giovedì 30 giugno 2016

3 Luglio 2016 – XIV Domenica del Tempo Ordinario

«l Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Lc 10,1-12.17-20).

Tutti gli esegeti concordano nel non attribuire personalmente a Gesù queste parole. Costituiscono invece una “esortazione” che riflette in maniera molto chiara e realistica la situazione che si è venuta a creare dopo la sua morte, nei primi anni di vita della Chiesa. In quel momento particolare Lui non c’è più: spetta perciò ai suoi discepoli (i settantadue) sostituirlo nella predicazione, assicurando così a tutto il mondo l’annuncio del suo messaggio. Quindi niente di più ovvio per Luca, che far risalire questa “esortazione”, questo mandato ufficiale, a Gesù stesso,condensando in essa le ripetute sollecitazioni di Gesù fatte in tal senso.
Sono parole, quindi, legate ad un periodo di tempo successivo a Lui. Esse infatti esprimono una necessità, uno spirito nuovo, un’attenzione del tutto particolare per una realtà contingente: c’è un bisogno urgente di nuovi apostoli, perché “la messe è molta, ma gli operai sono pochi”. C’è bisogno di operai, di uomini di Dio, ben più numerosi dei pochi che Gesù aveva lasciato alla sua partenza da questo mondo: uomini in grado di mettere in pratica il suo esempio, soprattutto di parlare al cuore della gente. Per la loro missione non servono discorsi asettici, dottrinalmente perfetti; non devono dimostrare la bellezza, l’importanza, il valore del Risorto; le loro parole devono semplicemente riscaldare il cuore della gente, devono indurla ad amare Colui che per amore ha sacrificato la propria vita.
In particolare questi nuovi “settantadue”, qualunque sia la loro destinazione, devono imitare il loro Maestro, devono guarire come lui le malattie, e annunciare: “Il regno è qui, in mezzo a voi”. Non devono porsi come giudici, dicendo “Tu devi fare così; tu sei in peccato; tu sbagli; il Signore ti punirà; non sei un bravo cristiano!”. Devono invece presentarsi come consolatori degli afflitti, guaritori degli animi in difficoltà: “Tu sei ammalato nel tuo cuore, ma se lo vuoi, puoi guarire”.
Il mondo è pieno anche oggi di persone malate nell’anima, persone che pensano di essere vittime di qualche disfunzione fisica, e non trovano dottori in grado di guarirle. Continuano ad affidarsi all’onnipotenza della medicina del corpo, e non si rendono conto che la loro è una malattia dell’anima, non capiscono che per guarire devono affidarsi alle cure di un’altra medicina, quella dello Spirito, che sola può fornire loro la Vera Forza, la Vera Guarigione.
Ecco perché, anche oggi, abbiamo tanto bisogno di “medici” dell’anima, che facciano riscoprire la presenza di Dio in ognuno di noi, che facciano capire che la Forza per guarire è dentro di noi, nel nostro cuore, nella nostra anima. Abbiamo bisogno di “medici” che ci insegnino a pregare, che facciano riemergere la nostra spiritualità, la nostra fede, la nostra coscienza, che alimentino il nostro cuore col Pane del cielo, che dissetino la nostra anima con l’acqua sorgiva del perdono, restituendoci la pace interiore del giusto. Per l’uomo è fondamentale guarire nello spirito, perché uno spirito, una psiche malata, contagia, infetta, indebolisce anche il corpo: quindi da dove proviene la malattia, di là deve arrivare anche la guarigione.
Quando ci ammaliamo, allora, il problema non è trovare la compressa giusta o l’antibiotico specifico: dobbiamo invece guarire lo spirito contaminato, dobbiamo cambiare vita, dobbiamo ritrovare la “forza” perduta, riscoprire in noi la Vera Sorgente della salute.
Ma per fare ciò dobbiamo mettere in atto una cura preventiva: analizzare minuziosamente e controllare i nostri sentimenti.
Così per esempio l’odio, la collera, l’ira: se continuiamo ad alimentare, a covare questi impulsi contro chiunque in qualche modo ci abbia offeso, non ne verremo mai fuori, imploderemo dentro. Vogliamo vivere sempre così? È un non vivere: allora tiriamo fuori il nostro dolore, la nostra collera, magari urliamo: ma poi affidiamoci completamente al nostro Medico Misericordioso, e “andiamo avanti”: questo è il nostro “mondo” da evangelizzare.
La paura: se non abbiamo fede in Dio, se non abbiamo fiducia in noi stessi, le nostre paure ci divoreranno. I nostri mostri diventeranno realtà e ci sbraneranno. Siamo schiavi di complessi che ci condizionano l’esistenza? Abbiamo paura di non essere brillanti, di parlare in pubblico, di fare brutta figura, di venire derisi per quello che diciamo? Abbiamo paura di un attacco di panico? Paura degli spazi chiusi? Paura che gli altri vedano le nostre insicurezze, che abbiamo le mani che sudano, che arrossiamo per un nonnulla? Siamo fiduciosi e lanciamoci: Dio ha fiducia in noi:perché anche noi non l’abbiamo? Il nostro “regno” da conquistare è anche questo.
