venerdì 26 giugno 2015

28 Giugno 2015 – XIII Domenica del Tempo Ordinario

«Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (Mc 5,21-43).

Il vangelo inizia sottolineando che Gesù era passato di nuovo all’altra riva. Come abbiamo visto domenica scorsa, questo “passare” non indica semplicemente un cambiare luogo, ma un mutamento di vita: “Bisogna passare”. Cioè dobbiamo andare, dobbiamo crescere, dobbiamo evolvere, dobbiamo lasciare una situazione di stallo per andare verso un’altra completamente nuova, perché se non facciamo così ci ammaliamo, moriamo, cessiamo di vivere nell’animo e nel corpo.
I nostri problemi più gravi nascono infatti perché non vogliamo “passare dall’altra parte”, perché non vogliamo crescere, perché non vogliamo trasformare le nostre abitudini ormai anchilosate, perché non vogliamo abbandonare una riva, una fase della nostra vita, per dirigerci decisamente verso un’altra. Rimaniamo sempre lì: ma rimanere sempre lì, immobili, irrigiditi, per partito preso o magari per paura, è una sentenza di morte. Gli istanti della vita passano una sola volta, non si possono ripetere, né fermare: la vita è un continuo andare avanti. Con noi o senza di noi il tempo passa: fermarci significa inesorabilmente regredire.
Da giovani è difficile diventare adulti; affrancarci totalmente dall’infanzia è un passaggio impegnativo; a volte purtroppo rimaniamo acerbi, dipendenti, succubi, ostaggi del volere altrui.
Una volta adulti, non accettiamo di diventare anziani, di perdere le nostre posizioni di dominio, di constatare che altri ci superano, che altri sanno più di noi, che non abbiamo più la forza di imporci come un tempo. Diventare anziani vuol dire accettare che i ruoli ricoperti nella nostra vita, conquistati con tanta passione, passino lentamente e inesorabilmente ad altri: non è facile essere messi da parte, soprattutto se non riusciamo a capire che l’anzianità è l’età della saggezza, dell’esperienza: l’età in cui si è chiamati a diventare maestri di vita. Ma se non avviene così ci si sente solo delusi e amareggiati.
Il vangelo di oggi ci parla appunto di passaggi: di quei cambiamenti che le persone devono fare per vivere e per amare. Sì, perché per far vivere, per amare,talvolta è necessario lasciar andare, distaccarsi, anche da chi ci è caro, altrimenti rischiamo di soffocarlo, di ucciderlo.
Si presenta dunque da Gesù un uomo, Giairo: è il capo della sinagoga. Osserviamo bene le singole parole del vangelo: “Si recò da Gesù uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo”. Non dice: “Giairo, un capo della sinagoga, andò da Gesù”. C’è una differenza fondamentale: il testo cioè per prima cosa evidenzia il ruolo, la carica dell’uomo, e poi ne specifica il nome. Che significa? Che per certe persone il ruolo, la carica, la professione che uno svolge, è più importante della propria individualità, della propria persona. In altre parole è l’attività che determina l’importanza della persona, non la persona. E questo è un male.
Il grande pericolo che corriamo infatti quando abbiamo un “ruolo importante”, è quello di identificarci nel nostro ruolo. Allora non siamo più Tizio o Caio, ma siamo sempre e solo “il” capo, il professore, il politico: sempre e con tutti. Non avremo più la nostra umanità, i nostri limiti, i nostri desideri, ma continueremo ad essere il capo che comanda, il professore che insegna, il politico che legifera: diventeremo cioè prigionieri del ruolo, di questo vestito che ci siamo cuciti addosso. E sarà pertanto lui, il ruolo, che dopo aver progressivamente fagocitato il nostro essere persona, deciderà il nostro agire, il nostro pensare, il nostro pianificare la vita.
Nel caso del Vangelo, la figlia di Giairo, nel suo intimo, è una vittima appunto di questo “dio-ruolo”: non del suo, ovviamente, ma di quello del padre; nella sua normale crescita di figlia le manca cioè la figura paterna. Giairo praticamente è molto più “preso” dal suo ruolo di capo della sinagoga, che dai problemi di sua figlia. Non la vede, non la riconosce, non si accorge neppure che lei crescendo, giorno dopo giorno, si ripiega su se stessa, sfiorisce, si lascia morire: troppo proiettato sulle problematiche di una carriera lontana da lei, non scorge il suo bisogno disperato di avere un padre che la valorizzi, che le riconosca la sua giusta importanza, e soprattutto che l’ami come la cosa più preziosa.
