giovedì 25 aprile 2024

28 Aprile 2024 – V DOMENICA DI PASQUA


Gv 15,1-8 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Il brano del vangelo di oggi è tratto da quel lungo discorso di commiato (Gv cc. 13-16), che Gesù ha rivolto ai discepoli prima di essere arrestato dai suoi carnefici. Siamo durante l’ultima cena: Egli apre completamente il suo cuore, rivelando, con profonda emozione, tutto il suo amore per loro: parla di sé, della sua “ora” ormai “arrivata”, di ciò che l’aspetta, del suo domani di passione; parla delle loro preoccupazioni, di ciò che anch’essi dovranno affrontare nel futuro, dell’amore e dell’odio che il mondo riserverà loro. E per spiegare in maniera più comprensibile la sua missione di salvezza, il suo ruolo di guida, la sua leadership permanente, ricorre all’immagine, allora comune, del vignaiolo, della vigna incolta, della vite fertile e dei suoi tralci fruttuosi; un simbolismo molto noto al popolo, in quanto lo stesso Israele, nella Scrittura, era equiparato ad una vigna, di cui Jahweh stesso ne curava la manutenzione; molto celebre, per esempio, è il passo di Isaia, in cui Dio, amareggiato, si lamenta della infedeltà del suo popolo: “la vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,1-24). Nel Cantico dei Cantici, la sposa (Dio) invita lo sposo (il popolo) nella “vigna”, ritenuta il luogo dell’amore, dell’incontro, della felicità, della gioia. Così il “vino”, ottenuto dal frutto della vite, era simbolo di benessere interiore, di appagamento delle aspirazioni più profonde, di ebbrezza, di stordimento spirituale, di intensa percezione della bellezza del vivere; a Cana, infatti, quando durante il banchetto nuziale viene a mancare il vino, la festa rischia improvvisamente di guastarsi; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando per tutti vino a volontà, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo, più di prima. 
Se i tralci non producono uva, se in essi non è avvenuto alcun passaggio di linfa vitale, se non producono più il loro frutto, elemento fondamentale per la felicità, per il benessere dell’uomo, vuol dire che sono secchi, privi di vita, e quindi destinati ad essere tagliati e buttati al fuoco.
È dunque in questi termini che Gesù spiega ai suoi che se vogliono ottenere dei risultati nella loro missione, devono sempre rimanere uniti a Lui, esattamente come avviene in natura tra la vite e i suoi tralci: il tralcio, strutturalmente distinto dal fusto della vite, è comunque parte di essa, ne è la sua propaggine, e solo se rimane unito ad essa può portare frutto: il fusto quindi è la vita per il tralcio, è il suo nutrimento, la sua forza, il suo tutto. Vite e tralcio formano pertanto un tutt’uno inseparabile, per il benessere degli altri.
Purtroppo, in questa nostra società, ricca di “tralci” umani completamente diversi, piuttosto che una fraterna collaborazione al bene comune, vige una radicale, errata, controproducente concorrenza: ognuno, sopravalutando se stesso, è convinto che nessuno possa superarlo, che nessuno sia “più” di lui, non accetta “superiorità” di alcun genere; gli dà fastidio cioè che nella vita, gli altri esprimano meglio di lui le loro potenzialità, realizzino con maggior successo i loro programmi, diventino insomma quei “tralci unici”, che producono frutto in qualità e quantità per essi irraggiungibili.
Ciò che caratterizza invece qualunque comunità, non sarà mai il fare tutti le stesse cose, l’essere tutti uguali, possedere tutti le stesse identiche capacità: la superiore qualità del prodotto di una vite non è data dalla quantità di uva prodotta dai singoli tralci, ma dalla sua bontà, dal suo gusto, dalla maturazione succosa dei suoi grappoli, dovuti appunto ad una più capillare circolazione della linfa, alla migliore esposizione ai raggi del sole; in altre parole, riferito a noi, è l’amore, il dialogo, la condivisione, la comprensione, la disponibilità che in una convivenza crea stabilità, serenità, pace, benessere comune.
Molte famiglie, molte comunità, molti “gruppi”, pensano di essere “uniti” solo perché si radunano insieme molto spesso. Ma non è l’incontrarsi di frequente che dimostra l’unione di un gruppo. Essere uniti è tutt’altra cosa; significa condividere nell’anima, nello spirito, nella vita gli stessi sentimenti, gli stessi ideali; significa “sentire” che gli altri condividono con noi le loro personali e diverse aspirazioni, le particolari necessità dell’anima, esattamente come noi facciamo con loro: l’unione vera, infatti, è data da una vicinanza “sentita”, dalla convivenza di due spiriti assolutamente diversi, liberi e autonomi, non certo da una compresenza fisica.
