto pretestuosa: “Ma chi è il mio prossimo?”.
E qui
Gesù lo confonde completamente; la sua risposta questa volta richiede una
chiave di lettura completamente diversa da quella dell’esperto legale, con una
mentalità fredda, statica, puramente razionale. Egli non potrà mai capire le
ragioni di Gesù, improntate sull’amore e sulla carità. Per lui tutto viene
ricondotto a disposizioni, ordinamenti, prescrizioni di legge, per cui
“prossimo” poteva essere solo un suo concittadino, al massimo un connazionale. Gli
altri no, esclusi! Per Gesù invece l’amore per il prossimo non ha confini né di
tempo né di luogo; con Lui non esiste più la distinzione “fino a che punto” o “fino
a che momento”. Se uno ha un cuore, lo deve seguire sempre, punto. Chi ama non pone
paletti, non discrimina, non fa differenze: è il cuore che ordina chi amare,
non la legge!
Ogni
discriminazione, ogni “tu sì e tu no”, è tipico di poveracci, completamente
amorfi, che per stabilire cosa è giusto e cosa no, si lasciano condizionare
dalle regole, dal partito, dalla religione. Chi ama, lascia che sia il proprio
cuore a vivere e a far vivere. Ama e basta!
Il
dottore della legge non può capire questo linguaggio. Per questo Gesù gli chiarisce
meglio il concetto, esponendogli una parabola: “C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico...”.
Un
racconto molto realista: Gerusalemme dista ventisette chilometri da Gerico; la
strada di collegamento, con un dislivello di circa mille metri, è purtroppo nota
per la sua pericolosità, piena di agguati, di rapine, di imboscate. Sarebbe
preferibile evitarla, ma un uomo è costretto a farla quella strada, sfidando i
pericoli: per sua sfortuna, gli capita di cadere vittima dei briganti che lo picchiano,
lo bastonano, e lo spogliano di tutto; e lo abbandonano sulla strada mezzo morto,
solo con se stesso, con nessuno vicino, con nessuno capace di capirlo e di
accoglierlo. A chi ricorrere? Chi chiamare? Su chi può fare affidamento quel
poveretto per essere soccorso? È logico pensare che il suo primo pensiero vada sicuramente
ai genitori, a qualche amico o collega fidato, a qualche assistente sociale, a qualche
ecclesiastico di sua conoscenza, che ne so, un prete, un frate, ecc. “Nossignori”,
risponde Gesù tra le righe: “se dovesse capitare a voi non contate sulle
istituzioni, sui chi ha dei “doveri”nei vostri confronti, anche se stabiliti per
legge. Non è certo in base al suo “ruolo” che uno vi verrà in soccorso; perché soltanto
chi ha un cuore pieno d’amore può vedervi come “prossimo”, correndo da voi. Nella
vita non aspettatevi mai l’aiuto da dove “non può” venire: non contate sulla
funzione, sulla carica, sulle prescrizioni legali: contate solo sul cuore delle
persone”.
Del
resto, proseguendo la lettura a senso della parabola, se nessuno interviene, l’uomo
ferito è destinato a morire. In questo caso, chi l’ha ucciso? I briganti? Soltanto
loro? O non l’ha ucciso anche chi, potendo fare qualcosa, non l’ha fatto? Quante
persone nella realtà si giustificano con la famosa frase: “Non è colpa mia, io
non ho fatto nulla di male!”. Già, ma in certe situazioni non intervenire, non
fare nulla, vuol dire condannare, vuol dire procurare la morte.
Nel seguito
del racconto, poi, incontriamo tre personaggi che casualmente si trovano a
passare proprio per quella strada. Sono un sacerdote, un levita, un samaritano.
Il
sacerdote è l’addetto al culto (il prete di oggi), mentre il levita è l’addetto
al tempio (il nostro sacrestano). Ora c’era una legge (come poteva mancare?)
che impediva ai sacerdoti di toccare persone morte. Ma quest’uomo non era
morto; semmai poteva sembrarlo! Nel dubbio però meglio tirare dritto. E il
levita? Per lui quella legge non valeva, Lui non era un sacerdote; è vero, non
era addetto al culto, alle liturgie, però toccava gli oggetti sacri; quindi, a
ragionarci su, quella legge valeva anche per lui!
Come vediamo,
c’è sempre una scusa quando non si vuole fare una cosa!