Gesù, per guarire la figlia, deve pertanto “guarire” prima di tutto il padre, deve riportarlo nella sua dimensione di padre, deve ricollocarlo nella realtà temporale del suo essere padre: lui si è perduto nel passato e insiste a proiettare nel presente una visione della figlia riduttiva, anacronistica, impropria; continua cioè a vederla,a considerarla, a chiamarla ancora la sua “figlioletta”. Ma questa “bimba”, come la vede Giairo, ha dodici anni; una ragazza di quell’età, nella Palestina di duemila anni fa, è già una donna adulta, nel fiore della sua maturità; è per lei assurdo, gravemente riduttivo, sentirsi considerata dal padre una creatura infantile, una bimba, ancora insignificante come donna. Da qui la loro lacerante conflittualità: lei, donna matura, vuole essere considerata da suo padre come tale; ma lui non intende accettarla per quello che è; si rifiuta di vederla cresciuta, quasi terrorizzato dall’idea di doverla perdere da un momento all’altro. È un uomo troppo preso dal suo ruolo sociale, è un padre immaturo, gravemente “infermo”, che si ostina a voler ignorare l’ormai inevitabile ruolo della figlia, e non si accorge che questa sua miopia ha scatenato in lei un progressivo stato di ansia, di profonda insicurezza, di annullamento di ogni slancio vitale. Soprattutto non capisce che l’unica medicina che può salvare sua figlia è già a sua disposizione, senza dover ricorrere a terzi: farle finalmente sentire tutto il suo amore di padre: “Tu sei mia figlia, mi vai bene, mi piaci così come sei; apriti alla vita, fiorisci, io ti amo e continuerò sempre ad amarti, perché tu sei mia figlia!”.
A questo punto cosa fa Gesù per guarire il padre, l’unico vero responsabile dei problemi della figlia? Gli dice solo: “Non temere, ma solamente abbi fede”. Cosa significa?
Gesù sente la paura del padre, sente il suo terrore davanti all’eventualità di perdere la figlia: Egli sa che l’unico responsabile della malattia della figlia è proprio lui, il padre, che non vuole vederla crescere, non vuole lasciarla andare, non vuole accettarla come donna. E allora gli dice: “Devi aver fede, devi aver fiducia in lei; smettila di aver paura, di avere tutto questo terrore; devi capire che è proprio questa tua mancanza di fiducia in lei, questa assenza del tuo amore che la uccide; è questa tua paura di perderla che le impedisce di vivere. Se non ti liberi di queste ossessioni, tua figlia non potrà guarire e vivere”. “Abbi fede” vuol dire anche: “Sta’ tranquillo, ciò che domani succederà a tua figlia, sarà una cosa buona per lei e per te. So che hai paura, ma fidati: è importante che avvenga. Certo ci sarà anche un po’ da soffrire, ma da questa sofferenza nascerà la vita”.
Poi finalmente Gesù si rivolge anche alla figlia chiamandola: “Talità, ragazza, fanciulla”; per lui non è la bambina, la “figlioletta” del padre: per lui è ormai una donna. Sembra dirle: “Sei grande, matura, indipendente; ricordati che non appartieni a nessuno; non sei proprietà di tuo padre, appartieni solo a te stessa; non vivere quindi da dipendente, da schiava. Sei la regina, sei la padrona indiscussa della tua vita, vivi da regina!”.
E la esorta dicendo: “Èghèire, svegliati”; e la fanciulla immediatamente “anèste”, si alzò. L’evangelista usa qui gli stessi verbi tipici della risurrezione di Gesù. Ciò sta a significare che risurrezione non è solo passare dalla morte alla vita; ma è risurrezione anche ogni qualvolta noi “passiamo” da uno stile di vita ad un altro più armonico, più vitale, più appassionato, più libero, più vero. In pratica per noi è risurrezione ogni volta che guariamo, che diventiamo più consapevoli, che liberiamo gli altri dalle nostre proiezioni di morte. Risurrezione, fede, religione, significa allora far sprigionare dalla nostra vita, la Vita per eccellenza, il Dio che “dorme” in noi.
Allora, “ègheire!”, “svegliamoci!”: alziamoci, apriamo gli occhi; non ci accorgiamo che viviamo solo per compiacere gli altri? Che cerchiamo l’approvazione di tutti? Che mendichiamo agàpe, amore, da chi può darci solo eros? Non ci rendiamo conto che in noi si è perso “l’uomo” e viviamo solo del nostro “ruolo”? Non vediamo che ce la stiamo raccontando, che ci inganniamo da soli? Che confondiamo l’amore con il possesso? Non ci accorgiamo che siamo sempre di corsa, perché se ci fermiamo anche solo un istante, capiamo di non aver realizzato nulla? “Ègheire” è il nostro sonno che finisce, sono le nostre illusioni che cadono, per cui finalmente riusciamo a vedere la realtà: dura e terribile all’inizio, in quanto abituati a vedere ciò che non esisteva, ma poi vitale.
Anèste, è mettersi in piedi. Gesù, quando la alza, la prende per mano e le dice: “Riprendi contatto con la tua forza; fai la tua strada; tu hai tutte le risorse e le forze per vivere; libera l’amore e la luce che dorme assopita in te; diventa ciò che sei”. Gesù insomma le fa prendere coscienza della sua forza: “Tu sei forte; tu puoi stare sulle tue gambe; vivi, perché lo puoi!”.
Non possiamo aver voglia di vivere se viviamo la vita di altri. La voglia di vivere possiamo averla soltanto quando viviamo la nostra vita, il nostro cammino, la nostra vocazione: e ne abbiamo tanta voglia perché sono nostre. Altrimenti ci adattiamo, “tiriamo avanti”, ma non possiamo sentire né gustare la bellezza della vita.
Se guardiamo bene questo vangelo, possiamo cogliere, fin dalle prime parole, una grande verità: in una vita a due, in un rapporto, in un’amicizia, in una relazione, in un matrimonio, per appianare completamente gli inevitabili problemi, le difficoltà, le crisi, è necessario che entrambi i componenti guariscano, che entrambi “passino all’altra riva”. Amen.

mercoledì 17 giugno 2015

21 Giugno 2015 – XII Domenica del Tempo Ordinario

«Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,35-41).