Noi che siamo i “tralci”, pertanto, non dobbiamo mai staccarci dalla vite, che rappresenta l’unica nostra possibilità di emergere, di sopravvivere; non dobbiamo mai staccarci dalla nostra “vite”, dal nostro “Spirito”, dalla nostra anima; mai arrogarci le prerogative della vite, mai cercare di sopraffare l’altro, perché nell’esatto momento in cui lo facciamo, perdiamo ogni nostra vitalità comune, rinsecchiamo, siamo destinati ad una morte spirituale certa. È la legge della sopravvivenza: il tralcio, staccato dalla vite, inesorabilmente muore. Non esistono alternative.
Gesù dunque si propone come “Vite”, come “Vita” vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto, l’ebbrezza della vita, sono l’elisir della felicità, l’unico vero piacere della vita”. Parole però che lasciano trasparire anche le difficoltà del percorso per giungere a tanto: ogni qualvolta, per esempio, il sacerdote nel celebrare l’Eucaristia pronuncia sul vino, frutto della vite, la formula sacramentale “Questo è il mio calice, versato per voi”, con cui lo transustanzia nel sangue di Cristo, ci ricorda due cose importanti: che il “sangue versato”, oltre che riferirsi alla passione di Gesù, ci mette di fronte alla nostra situazione umana, alle nostre malattie, alle nostre sofferenze; ci ricorda soprattutto, però, che quel “sangue” è Gesù stesso in persona che diventa nostro gusto, nostro sapore, nostra gioia di vivere: è Lui infatti che con la sua presenza dentro di noi, ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura, e soprattutto il suo amore.
Vivere nell’intimità divina, in stretta unione con Gesù, nostra Vite, vuol dire per noi “tralci” segregarci dalle cose futili della quotidianità, rifugiarci nel silenzio della nostra anima, lasciarci inebriare dalla Sua presenza, agevolare in noi la trasfusione della Sua forza, della Sua potenza, del Suo amore.
Chi rimane insensibile a tutto ciò, è a dir poco un rinunciatario, uno che non sa “vivere”, uno che quando piove preferisce stupidamente starsene all’aperto e bagnarsi, piuttosto che entrare in “casa” sua! Come può pensare infatti di entrare in intimità con Dio, chi si rifiuta a priori di entrare in intimità con sé stesso? Per entrare in autentica unione con Lui non basta andare in chiesa e riempirlo di parole, di promesse, di chiacchiere, di preghiere biascicate: bisogna lasciarsi compenetrare dalla sua presenza, in una silenziosa, adorante, disposizione spirituale dell’anima! Sono troppi quelli che purtroppo parlano “a Dio” ma non “con Dio”. Sono troppi quelli che quando sono in chiesa, quando sono davanti a Dio, quando pregano, quando cantano, quando celebrano, non provano più alcuna emozione interiore, nessun trasporto spirituale, nessuno slancio; persone che non si commuovono più di fronte alle parole di Gesù; che non si lasciano coinvolgere in ciò che fanno; che non provano l’ebbrezza del canto o l’intima e preziosa sonorità del silenzio. Persone, insomma, che hanno solo paura di Dio, hanno soggezione di Lui, non vogliono aprirsi; persone che in cambio, nella loro mediocrità, diventano logorroiche, lo subissano di vuote parole, piuttosto che di prove tangibili di amore. Sono troppe le persone che parlano agli altri dell’amore di Dio, che invitano tutti ad amarlo, ma lo fanno soltanto con la voce, con la bocca, perché il loro cuore è arido, insensibile; la loro vita lascia trasparire solo tristezza, amarezza, fallimenti, sconfitte, rimorsi. Non è così che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi, non è questa la felicità che ha pensato per noi: Egli al contrario, per noi, ha creato il sole, le stelle, le bellezze della natura, la vita, il mondo intero; soprattutto ci ha donato il suo amore, perché lo gustassimo, lo assaporassimo, ci saziassimo con esso il cuore e l’anima.
Gesù dice: “Rimanete in me”. E ce lo ripete continuamente, quasi ossessivamente, perché dobbiamo coglierne il pieno significato. È importantissimo, perché in questo “rimanere in Lui” c’è tutto il segreto della vita felice: poter cioè anticipare, già in questa vita, quella felicità futura che ci è stata promessa per quando lo vedremo “così come egli è” (1Gv 3,2).
I ragazzi di oggi, a chi è visibilmente distratto, chiedono perentoriamente: “Sei connesso o no?”. Ebbene, chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra anima, sono sempre “connessi” con Lui? Guai a noi se chiudiamo questo contatto, guai a noi se stacchiamo la spina, perché, ci dice oggi Gesù, “senza di me, voi non potete far nulla”: non dimentichiamo mai questa verità, perché Lui è l’unico canale che ci trasmette linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.

