giovedì 16 giugno 2016

19 Giugno 2016 – XII Domenica del Tempo Ordinario

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,18-24).

Dopo i particolari riportati da Luca nel vangelo di oggi - siamo nel suo nono capitolo - Gesù decide di andare a Gerusalemme, costi quel che costi: egli sa di rischiare la vita, essendo perfettamente consapevole di quanto gli sarebbe accaduto, ma ciò non lo fa desistere dal suo proposito. Prima però di affrontare qualunque cosa, dice il vangelo, egli pregava: nel silenzio, nella solitudine, di fronte ad ogni difficoltà, più che con le parole, Gesù si affidava a quel sentimento profondo di fiducia e di intimità che lo legava al Padre. Più che un luogo solitario, Egli cercava quell’atmosfera, quel clima di silenzio e di distacco dalle persone e dalle cose, che gli consentiva di entrare dentro di sé per incontrare Lui.
Non è quindi il luogo sacro come la chiesa, che di per sé fa preghiera: ma è la nostra predisposizione interiore. Solo se in chiesa c’è silenzio intorno e dentro di noi, se c’è concentrazione, allora può esservi preghiera. 
Non è detto infatti che chi entra in chiesa, solo perché è luogo di preghiera, automaticamente preghi; egli pregherà invece ogni qualvolta il suo animo saprà aprirsi, emozionarsi, elevarsi, percepire la presenza di Dio l’infinitamente Grande, nel suo infinitamente piccolo di uomo.
Non basta “recitare” una serie di parole, di formule, di giaculatorie, perché ci sia preghiera; non basta dire “amore” perché ci sia amore. La preghiera, il legame intimo con Dio, il sentimento di amore che ci unisce a Lui, sono tutt’altra cosa rispetto a delle parole o a delle melodie vuote, superficiali, pronunciate e cantate meccanicamente.
Preghiera è profondità, intimità: è emozionarsi, ringraziare Dio per la presenza nella nostra vita delle persone che amiamo, per i loro occhi lucidi e riconoscenti con cui ci riamano; è ringraziarlo per il sorriso dei nostri figli che ci riempie il cuore, per un progetto di vita andato in porto, per un traguardo raggiunto, per tutto ciò che c’è di bello, di vero, di meraviglioso intorno a noi. Preghiera è piangere di gioia, commuoverci, sorridere, dire al Padre tutto il nostro amore; è una comunicazione con l’Altissimo, una disponibilità umile e sincera ad ascoltare cosa Lui ci dice.
Preghiera è, insomma, poter dire con Gesù: “Sì” a qualunque cosa, è dire: “Grazie” per tutto ciò che è stato, e “si” per ciò che sarà. Per chi ha un cuore vivo, basta poco per pregare. Ma per chi ha un cuore morto, nulla è preghiera.
Mentre dunque è ancora in preghiera, Gesù chiede ai suoi discepoli: “Chi dice la gente che io sia?”.
Gesù parla bene, compie miracoli, guarigioni, ha un notevole seguito e successo. 
È normale che le persone si chiedano: “Ma chi è costui?”. Erode stesso, qualche versetto prima, si era chiesto la stessa cosa: “Chi è costui del quale sento dire tali cose?” (Lc 9,9).
Le risposte che circolano sono senza dubbio lusinghiere: alcuni lo identificano col Battista, il più grande profeta del tempo, altri con Elia, il profeta che non era morto e che sarebbe ritornato alla venuta del Messia; altri infine lo considerano un profeta, un uomo di Dio.
Ma Gesù non si accontenta, vuole andare più a fondo: passa dal giudizio degli “altri”, a quello degli apostoli: “Voi, chi dite che io sia?” (Lc 9,20).
Pietro, con la solita irruenza, precede tutti e dichiara: “Tu sei il Cristo”, tu sei l’unto, l’aspettato. Ora, gli esperti della Bibbia mettono in dubbio l’autenticità di questa risposta messianica, visto che Gesù non si è mai definito in questo modo; anzi nel versetto successivo egli parla di sé come Figlio dell’uomo e non come di “Cristo” (Lc 9,22).
A noi personalmente, cosa abbia risposto Pietro, non interessa più di tanto: quello che invece ci deve far pensare seriamente, quello che ci mette veramente in crisi, è la solennità, l’importanza, la portata reale e profonda della domanda che Gesù, oltre agli apostoli, rivolge a ciascuno di noi: “Chi sono io per te?”.
Molte persone sono convinte di essere cristiane, di essere “in regola” con Dio, per il solo fatto di essere battezzate, di appartenere cioè al gruppo dei redenti da Cristo, che si prefiggono di seguire il suo vangelo. Ma un conto è la “promessa” di diventare suoi discepoli, fattagli subito dopo aver riacquistato col battesimo la forza e la sua grazia,  un altro è “esserlo realmente”: “essere discepoli” di Gesù, seguire i suoi passi, presuppone infatti un rapporto diretto e costante con lui; significa aver avuto, ad un certo punto della nostra vita, un incontro/scontro con lui; una sua “chiamata” personalissima, carica di amore, che di fronte al nostro essere ciechi, malati di qualunquismo, di indifferenza religiosa, ci ha folgorato, ci ha completamente spiazzato.