Un mare in tempesta è sempre angosciante: perché non solo siamo in balia delle onde, ma non abbiamo punti di riferimento. È un evento che non possiamo controllare, non siamo noi a decidere, dobbiamo solo cercare di uscirne indenni. È lei, la tempesta, che conduce il gioco: siamo certi che passerà, ma non sappiamo né come né quando. E, quel che è peggio, sbattuti dai marosi, ci assale la paura di affondare.
La tempesta è qui apertamente assimilata alle contrarietà della vita. E in questo caso, cosa dobbiamo fare?
Il vangelo di oggi ci dà per certa una cosa: chi ha fede in Dio può superare ogni tempesta, anche la più tremenda. Non è importante quanto sia violenta la tempesta; ma quanta fede abbiamo noi. Infatti, se ci fidiamo, se abbiamo fiducia, insomma se abbiamo veramente fede, nessuna tempesta potrà mai farci affondare.
Sappiamo che Gesù ha attraversato varie volte il lago di Genezareth, un lago abbastanza grande da essere chiamato dagli ebrei “mare”, e può anche essere successo che durante una di queste attraversate i discepoli e il maestro si siano imbattuti in qualche tempesta. Si tratta infatti di un lago particolarmente insidioso, facile alle tempeste improvvise, essendo situato in una depressione di oltre duecento metri sul livello del mare. È chiamato Ajn Allah, l’Occhio di Dio. Solitamente è un lago calmo e tranquillo; ma può succedere che delle forti correnti piombino all’improvviso sulle sue acque, sollevando onde altissime che procurano danni di notevole entità. Tutto avviene in tempi molto brevi: come rapidamente inizia, così altrettanto rapidamente finisce.
Cosa sia realmente successo quella volta, cosa sia accaduto dietro a questo brano del vangelo, non lo sappiamo. Forse c’è stata veramente una tempesta; forse sembrava che Gesù dormisse non essendo spaventato come i discepoli; forse l’improvvisa bonaccia è stata attribuita a Gesù, il quale sarebbe stato così l’autore del loro salvataggio.
Quello che però dobbiamo cogliere, è che questo vangelo, con l’immagine della tempesta, ci descrive le possibili conseguenze cui andiamo incontro ogni volta che dobbiamo compiere un passaggio importante nella nostra vita. Tutti siamo concordi nel voler vivere la nostra vita con grande serenità: speriamo che tutto fili sempre liscio, senza gravi cambiamenti, senza scossoni o sussulti. Per cui ogni novità viene rifiutata, demonizzata, ci fa paura, perché mette in crisi le nostre certezze, i nostri principi. Ma se questo da un lato ci rassicura, dall’altro ci costringe a vivere una vita monotona, priva di novità, di imprevisti, di originalità: insomma, un assoluto piattume!
Ma guardiamo meglio cosa dice il vangelo di questa tempesta.
“Verso sera”: una precisazione che ci dice che il giorno era finito, tutto quanto era accaduto in esso, era stato già vissuto: davanti a loro si prospettava un nuovo giorno da vivere. Esattamente come nella nostra vita: quando un tempo è compiuto, finito, dobbiamo passare a quello nuovo, quello successivo. Non possiamo rimanere attaccati a ciò che c’era ieri, e che oggi non c’è più.
“Passiamo all’altra riva”: è questo l’invito che il Gesù della Vita ci rivolge. E noi: “Ma no, Signore, noi stiamo bene qui; perché dobbiamo cambiare? Chi ce lo fa fare?”. Recalcitriamo, non siamo d’accordo: passare all’altra riva, significa dover cambiare, fare una svolta determinante nel nostro percorso. L’invito di Gesù è perentorio: è Lui stesso che ci spinge verso il nuovo, verso il cambiamento, verso una vita dinamica.
Questa è la nostra esperienza di vita: tutto quello che ci riguarda (le relazioni, la crescita, la scoperta della nostra vocazione, l’educazione, il mondo della fede e dell’anima) è un continuo evolversi, un continuo “passaggio” da una riva all’altra, un’attraversata costante, con cui abbandoniamo territori conosciuti e familiari, per approdare a nuovi orizzonti. E ogni volta dobbiamo lasciare il certo per l’incerto, dobbiamo avventurarci verso un nuovo tutto da costruire.
“Lasciata la folla”: la folla è la normalità, è ciò che tutti fanno abitualmente ogni giorno, sono le nostre esperienze di vita che conosciamo bene, è tutto ciò che sappiamo, che è nostro. Gesù ci invita a lasciare tutto questo: appartiene al passato; noi abbiamo l’oggi, il presente da conoscere, da scoprire, da vivere ex novo su un’altra riva. È la vita: se non lasciamo la famiglia, il nostro nido, non potremo mai diventare adulti. Se non lasciamo la “folla” non diventeremo mai “individui”; se non abbandoniamo le stampelle, non riusciremo mai a capire se abbiamo forza sufficiente per camminare da soli.