Purtroppo
sia il sacerdote che il levita hanno un grosso problema con cui fare i conti:
il loro “ruolo sacro”, il loro “mestiere” direbbe qualcuno di noi, prima o poi rischia
di uccidere la loro anima, di soffocare il loro cuore: “Tu sei un sacerdote, sei
un levita, non puoi abbassarti a fare queste cose materiali, non sono previste dal
tuo rango!”.
C’è poi
un altro personaggio, più defilato, ma altrettanto colpevole di essere insensibile,
anche lui condizionato dal suo ruolo: l’albergatore. Quando arriva l’uomo mezzo
morto, non dice al samaritano che lo vuol pagare: “Ma sì, in una situazione del
genere non ti preoccupare, scherzi? Non se ne parla neanche: mi prendo cura io
di quest’uomo, non voglio assolutamente nulla da te; tu hai già fatto anche
troppo portando fin qui questo poveretto”. Nulla di tutto questo: quando arriva
il samaritano se ne sta zitto e incassa il denaro. Anzi, fiutato l’affare, pensa
di battere cassa anche al suo ritorno. Anche lui è vittima del suo ruolo: “Io non
guardo in faccia a nessuno, mi faccio gli affari miei”. Il suo mestiere lo ha
ucciso dentro, impedendogli di provare amore, compassione, di sentire la “vita”.
Questo
ci dice oggi Gesù: “State attenti, perché il ruolo che rappresentate può soffocare
il vostro cuore, può stroncare la vita dell’anima”. Se non stiamo attenti, il
ruolo ci distacca da noi stessi, dalla nostra sensibilità, da ciò che abbiamo
dentro; non ci ascoltiamo più; coerenti col ruolo, continuiamo a dare risposte senza
senso, vaghe, preconfezionate. Non siamo più noi che sentiamo e decidiamo, ma è il nostro ruolo che sente e agisce per noi in maniera automatica.
Dobbiamo
allora evitare di pensare sempre, in qualunque situazione della vita, da genitori,
da insegnanti, da preti, da carabinieri, da avvocati: perché prima o poi il nostro
ruolo fagociterà la nostra personalità, ci renderà insensibili, intransigenti,
duri, intolleranti. Ascoltiamo prima di tutto il nostro cuore! Ascoltiamo cosa
ci suggerisce di volta in volta lo Spirito che è in noi. Agiamo liberamente, al
di fuori degli schemi costrittivi imposti dai vari ruoli.
Imitiamo
l’unico personaggio che, nella parabola, dimostra la sua indipendenza da qualunque
schema mentale: l’unico uomo che è libero, autonomo, non schiavizzato dal suo
ruolo: il samaritano.
Egli
non ha maschere o funzioni da difendere; in lui la “vita” circola libera e
vibrante.
Tutti
e tre (sacerdote, levita e samaritano) passano per la stessa strada e tutti e
tre vedono l’uomo ferito. Ma del solo samaritano il vangelo sottolinea un
particolare, che volutamente non dice degli altri due: “ne ebbe compassione”. È
l’unico che si è lasciato guidare dal cuore. Il suo è un sentimento esclusivo:
il verbo greco “splanchnizomai” (avere compassione) chiama in causa le
viscere, l’utero materno; un’emozione fortissima, quindi, che tocca, che
colpisce, che fa male, che fa vibrare, che scuote: un’emozione pari a quella
che prova una madre nello stringere tra le braccia il suo figlioletto appena
partorito.
Come
poteva quest’uomo tirare dritto? Come poteva questo samaritano far finta di
niente? Il suo cuore urlava, era vivo, batteva a mille: i cuori del sacerdote e
del levita erano invece morti, atrofizzati, impassibili, soffocati dal ruolo,
paralizzati dalle regole del “lecito” o “non lecito”.
Nulla
di straordinario: ricordiamoci sempre in proposito che anche noi possiamo
incorrere nella nostra vita in due tipi
di morte: quella fisica e quella spirituale.
Con la
morte fisica, quella naturale, che segna la fine della nostra vita, moriamo dentro e fuori; con la morte spirituale,
invece, viviamo sì all’esterno, ma con la morte nell’anima. Non dimentichiamoci
mai, allora, di “sentire” il nostro cuore, di assicurarci che batta sempre per amore;
siamo sempre vigili nell’ascolto dello Spirito, per non correre il rischio di
vivere come degli zombie, dei morti che camminano. Amen.
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