La vergogna: se non c’è amore, se ce la teniamo dentro, viviamo con un macigno nel cuore.
Vogliamo guarire? Tiriamola fuori questa nostra vergogna: il “regno” è anche qui.
Il senso di colpa: se non confidiamo nel perdono, è la fine. Sarà un continuo roderci l’anima. Ma Dio è più grande dei nostri sensi di colpa, ben più grande dei nostri errori. Guarire è poter chiedergli perdono e sentirci dire: “Adesso va in pace e torna a vivere: questa è libertà; il regno di Dio ti aspetta”.
Un particolare importantissimo da sottolineare: di fronte alla necessità di nuovi operai, Gesù prima di tutto dice: “Pregate”, è vero; ma subito dopo aggiunge: “Andate!”. Cioè: “Vai tu”.
La gente in genere si ferma alla prima parola; e chiede: “Signore, ti prego, manda qualcuno, fa’ che succeda qualcosa di nuovo nella tua Chiesa!”. Ma quando sente la seconda, si tira subito indietro!
In giro si fa un gran parlare di responsabilità, di collaborazione, di aiuto concreto, di partecipazione generale ecc. ecc. Di fronte ad una grave necessità, ci si ferma alle belle parole, alle buone intenzioni.
Ma “responsabilità”, deriva dal latino “respondeo”, che vuol dire “rispondere”: c’è una chiamata (“vocatus”, vocazione) e c’è la risposta (responsabilità). Si diventa grandi, adulti, quando alla chiamata della vita rispondiamo “sì”: questo è “responsabilità”.
Ci lamentiamo perché la società di oggi fa schifo? Rispondiamo noi per primi; comportiamoci sempre civilmente, anche nelle piccole cose, e diamo il buon esempio. Ci lamentiamo perché in parrocchia si potrebbe fare molto di più? Rispondiamo in prima persona: “Eccomi, sono a disposizione”, anche per i lavori più umili e nascosti. Ci lamentiamo perché a scuola le cose non vanno bene? Coinvolgiamoci noi personalmente, diventiamo rappresentanti di classe. Ci lamentiamo insomma perché le cose non vanno come dovrebbero andare? Partiamo, scendiamo in campo, diamoci da fare! Cosa facciamo noi invece? Nulla: ci lamentiamo, borbottiamo, critichiamo, ma poi nulla. Vogliamo un mondo migliore? Benissimo, diamoci da fare!
La vita ci chiama, Dio ci interpella direttamente: ha bisogno di noi. Egli ci ha a suo tempo “chiamati” all’esistenza; ora si aspetta da noi una risposta. Ci ha visti e ha detto: “Ho bisogno di te!”. E noi, cosa facciamo? Promettiamo? Preghiamo perché mandi altri operai? Ma Dio non sa che farsene delle nostre promesse, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi e dei nostri fioretti. Dio vuole noi!
Certo non è una cosa da prendere alla leggera. No, non sarà affatto semplice. Saremo come agnelli che devono vedersela coi lupi. Infatti, nel mondo, se offriamo pranzi, se organizziamo feste, se ossequiamo i potenti, se ci limitiamo ad accettare i loro inviti a cena, in altre parole se non ci esponiamo troppo, se dimostriamo di essere accomodanti, simpatici, aperti; se non facciamo sentire la nostra voce contro certe sopraffazioni, sicuramente saremo accolti bene. Ma se portiamo il vangelo come regola di vita, se denunciamo apertamente ogni ingiustizia, allora, automaticamente, ci troveremo in mezzo a lupi rapaci, che tenteranno di sbranarci in tutti i modi. È sempre stato così, sappiamolo; e prepariamoci!
Del resto va bene così. Perché è allora che emerge il vero motivo che ci spinge da dentro; in altre parole, se siamo mossi da motivazioni false, deboli, povere, arriviamo subito alla conclusione: “Ma chi me lo fa fare?”, e lasciamo perdere, desistiamo immediatamente. Ma se abbiamo motivazioni forti, se abbiamo il fuoco nell’anima e la passione nel cuore, allora affrontiamo “il nemico” e andiamo avanti per la nostra strada.
Una strada che è lunga e faticosa da percorrere. Ecco perché dobbiamo essere “leggeri”. Se abbiamo troppi interessi personali da difendere, siamo troppo legati, troppo pesanti: liberiamoci dalla zavorra. Quando andiamo in montagna, abbiamo bisogno di uno zaino il più leggero possibile. Se pesa troppo, finiamo per non riuscire più ad andare avanti. “Non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada”.
Abbiamo una missione da compiere, uno scopo ben preciso da raggiungere; andiamo quindi dritti per la nostra strada. Non “salutiamo nessuno”: se ci fermiamo a parlare con uno, ad ascoltare un altro, a salutare un terzo, sarà anche bello, ma non arriveremo mai al nostro traguardo.