Si tratta di semplici parole che però coinvolgono una vita: “Vieni e seguimi” (Mc 1,17; 2,14) oppure “Vieni a vedere” (Gv 1,39; 1,46).
Se guardiamo il vangelo, tutti i “malati” che hanno “seguito” Gesù, lo hanno fatto esattamente aderendo a questo invito: lo ha fatto per esempio Zaccheo (Lc 19,1-10), lo ha fatto il cieco di Gerico (Lc 18,35-43), la donna curva (Lc 13,10-17), l’emoroissa (Lc 9,43-48), la figlia di Giairo (Lc 9,40-56). Tutte persone che dopo averlo incontrato, lo “hanno seguito”: sono cioè completamente cambiate, si sono radicalmente trasformate, non sono state più le stesse. E questo soprattutto perché lo hanno conosciuto, hanno verificato la sua potenza, hanno sperimentato il suo amore: hanno cioè capito chi egli fosse veramente.
Dio quindi non è un’idea, una scienza, una dottrina, ma è una realtà, una persona concreta: un qualcuno che, se lo incontriamo, se gli apriamo il cuore, se lo facciamo entrare in noi, rivoluzionerà completamente la nostra vita come la loro: e a quel punto sapremo bene anche noi chi è, cosa vuole da noi, cosa ha fatto e soprattutto cosa farà ancora per noi. Questo significa essere cristiani: se invece continuiamo ad esserlo come ci fa comodo, se ci fermiamo al superficiale, di Lui non conosceremo e non apprezzeremo mai nulla!
Dio, ripeto, è un’esperienza, un incontro, un “ribaltamento”, altrimenti è un nulla, nessuno. Dio è qualcosa che ci coinvolge, che ci fa diversi, che ci porta lontano: per questo chi ha paura non lo può seguire. Perché Dio gli cambia la vita; ma proprio per questo è irresistibile.
Poi Gesù dice: “Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire...” (Lc 9,22). Nessuno di noi vuole soffrire, è ovvio. Ma quando dobbiamo fare delle scelte importanti, questo comporta delle difficoltà, delle sofferenze: difficoltà e sofferenze che ci purificano, ci insegnano a far tesoro delle nostre esperienze, a vivere una vita migliore; utilizzano cioè le sofferenze per non soffrire più, al contrario di quanti non imparano nulla dalla loro vita.
Quindi prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23).
Alcuni hanno interpretato questo “rinnegare se stessi”, come un invito a distruggere la propria personalità, a un “non vivere”, a un umiliarsi di continuo, un “annientarsi”, un sacrificare totalmente la propria esistenza. Ma Gesù non intende questo.
Egli vuol dire che in certi momenti, in certe situazioni, di fronte a certi atteggiamenti, dobbiamo dire semplicemente “No”. “Rin-negarsi” vuol dire proprio questo: “Mi dico di no!”.
Scegliere di vivere scappando da noi stessi, dalla nostra coscienza, facendo un sacco di cose per stordirci, per non sentire il vuoto che c’è dentro di noi, non è vivere.
Ad un certo punto dobbiamo dirci: “Basta, non posso andare avanti così, adesso mi devo fermare e prendere una decisione, a qualunque costo!”. Certo, riuscire a dirci: “No... smettila... basta!”, è difficile, doloroso; ma è assolutamente necessario. Del resto se non sappiamo dominarci, se quando serve non riusciamo a dirci “no”, come possiamo pensare che i nostri “sì” siano considerati veri e attendibili?
Infine Gesù chiude il vangelo dicendo: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,24).
Quel verbo “salvare” (in greco sozo), vuol dire letteralmente “custodire, risparmiare, preservare”. Quindi, chi vuole risparmiarsi, chi vuol fare il dritto, chi svicola, chi non vuole mettersi in gioco, finisce per perdere la propria vita.
Chi non osa, è un perdente: quante persone purtroppo vivono l’intera vita sulla difensiva, temporeggiando, rimandando: non osano assumere un comportamento deciso, imboccare una nuova strada, abbandonare situazioni ormai stantie e usurate, cambiare abitudini, stile di vita.
È una triste constatazione: perché chi vive così, sull’indecisione, sulla difensiva, meglio ancora, sul voler salvare ad ogni costo la propria mentalità (psichè), il proprio modo di “pensare”, finirà inesorabilmente per perdere tutta la sua vitalità, ogni suo entusiasmo, insomma il meglio, l’anima della sua vita.
Allora, vale la pena meditare le parole che Gesù dice nel versetto successivo, e che non appartengono al vangelo di oggi: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9,25). Pensiamoci seriamente! Amen.



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