“Lo presero con sé, così com’era”: il “nuovo” non è come lo vorremmo noi; è “così com’è”, punto! Noi siamo anche disponibili alla novità, ma vorremmo conoscerla prima, per poterla controllare, gestire; vorremmo essere comunque già pronti ad ogni evenienza. Ma così che novità è? È un “nuovo” già “conosciuto”, un “non nuovo”. La novità invece va presa così come viene, come si presenta, come si propone.
“Una gran tempesta”: ogni volta che lasciamo spazio al nuovo, al cambiamento, cosa ci succede? Una gran tempesta. Sempre così! Ed ogni volta ci sembra di affondare, rimpiangiamo il passato, recriminiamo puntualmente contro la scelta fatta: “Perché non sono rimasto dov’ero? Chi me l’ha fatto fare?”.
“Le onde, il vento”, sono tutte le paure che ci sommergono: “Ce la farò? Ne uscirò?”. Quando affrontiamo un nuovo percorso, è naturale che mille dubbi ci assalgano: se è nuovo, è anche la prima volta che lo affrontiamo e quindi non lo conosciamo; se sapessimo già come muoverci, il nostro percorso non sarebbe nuovo e quindi non ci sarebbe alcuna tempesta.
“E Gesù dormiva”: in quei momenti neppure Dio sembra aiutarci, neppure lui sembra fare qualcosa. Noi preghiamo ma non succede niente. Preghiamo ancora di più, facciamo voti a questo o a quel santo, facciamo promesse a non finire, ma non succede assolutamente niente. E allora ce la prendiamo con Lui, perché non fa proprio nulla, anzi sembra proprio fregarsene di noi e della nostra vita; è come se per lui non esistessimo. “Perché Dio permette queste cose? Se Dio ci fosse veramente, e mi amasse come dice, verrebbe di corsa in mio aiuto. Ammesso anche che ci sia: che me ne faccio di un Dio che non si muove, che per me non fa nulla?”.
Ad un certo punto della nostra vita però, ci rendiamo improvvisamente conto che la sicurezza, la pace, la tranquillità che pensavamo di possedere prima di imbarcarci nella “novità”, altro non era che fumo, ce la raccontavamo e basta. In realtà avevamo messo un tappo sulla nostra vita, per non sentire nulla, per attutire tutto, per illuderci che tutto andava bene! Avevamo paura di guardarci dentro e di scoprire quello che c’era. Preferivamo far finta di nulla.
Ma ora che la Vita ci ha imposto un nuovo passaggio, una tempesta, non possiamo continuare a tirar dritto, facendo finta di niente; non possiamo continuare a cullarci nei castelli in aria. Dobbiamo aprire gli occhi, rimboccarci le maniche, perché la tempesta che abbiamo incontrato altro non è che un passaggio, una evoluzione benefica, una crescita di conoscenza, di vitalità, di maturità, anche se porta con sé un po’ di angoscia, di smarrimento.
Non continuiamo testardamente a voler rimanere sempre fermi, ancorati al porto, in acque tranquille e stagnanti; mettiamo da parte, una buona volta, la paura di imbarcarci nelle difficoltà, nei pericoli, nelle bufere, nelle burrasche; impariamo a dominare il terrore di dover affrontare, se necessario, anche qualche vero e proprio maremoto: sono solo tempeste, sono le nostre compagne di vita. Convinciamoci che c’è il modo per non affondare, per non affogare; invece di fuggire il mare, impariamo finalmente a solcarlo con coraggio.
Non sappiamo cosa ci riserverà la vita? Non preoccupiamoci: quando sarà ora, quando incomberà su di noi la tempesta del momento, sapremo come affrontarla.
Gesù, come ha detto una volta ai discepoli, ripete anche a noi, “Vieni e seguimi!”: un “seguimi!” che significa “Smettila di voler controllare ogni cosa; smettila di voler sapere, di voler pianificare, di voler gestire tutto tu. Seguimi, soltanto, là dove io ti conduco!”.
Se ci fidiamo, se abbiamo fede in lui, se siamo onesti, alla fine scopriremo che seguirlo era l’unica cosa buona da fare. Sì, perché Gesù per noi non è un’idea, un ente astratto, una teoria, ma un qualcosa di molto concreto: è uno che ci sta sempre a fianco, che nella nostra vita ci aiuta sempre, nonostante tutto, e puntualmente. Anche se non ce ne rendiamo conto, anche se non lo vogliamo ammettere.
Avere fede significa pertanto abbandonare per sempre i pensieri di paura, di tristezza, di autocommiserazione, di ripiegamento su noi stessi; significa porre tutta la nostra fiducia in Dio, in Lui, nel Dio della Vita, dell’Amore. “Si nobiscum Deus, quis contra nos? Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”. Avere fede, per noi che navighiamo nelle tempeste della vita, è sapere che in qualche parte della nostra imbarcazione Lui c’è. Magari dorme, magari non lo sentiamo, magari neppure lo cerchiamo, ma siamo sicuri che c’è! E questo ci deve bastare per andare avanti in serenità, consapevoli che con Lui il nostro viaggio e il nostro approdo avverranno in tutta sicurezza. Amen.