Dobbiamo essere liberi e leggeri: solo così potremo viaggiare spediti. Se il benessere materiale è l’arte di avere più che si può, la spiritualità è l’arte dell’avere meno che si può.
Inoltre dobbiamo essere rispettosi, caritatevoli, non imponiamo niente a nessuno. Se ci accolgono in “casa”, nel loro cuore, bene! Allora entriamo e portiamo il nostro annuncio. Se non ci accolgono, bene lo stesso; vuol dire che hanno già fatto la loro scelta; non prendiamocela per questo, non offendiamoci, non facciamone una questione personale, non sentiamoci rifiutati. Non siamo noi ad essere rifiutati: essi rifiutano Gesù Cristo! È una loro libera scelta, che va rispettata: saranno loro poi a doverla giustificare con Dio.
Avere “rispetto”, dal latino “respicio”, vuol dire “guardare indietro”. Il “rispetto” è come camminare in montagna: ogni tanto dobbiamo voltarci indietro per vedere se i nostri compagni ci seguono, o se sono in difficoltà; se non li vediamo, li aspettiamo. Rispettare vuol dire tenere in considerazione le esigenze e le scelte dell’altro, anche se sono diverse dalle nostre; rispettare è accettare che nella vita, oltre noi, ci sono anche gli altri. Così, anche il sole, le piante, l’erba, l’acqua, gli animali, che sono creature del mondo e di Dio, vanno rispettati. Tutto ciò che esiste merita di esserci e di essere rispettato per il solo fatto che esiste.
Quando uno parla, se lo rispettiamo, lo ascoltiamo, non lo interrompiamo. Lo lasciamo dire tutto ciò che deve dire, senza dare segni di insofferenza; se lo rispettiamo, non pensiamo che sia un deficiente, uno che non capisce nulla; non lo interrompiamo pretendendo di avere noi ragione a tutti i costi; non gli ridiamo in faccia se sbaglia qualche parola, o se è balbuziente. Insomma quando uno parla, se lo rispettiamo, anche se per noi sbaglia, non dobbiamo giudicarlo a priori come un cattivo cristiano, un deficiente, o un depravato; cerchiamo invece di ascoltare il suo cuore.
Infine, dovunque andiamo, dobbiamo portare la pace: “Pace a questa casa”. Pace, “shalom” in ebraico, indica tutto ciò che serve all’uomo per vivere dignitosamente; pienezza di vita, benessere, felicità, appagamento. È tradotta in greco con “eirene” che indica benessere, tranquillità, assenza di ogni dissidio. La pace nasce quando ci si accorda su regole comuni. Se noi siamo sempre in guerra, dovunque andiamo, continuiamo a fare dei morti. C’è della gente che dentro non ha pace, non è pacifica, è sempre arrabbiata, ha la guerra nell’anima. Ebbene, queste persone sono un autentico problema per tutti.
Noi oggi, nella nostra missione, quando incontriamo le persone, in realtà cosa portiamo loro, cosa diamo, cosa trasmettiamo? Alcuni di noi dicono: “Io sono sempre pronto per gli altri; do tanto”. Sì, vero, ma cosa diamo? Non basta dare; l’importante è cosa diamo, cosa trasmettiamo, qual è il messaggio che portiamo.
Dobbiamo essere come i fiori: dovunque vengono messi, inondano l’ambiente con la loro fragranza; perché il profumo è la caratteristica del loro essere fiori. Così anche noi. Se nel nostro essere, se nel nostro cuore, regna la pace, dovunque andremo ne lasceremo il profumo. Se al contrario abbiamo guerra, lasceremo solo macerie.
I settantadue vanno (10,17-20) e tornano entusiasti: “È proprio così, Signore! Quelle cose che tu hai fatto, riusciamo a farle anche noi!”. Che bello! Se anche noi ci fidassimo veramente di Lui, scopriremmo di avere la sua stessa forza: perché dentro di noi c’è lui stesso, il suo Spirito, e con Lui nulla risulterebbe impossibile pure a noi. Lo sottolinea Gesù stesso agli apostoli: “Non siate felici per il potere che avete, per ciò che riuscite a fare. Non siete voi, ma è la Forza che è in voi che compie tali prodigi. Siate felici, invece, perché, anche se non ci riuscite, i vostri nomi sono scritti nei cieli”.
Noi passiamo, i nostri nomi vengono dimenticati. Cinquant’anni dopo la nostra morte nessuno più si ricorderà di noi. I nomi scritti sulla terra, quaggiù, svaniscono con il vento. Ma i nomi scritti nel cielo rimangono per sempre. “State tranquilli, voi non sarete abbandonati; non abbiate alcuna paura, voi siete protetti, siete salvati, siete nel palmo della Mano di Dio. Da lì nessuno potrà rapirvi”. Amen.



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