«Così è il regno di Dio: come
un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il
seme germoglia e cresce» (Mc 4,26-34).
Per
capire le due parabole del vangelo di oggi, dobbiamo fare un passo indietro, esattamente
nella parabola del seminatore (Mc 4,1-9), in cui Gesù ci presenta un uomo intento
a seminare. Il suo seme cade su quattro tipi di terreno: sui primi tre (la
strada, i sassi e le spine) il seme non riesce a crescere. Anche se all’inizio
ha una parvenza di crescita, subito dopo secca. Solamente il seme caduto sul
quarto terreno cresce e porta frutto e ne porta tanto.
Ma chi
è quel seminatore? È Gesù! Egli infatti ha appena iniziato il suo insegnamento
pubblico (il seminare), ma con quali risultati? Gli scribi e le autorità
rifiutano il suo insegnamento (seme) e gli dicono: “Sei posseduto da uno
spirito immondo”; altrettanto fanno i suoi familiari, sua madre e i suoi
fratelli: “È pazzo, fuori di sé”. Sono il terreno arido. Ma c’è anche il
terreno fertile: ed è solo una piccola parte delle folle, quella formata da gente
umile: persone che lo ascoltano col cuore e lo seguono con profitto.Il seme è dunque uguale per tutti. Non è il vangelo, non è il messaggio di Gesù che è diverso; ma sono i cuori, la profondità, l’interiorità delle persone: sono i terreni che fanno la differenza.
I terreni infatti sono i presupposti, le situazioni, le resistenze delle persone. È per questo che Gesù spesso chiedeva alle persone: “Vuoi guarire?”. Cioè: “Sei disposto ad accettare le conseguenze della guarigione? Sei disposto a fare ciò che si deve fare, a cambiare ciò che si deve cambiare? Sei disposto a perdere ciò che c’è da perdere? A lasciare ciò che c’è da lasciare?”.
Sappiamo che uno dei terreni su cui cade il seme è la strada, quel terreno che i contadini calpestano per entrare nel campo. A forza di camminarci sopra la “strada” diventa dura, impenetrabile, e più niente può nascere da lei. Ebbene, la strada, i sassi, indicano un cuore duro, insensibile, impenetrabile. In questo caso il seme non può nascere, il vangelo non può attecchire, la vitalità non può più fiorire. La persona continua a vivere ma in realtà il suo è un sopravvivere.
Sono situazioni molto comuni: il nostro cuore é fatto per amare e quando è amato si apre come un fiore al calore del sole: è normale per lui aprirsi alla vita e all’amore. Ma cosa succede se è alimentato solo dal dolore? Cosa succede se deve vivere in una situazione di continua sofferenza, di emarginazione, di assalti, di pericolo? È chiaro, si chiude in se stesso. E se la sofferenza cresce al punto da divenire insopportabile, enorme, sconfinata, si chiude ermeticamente, si barrica in se stesso, indurisce, diventa duro, impenetrabile, pietra. Come è successo al tempo di Gesù, a coloro che non hanno voluto accettare il messaggio di Gesù. Meglio, non hanno “potuto” accettarlo: cosa sarebbe successo infatti se lo avessero accettato? Avrebbero dovuto ammettere la loro totale sconfitta: “Il Dio in cui crediamo è un Dio sbagliato; abbiamo impostato male la nostra vita, dobbiamo cambiarla radicalmente; dobbiamo perdere tutte le nostre certezze religiose, dobbiamo rinunciare a tutte le nostre ricchezze”. Per il vangelo infatti, la persona più sfortunata e infelice è proprio il ricco: è uno schiavo, completamente succube delle sue proprietà, delle sue idee, delle sue certezze; non vorrà mai perderle e si aggrappa tragicamente ad esse pur sapendo che non potranno dargli sicurezza: sono fatue, inconsistenti, ma è tutto quello che lui ha!
Allora capiamo perché Gesù dice: “Se non comprendete questa parabola, come potrete comprendere le altre?” (Mc 4,13). In altre parole, se il nostro cuore è una strada arida, come può penetrarvi il messaggio del Vangelo, la Vita, l’Amore? Se il nostro cuore è duro come i sassi, come può svilupparsi e crescere in lui la Parola di Dio?
Il seme c’è, l’annuncio viene proclamato diligentemente dai seminatori: siamo noi che non riusciamo a metabolizzarlo. Siamo noi che non abbiamo la personalità, la struttura mentale, la forza dell’umiltà, per viverlo, per sentirlo, per portarlo avanti. Il nostro cuore è inaridito; è soffocato dalle “spine” del rispetto umano; dalla paura del giudizio, della derisione della gente; e allora come possiamo alimentare questo seme, come possiamo farlo crescere e soprattutto come possiamo viverlo in prima persona? Purtroppo noi non siamo soli al mondo: viviamo in un contesto sociale, in cui il peso del giudizio altrui, della loro opinione, ci condiziona pesantemente nelle nostre scelte religiose, nella nostra crescita, nel far fiorire e maturare il piccolo seme della nostra fede. Ci costringe in pratica a vivere come terra arida.
Ecco allora che dobbiamo scuoterci: la prima condizione è munirci di una ferma convinzione, di una inflessibile determinazione. Dobbiamo essere assolutamente convinti: “Voglio crescere, niente e nessuno può fermarmi!”. È il nostro primo passo, il nostro “blocco” di partenza, da cui prendere la spinta iniziale. Non ci viene chiesto molto: solo la nostra piena “disponibilità”, l’essere cioè, quantomeno, un “terreno fertile”.