venerdì 12 giugno 2015

14 Giugno 2015 – XI Domenica del Tempo Ordinario

«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce» (Mc 4,26-34).

Per capire le due parabole del vangelo di oggi, dobbiamo fare un passo indietro, esattamente nella parabola del seminatore (Mc 4,1-9), in cui Gesù ci presenta un uomo intento a seminare. Il suo seme cade su quattro tipi di terreno: sui primi tre (la strada, i sassi e le spine) il seme non riesce a crescere. Anche se all’inizio ha una parvenza di crescita, subito dopo secca. Solamente il seme caduto sul quarto terreno cresce e porta frutto e ne porta tanto.
Ma chi è quel seminatore? È Gesù! Egli infatti ha appena iniziato il suo insegnamento pubblico (il seminare), ma con quali risultati? Gli scribi e le autorità rifiutano il suo insegnamento (seme) e gli dicono: “Sei posseduto da uno spirito immondo”; altrettanto fanno i suoi familiari, sua madre e i suoi fratelli: “È pazzo, fuori di sé”. Sono il terreno arido. Ma c’è anche il terreno fertile: ed è solo una piccola parte delle folle, quella formata da gente umile: persone che lo ascoltano col cuore e lo seguono con profitto.
Il seme è dunque uguale per tutti. Non è il vangelo, non è il messaggio di Gesù che è diverso; ma sono i cuori, la profondità, l’interiorità delle persone: sono i terreni che fanno la differenza.
I terreni infatti sono i presupposti, le situazioni, le resistenze delle persone. È per questo che Gesù spesso chiedeva alle persone: “Vuoi guarire?”. Cioè: “Sei disposto ad accettare le conseguenze della guarigione? Sei disposto a fare ciò che si deve fare, a cambiare ciò che si deve cambiare? Sei disposto a perdere ciò che c’è da perdere? A lasciare ciò che c’è da lasciare?”.
Sappiamo che uno dei terreni su cui cade il seme è la strada, quel terreno che i contadini calpestano per entrare nel campo. A forza di camminarci sopra la “strada” diventa dura, impenetrabile, e più niente può nascere da lei. Ebbene, la strada, i sassi, indicano un cuore duro, insensibile, impenetrabile. In questo caso il seme non può nascere, il vangelo non può attecchire, la vitalità non può più fiorire. La persona continua a vivere ma in realtà il suo è un sopravvivere.
Sono situazioni molto comuni: il nostro cuore é fatto per amare e quando è amato si apre come un fiore al calore del sole: è normale per lui aprirsi alla vita e all’amore. Ma cosa succede se è alimentato solo dal dolore? Cosa succede se deve vivere in una situazione di continua sofferenza, di emarginazione, di assalti, di pericolo? È chiaro, si chiude in se stesso. E se la sofferenza cresce al punto da divenire insopportabile, enorme, sconfinata, si chiude ermeticamente, si barrica in se stesso, indurisce, diventa duro, impenetrabile, pietra. Come è successo al tempo di Gesù, a coloro che non hanno voluto accettare il messaggio di Gesù. Meglio, non hanno “potuto” accettarlo: cosa sarebbe successo infatti se lo avessero accettato? Avrebbero dovuto ammettere la loro totale sconfitta: “Il Dio in cui crediamo è un Dio sbagliato; abbiamo impostato male la nostra vita, dobbiamo cambiarla radicalmente; dobbiamo perdere tutte le nostre certezze religiose, dobbiamo rinunciare a tutte le nostre ricchezze”. Per il vangelo infatti, la persona più sfortunata e infelice è proprio il ricco: è uno schiavo, completamente succube delle sue proprietà, delle sue idee, delle sue certezze; non vorrà mai perderle e si aggrappa tragicamente ad esse pur sapendo che non potranno dargli sicurezza: sono fatue, inconsistenti, ma è tutto quello che lui ha!
Allora capiamo perché Gesù dice: “Se non comprendete questa parabola, come potrete comprendere le altre?” (Mc 4,13). In altre parole, se il nostro cuore è una strada arida, come può penetrarvi il messaggio del Vangelo, la Vita, l’Amore? Se il nostro cuore è duro come i sassi, come può svilupparsi e crescere in lui la Parola di Dio?
Il seme c’è, l’annuncio viene proclamato diligentemente dai seminatori: siamo noi che non riusciamo a metabolizzarlo. Siamo noi che non abbiamo la personalità, la struttura mentale, la forza dell’umiltà, per viverlo, per sentirlo, per portarlo avanti. Il nostro cuore è inaridito; è soffocato dalle “spine” del rispetto umano; dalla paura del giudizio, della derisione della gente; e allora come possiamo alimentare questo seme, come possiamo farlo crescere e soprattutto come possiamo viverlo in prima persona? Purtroppo noi non siamo soli al mondo: viviamo in un contesto sociale, in cui il peso del giudizio altrui, della loro opinione, ci condiziona pesantemente nelle nostre scelte religiose, nella nostra crescita, nel far fiorire e maturare il piccolo seme della nostra fede. Ci costringe in pratica a vivere come terra arida.
Ecco allora che dobbiamo scuoterci: la prima condizione è munirci di una ferma convinzione, di una inflessibile determinazione. Dobbiamo essere assolutamente convinti: “Voglio crescere, niente e nessuno può fermarmi!”. È il nostro primo passo, il nostro “blocco” di partenza, da cui prendere la spinta iniziale. Non ci viene chiesto molto: solo la nostra piena “disponibilità”, l’essere cioè, quantomeno, un “terreno fertile”.