Nel processo di maturazione, ci spiega Gesù, a voi spetta solo la parte iniziale: essere voi stessi una dimora favorevole allo sviluppo del seme. Poi il tempo, con il calore del sole dell’Amore e l’umidità della pioggia dei doni dello Spirito, faranno il resto.
Del resto tutte le cose hanno bisogno di un tempo di maturazione: perché nasca un bambino ci vogliono nove mesi; perché la natura rinasca in primavera, ci vuole tutto l’inverno, il tempo dell’attesa: sembra che non accada nulla, ma in profondità la vita si prepara alla sua esplosione. Per tutto ci vuole il suo tempo: non possiamo tirare un bambino per le gambe, perché cresca più in fretta: come non possiamo tirare il gambo di un fiore per allungarlo.
Noi siamo abituati a premere un pulsante, e quello che vogliamo ottenere avviene immediatamente: con il pulsante della tv vediamo cosa succede all’altra parte del mondo; con quello del computer comunichiamo con chi sta all’altro capo del mondo; con quello del telefono raggiungiamo chiunque e dovunque. Tic-tac: tutto avviene. È semplice!
Ma per le cose delle vita, sia naturale che spirituale, non è così: ci vuole un tempo di maturazione. L’amore, la fiducia, i sogni, la vitalità espressa, prima che accadano, hanno bisogno di un tempo di formazione. Di un tempo invisibile di incubazione. Un tempo in cui a noi sembra che non accada proprio nulla; tant’è che, a volte, ci scoraggiamo!
In pratica il vangelo ci avverte che abbiamo dei limiti. Non siamo onnipotenti; possiamo sicuramente tanto, ma non possiamo tutto.
L’Apocalisse dice: “Ecco: io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). E Luca ribadisce: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili” (Lc 17,10).
In altre parole dobbiamo fare la nostra parte, e dobbiamo farla bene fino in fondo; dobbiamo cioè fare bene tutto quello che è di nostra competenza. Di più non possiamo fare. Ci sono cose che non dipendono da noi, quindi non angustiamoci: non abbiamo “potere” sugli altri; è inutile stressare la nostra vita e quella degli altri, perché gli altri non capirebbero mai la nostra intrusione. Ognuno è responsabile del proprio ruolo, della propria vocazione. Nostro compito è quello di seminare sull’esempio di Gesù: poi dobbiamo lasciare che ognuno decida da solo. Nostro compito è lanciare messaggi: ma non siamo noi i padroni della vita altrui.
Viviamo con serenità; facciamo tutta la nostra parte fino in fondo, con grande passione e puntualità; poi ritiriamoci a pregare in pace e in tranquillità.
La seconda parabola di oggi parla di un seme minuscolo: il regno di Dio è come un granello di senape. A noi questo paragone non dice nulla; ma non agli ascoltatori di Gesù, che si saranno sicuramente scandalizzati. Il profeta Ezechiele, infatti, immaginava il regno di Dio come un cedro sopra un monte altissimo (Ez 17). Un cedro, chiamato il re degli alberi, è qualcosa di straordinario, di potente, qualcosa che attira l’attenzione. In altre parole, l’idea che l’israelita del tempo aveva del regno di Dio, era di un qualcosa molto importante, visibile, forte, grandioso. Gesù entra in polemica con tale aspettativa: “Macché! Il regno di Dio è come un grano di senape, seminato su un terreno fertile, nei campi pianeggianti, non certo su qualche monte altissimo!”. La senape poi è un po’ come la gramigna, cresce ovunque. Il suo seme minuscolo trasportato dal vento, s’insinua quindi tra le fessure delle case, sopra i tetti, per le strade, in ogni angolo: cresce dappertutto. Gesù con questo vuol dire una cosa molto importante: “Il regno di Dio può arrivare, come la senape, dappertutto, in qualunque angolo, della terra, anche il più lontano, dove meno ce l’aspettiamo”.
C’è poi un’altra particolarità della senape: è un arbusto che non attira l’attenzione. Se uno non lo conosce, la sua presenza passa inosservata, anche se a volte cresce fino ad uno, due metri. Quando nel vangelo sentiamo parlare dell’albero di senape, immaginiamo chissà cosa: invece è un arbusto che neppure si nota! Ecco: il regno di Dio è proprio così: piccolo, nascosto, che non attira l’attenzione. Non è un fenomeno enorme, spettacolare: ma proprio perché è piccolo può propagarsi ovunque, può infilarsi in ogni dove.
Ed è esattamente quello che hanno fatto gli apostoli: hanno infestato di Gesù il mondo intero. Il seme del vangelo, nelle loro mani, è stato veramente qualcosa di modesto, di umile, di non appariscente: ma di una potenza soprannaturale incredibile e inspiegabile.
Tutto ciò che riguarda Dio ha pertanto queste caratteristiche: è piccolo e per niente appariscente. Ma se gli diamo spazio, se lo lasciamo crescere, se gli diamo fiducia, se lo facciamo vivere, come un granello di senape, infesta il mondo!!!
Se guardiamo a quello che siamo (un granello di senape) non possiamo che dire: “Dove vogliamo andare?”. Se guardiamo bene a chi siamo (insignificanti, nessuna dote particolare) non possiamo che dire: “Non siamo nulla, non ce la faremo mai!”. Ma se guardiamo alla potenza che abbiamo in noi (Dio), quella potenza che non “siamo noi” ma che sentiamo “dentro di noi”, allora possiamo veramente infestare il mondo intero di vita, di amore, di pace, di luce, di profondità.
L’importante infatti non è ciò che siamo, ma ciò che sappiamo trarre da ciò che siamo. E non dobbiamo mai vergognarci di nulla, perché neppure Dio si vergogna di noi. Amen.
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