Nel processo di maturazione, ci spiega Gesù, a voi spetta solo la parte iniziale: essere voi stessi una dimora favorevole allo sviluppo del seme. Poi il tempo, con il calore del sole dell’Amore e l’umidità della pioggia dei doni dello Spirito, faranno il resto.
Del resto tutte le cose hanno bisogno di un tempo di maturazione: perché nasca un bambino ci vogliono nove mesi; perché la natura rinasca in primavera, ci vuole tutto l’inverno, il tempo dell’attesa: sembra che non accada nulla, ma in profondità la vita si prepara alla sua esplosione. Per tutto ci vuole il suo tempo: non possiamo tirare un bambino per le gambe, perché cresca più in fretta: come non possiamo tirare il gambo di un fiore per allungarlo.
Noi siamo abituati a premere un pulsante, e quello che vogliamo ottenere avviene immediatamente: con il pulsante della tv vediamo cosa succede all’altra parte del mondo; con quello del computer comunichiamo con chi sta all’altro capo del mondo; con quello del telefono raggiungiamo chiunque e dovunque. Tic-tac: tutto avviene. È semplice!
Ma per le cose delle vita, sia naturale che spirituale, non è così: ci vuole un tempo di maturazione. L’amore, la fiducia, i sogni, la vitalità espressa, prima che accadano, hanno bisogno di un tempo di formazione. Di un tempo invisibile di incubazione. Un tempo in cui a noi sembra che non accada proprio nulla; tant’è che, a volte, ci scoraggiamo!
In pratica il vangelo ci avverte che abbiamo dei limiti. Non siamo onnipotenti; possiamo sicuramente tanto, ma non possiamo tutto.
L’Apocalisse dice: “Ecco: io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). E Luca ribadisce: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili” (Lc 17,10).
In altre parole dobbiamo fare la nostra parte, e dobbiamo farla bene fino in fondo; dobbiamo cioè fare bene tutto quello che è di nostra competenza. Di più non possiamo fare. Ci sono cose che non dipendono da noi, quindi non angustiamoci: non abbiamo “potere” sugli altri; è inutile stressare la nostra vita e quella degli altri, perché gli altri non capirebbero mai la nostra intrusione. Ognuno è responsabile del proprio ruolo, della propria vocazione. Nostro compito è quello di seminare sull’esempio di Gesù: poi dobbiamo lasciare che ognuno decida da solo. Nostro compito è lanciare messaggi: ma non siamo noi i padroni della vita altrui.
Viviamo con serenità; facciamo tutta la nostra parte fino in fondo, con grande passione e puntualità; poi ritiriamoci a pregare in pace e in tranquillità.
La seconda parabola di oggi parla di un seme minuscolo: il regno di Dio è come un granello di senape. A noi questo paragone non dice nulla; ma non agli ascoltatori di Gesù, che si saranno sicuramente scandalizzati. Il profeta Ezechiele, infatti, immaginava il regno di Dio come un cedro sopra un monte altissimo (Ez 17). Un cedro, chiamato il re degli alberi, è qualcosa di straordinario, di potente, qualcosa che attira l’attenzione. In altre parole, l’idea che l’israelita del tempo aveva del regno di Dio, era di un qualcosa molto importante, visibile, forte, grandioso. Gesù entra in polemica con tale aspettativa: “Macché! Il regno di Dio è come un grano di senape, seminato su un terreno fertile, nei campi pianeggianti, non certo su qualche monte altissimo!”. La senape poi è un po’ come la gramigna, cresce ovunque. Il suo seme minuscolo trasportato dal vento, s’insinua quindi tra le fessure delle case, sopra i tetti, per le strade, in ogni angolo: cresce dappertutto. Gesù con questo vuol dire una cosa molto importante: “Il regno di Dio può arrivare, come la senape, dappertutto, in qualunque angolo, della terra, anche il più lontano, dove meno ce l’aspettiamo”.
C’è poi un’altra particolarità della senape: è un arbusto che non attira l’attenzione. Se uno non lo conosce, la sua presenza passa inosservata, anche se a volte cresce fino ad uno, due metri. Quando nel vangelo sentiamo parlare dell’albero di senape, immaginiamo chissà cosa: invece è un arbusto che neppure si nota! Ecco: il regno di Dio è proprio così: piccolo, nascosto, che non attira l’attenzione. Non è un fenomeno enorme, spettacolare: ma proprio perché è piccolo può propagarsi ovunque, può infilarsi in ogni dove.
Ed è esattamente quello che hanno fatto gli apostoli: hanno infestato di Gesù il mondo intero. Il seme del vangelo, nelle loro mani, è stato veramente qualcosa di modesto, di umile, di non appariscente: ma di una potenza soprannaturale incredibile e inspiegabile.
Tutto ciò che riguarda Dio ha pertanto queste caratteristiche: è piccolo e per niente appariscente. Ma se gli diamo spazio, se lo lasciamo crescere, se gli diamo fiducia, se lo facciamo vivere, come un granello di senape, infesta il mondo!!!
Se guardiamo a quello che siamo (un granello di senape) non possiamo che dire: “Dove vogliamo andare?”. Se guardiamo bene a chi siamo (insignificanti, nessuna dote particolare) non possiamo che dire: “Non siamo nulla, non ce la faremo mai!”. Ma se guardiamo alla potenza che abbiamo in noi (Dio), quella potenza che non “siamo noi” ma che sentiamo “dentro di noi”, allora possiamo veramente infestare il mondo intero di vita, di amore, di pace, di luce, di profondità.
L’importante infatti non è ciò che siamo, ma ciò che sappiamo trarre da ciò che siamo. E non dobbiamo mai vergognarci di nulla, perché neppure Dio si vergogna di noi. Amen.
 
 

giovedì 4 giugno 2015

7 Giugno 2015 – SS. Corpo e Sangue di Cristo

«Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: Prendete, questo è il mio corpo. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (Mc 14,12-16.22-26).

Il vangelo di oggi ci ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, la festa del Corpo e Sangue di Cristo.
E ci sottolinea quanto sia importante la condivisione, quanto sia fondamentale partecipare tutti e continuamente allo stesso banchetto del Corpo di Cristo, il fare cioè “comunione” con i fratelli: è la festa di tutti noi, la festa per tutti, la festa che ci ricorda l’importanza di essere Chiesa. Ogni volta che partecipiamo all’Eucarestia assumiamo tutti lo stesso unico pane: è la festa comune, la festa di tutti.
Una delle grandi rivoluzioni che Gesù ha portato nelle usanze dell’epoca, è stata la sua abitudine di condividere il cibo con la gente, di sedersi a tavola e mangiare con tutti: lo faceva con gli esattori delle tasse, con i pubblicani e i peccatori, con i farisei e gli uomini di legge; mangiava perfino con i lebbrosi, e durante uno dei suoi pasti accolse pure delle donne di cattiva fama. Gesù non si è mai posto problemi, mangiava ogni giorno e in compagnia di chiunque si trovasse con lui.
E proprio per questa sua abitudine era accusato apertamente dai suoi nemici: gli rinfacciavano di mangiare continuamente, di essere un beone e un crapulone; di mangiare anche nei giorni proibiti (come di sabato) e di non rispettare le regole religiose che riguardavano il cibo, come per esempio non fare le abluzioni obbligatorie prima di mangiare.
Questo succedeva al tempo di Gesù. Chi non osservava tutte le norme, chi non si sottoponeva a tutte le prescrizioni della legge, era automaticamente escluso dalla religione, era un pubblico peccatore. Data ovviamente l’esistenza di una enorme quantità di obblighi, la cui osservanza puntuale era praticamente impossibile, ne conseguiva che la maggior parte della gente non poteva che essere peccatrice: ma peccatrice per cosa? se tutti quei poveretti non riuscivano neppure a sopravvivere, come potevano pagare le decime, digiunare, non lavorare di sabato, evitare di fare lavori impuri? Come potevano seguire tutte le norme di purificazione, i codici degli obblighi e delle purità? Era insomma materialmente impossibile venir considerato tra i “puri”.
Ma Gesù sconvolge questo sistema: la sua missione non è quella di fondare un’elite di puri, di salvati, di uomini “in grazia”; ma di abbattere qualunque forma di emarginazione per tutti i feriti nel cuore e nella vita, per tutti gli esclusi, per tutti i reietti.
Per chi infatti Egli ha lasciato in eredità il suo Corpo e il suo Sangue? Per chi ha istituito l’Eucarestia? Per tutti quelli che si sentono deboli, sofferenti, bisognosi, vulnerabili. Noi tutti andiamo da Gesù non perché siamo in regola o puri, ma perché abbiamo bisogno del suo amore.
Abbiamo bisogno di sentirlo materialmente vicino, abbiamo bisogno di mangiare il “Suo” cibo.
E Gesù mangia con noi: anche se siamo disonesti come Zaccheo. Tutti noi rubiamo, tutti noi facciamo i nostri calcoli e scegliamo sempre ciò che ci è più utile; in amore per esempio: chiediamo tanto agli altri, pretendiamo dai nostri figli obbedienza e rispetto, dai nostri mariti o mogli massima tenerezza e disponibilità; ma noi diamo molto poco. Spendiamo molto poco, spesso addirittura proprio niente. Gesù mangia con noi anche se siamo come l’esattore Levi, anche se condividiamo la sua stessa mentalità: “Io ti do, solo se tu mi dai”. Quel poco di bene che facciamo è addirittura oggetto di contrattazione: “Tu cosa mi dai in cambio? Io non faccio nulla per niente”
Gesù mangia con noi anche se siamo esattamente come, o forse peggio, le “donne facili”. All’esterno facciamo finta di nulla, ma nella nostra coscienza sappiamo bene quali vergogne e a quali imbarazzanti compromessi ci siamo abbassati per ottenere in cambio un bene inutile ed effimero. Anche Lui conosce bene queste nostre infamie; ma Lui viene lo stesso.
Gesù mangia con noi anche se siamo dei Giuda, anche se continuiamo a tradirlo, a venderlo vergognosamente ai suoi carnefici; mangia con noi anche se siamo dei fuorilegge, dei delinquenti, degli approfittatori, dei malviventi: gli altri possono a ragion veduta anche evitarci, rifiutarci, detestarci, odiarci; ma Lui no, Lui non ci rifiuta, non ci odia. Gesù mangia con noi
Ecco allora che ogni volta che andiamo all’Eucarestia, Lui ci offre l’opportunità di lavare le nostre mani sporche e impure. Perché le nostre mani sono realmente sporche e impure. Se non ci fosse Lui, noi saremmo dei condannati, dei reietti, degli emarginati. Ma Lui viene comunque, si posa comunque sulle nostre mani e sul nostro cuore, non perché lo meritiamo ma perché ne abbiamo assoluto bisogno. E allora sentiamo nel nostro cuore di essere ancora degni di vivere; sentiamo di poter ripartire; sentiamo di poter girare pagina; sentiamo che il suo amore è molto più grande dei nostri errori; sentiamo che ciò che il mondo non può perdonarci, Lui ce lo perdona: sempre. Per questo partecipare all’Eucarestia è una festa: è la nostra festa, la festa non dei giusti ma degli amati!
Ogni volta che, purificati dal suo perdono, ci accostiamo al banchetto eucaristico, stendiamo queste nostre misere mani e Lui, nonostante tutto, nonostante il nostro passato burrascoso, il nostro misero presente, accetta di poggiarsi su di esse; apriamo la nostra bocca, e assumiamo questo “pane” angelico, che prima di trasformarsi in noi, ci ripete: “Io ti amo comunque. Ti voglio bene sul serio; tu sei troppo importante per me; io accetto di diventare te, accetto di immedesimarmi con te, anche se tu non mi ami, anche se tu mi hai voltato le spalle”.
Ogni volta che celebriamo l’Eucarestia, il sacerdote ci dice: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue”. Sappiamo che parla di Gesù: Lui, in quel pane, viene da noi; quel pane è Lui.
Ma quelle parole non devono rimanere “parole” e basta: devono diventare le nostre parole, le parole che diciamo agli amici, a coloro che amiamo, al nostro compagno di vita, al mondo intero: “Questo è il mio corpo e questo è il mio sangue”. È il nostro donarci ai fratelli. È il nostro donarci alla vita. È un po’ il nostro matrimonio col mondo intero. Ricordate il senso della formula matrimoniale? Lo sposo dice alla sposa: “Questo è il corpo che tu ami, il corpo su cui ti appoggi, il corpo che ti rende sicura, che ti tranquillizza, il corpo che lavora, il corpo che si prenderà cura di te, della tua casa, dei tuoi figli. Prendilo così com’è, mia sposa, con i suoi limiti e le sue difficoltà, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella sofferenza”. E lei dice a lui: “Prendi, mio sposo: questo è il mio corpo. Questo è il corpo che tu accarezzi, che tu stringi, che tu baci; è il corpo dell’amore, è il corpo che ha bisogno di te, che ti sta vicino; che a volte si arrabbia e si isola; è il corpo che tu hai scelto, che tu conosci. È il corpo che ti darà dei figli, è il corpo della persona con la quale tu hai scelto di condividere la tua vita, ogni giorno, ogni ora, l’oggi, il domani, sempre; è il corpo che stirerà, che laverà, che ti preparerà da mangiare, è il corpo di cui tu dovrai farti carico. Prendilo così com’è, compagno mio, con i suoi limiti e le sue difficoltà, con i suoi alti e i suoi bassi”. Lui dice a lei: “Prendi questo è il mio sangue, la passione, l’ardore, la forza, il coraggio, la stabilità. Questo è anche il mio dolore, la mia sofferenza, il mio pianto, la mia fatica: prendi e bevi anche questo, accoglilo, accettalo, amalo”. E lei dice a lui: “Prendi questo è il mio sangue, il sangue di ogni mese, la mia vita, il sangue di tuo figlio, la gioia di vivere, di conoscere, di amare. Questo è anche il mio dolore, è la mia sofferenza, il mio pianto, la mia fatica: prendi e bevi anche questo, accoglilo, accettalo, amalo”. Questo è lo spirito che ci deve animare dopo ogni Eucaristia.
Allora ogni volta che sentiamo le parole del vangelo: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue”, sappiamo che non è solo il donarsi di Gesù a noi, ma anche il donare noi stessi ai nostri cari, a nostro marito, a nostra moglie, ai nostri amici, al mondo intero.
Vivere una vita eucaristica, non vuol dire andare in chiesa tutti i giorni. Vuol dire vivere facendo della propria vita un dono d’amore: “mangiate, bevete, riposate, guarite nel mio corpo, nella mia anima; disponete pure di tutto me stesso”.
Se non riusciamo a ripetere al nostro prossimo: “Questo è il mio corpo per te”, che vita sarebbe la nostra? Se non facciamo della nostra vita un dono, la nostra vita è inutile. Se non possiamo dire a nessuno: “Questo è il mio sangue per te”, la nostra fatica, la nostra lotta, la nostra passione, il nostro amore non servono a nulla. Se non possiamo donare, esprimere, dare ciò che abbiamo di più profondo, di più intimo, di assolutamente “nostro”, a che serve vivere?
Il pane è fatto per essere mangiato. Tenuto in un cassetto diventa duro, fa la muffa, e non serve più a nessuno. Il vino è fatto per essere bevuto e assaporato. Lasciato in disparte, si ossida, perde il suo gusto, diventa vecchio, diventa aceto, non serve a nessuno. La vita è fatta per essere vissuta, investita, spesa, impegnata, donata, altrimenti è inutile. La felicità non è donare ma donarsi: felicità è poter dire anche noi con Gesù: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue: mangiatene e bevetene”. Amen.