 

  

sabato 20 aprile 2024

21 Aprile 2024 – IV DOMENICA DI PASQUA


Gv 10,11-18 
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Giovanni, nel vangelo di oggi, ci presenta Gesù che si definisce “buon pastore”. Non un pastore qualunque, ma “ò poimèn ò kalòs”, come dice il testo greco: “il pastore quello bello, quello buono”.
E si sofferma a descrivere quelle che sono alcune delle caratteristiche particolari di questo pastore buono: non solo guida le pecore, si prende cura di loro, ma le conosce per nome, una per una; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono, va a cercarle fino a quando non le ritrova; le ama talmente, da dare per loro la propria vita.
Un pastore, dunque, decisamente agli antipodi rispetto al mercenario: a colui cioè che lo fa per lavoro, per soldi, per interesse, per guadagno. Al mercenario non interessa il bene delle pecore, ma unicamente il proprio, egli guarda soltanto il proprio tornaconto, a ciò che può guadagnare da esse. Egli non le ama, ma si serve di esse, le utilizza, sono una merce di scambio.
Un po’ come ci comportiamo oggi anche noi “cristiani”, immersi in una società che di cristiano ha ben poco: in una società del benessere in cui ciascuno non dispone mai di un po’ di tempo per pensare concretamente al prossimo, per aiutare i più bisognosi, per prodigarsi a favore dei fratelli più deboli. Siamo circondati da gente che usa e abusa del prossimo: governanti, politici, datori di lavoro, amici, colleghi, noi stessi: siamo tutti indistintamente “pastori” che cercano di trarre dalle “pecore” un utile personale; dimostriamo loro attenzione soltanto se la pensano come noi, se sono mansuete, accomodanti, se ci obbediscono, se non creano problemi, se sono produttive. E poi? Più nulla.
Certamente non siamo dei “buoni” pastori: non nutriamo vero amore, siamo autoritari, presuntuosi, egocentrici, il nostro interesse primario è una smodata affermazione personale.
Quando invece l’intera umanità, noi per primi, sentiamo l’assoluto bisogno di “buoni” pastori: di persone che ci siano vicine, che ci diano fiducia, che ci offrano la certezza dell’accoglienza, di essere benvoluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone alle quali poter dire: “So che se non mi abbandonerai mai: sia nella buona che nella cattiva sorte, tu sarai sempre con me”. Persone insomma che ci rassicurino, ci tranquillizzino; pastori veri, pastori “buoni”, che trabocchino di carità e regalino amore sull’esempio di Gesù.
Sono questi insomma i pastori che desideriamo costantemente al nostro fianco: in particolare per adeguarci a loro, per imitarli, per immedesimarci in loro; perché anche noi abbiamo il nostro piccolo gregge da accudire: anche noi siamo “pastori”: anzi lo siamo doppiamente, sia nei confronti di noi stessi, che nei confronti dei nostri fratelli.
Siamo pastori di noi stessi, perché raccolte nel recinto della nostra anima, della nostra mente, abbiamo molte “pecore” da accudire: sono le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre aspirazioni, gli ideali della nostra vita, i richiami della nostra coscienza, i nostri propositi, le nostre necessità spirituali. Come dobbiamo comportarci con queste “pecore”? Noi le conosciamo bene, le sentiamo nostre, in genere ci teniamo ad esse. Cerchiamo anche di riservare una maggiore attenzione alle “malate”, a quelle che strada facendo si sono ferite.
Per essere però degli autentici “pastori”, per meritare pienamente il titolo di “buoni”, non dobbiamo mai lasciarci condizionare dall’orgoglio, non dobbiamo mai “pretendere”, essere duri, testardi, esigere da noi stessi l’inarrivabile; al contrario dobbiamo essere umili, riconoscere i nostri errori e porvi immediato rimedio, non smettere mai di “cercarci” quando ci perdiamo, percorrere sempre la strada maestra, quella sicura, per condurre questo nostro “gregge” al recinto sicuro della pace.
Tutto ciò che prende forma nella nostra mente e che vive in noi, ha bisogno di cura, di amore, di protezione, di dedizione; non ogni tanto, ma di continuo, ogni giorno. Raggiungere un controllo maturo delle nostre “pecore”, diventare fedeli, rispettosi dei nostri principi, precettori coscienziosi di noi stessi, richiede tempo, applicazione, costanza. “Quanto ci vorrà?” È la classica domanda che puntualmente ci poniamo nell’affrontare qualcosa di impegnativo: non lo sappiamo; ci vorrà tutto il tempo che ci vorrà! Risolvere tutto velocemente, il più in fretta possibile, significa non affrontare correttamente il problema, equivale a cercare un risultato di comodo, un compromesso, un rimedio, soprattutto una risposta, che potrebbe poi rivelarsi deleteria per la nostra vita.
Quello di condurre, di guidare saggiamente quella miriade di “pecore” che escono quotidianamente dal recinto della nostra mente, è ovviamente un compito invisibile all’esterno, ma non per questo meno fondamentale, poiché si tratta di un “gregge” che inevitabilmente si proietta, si materializza all’esterno.
L’importanza del nostro essere dei “buoni pastori” in questo nostro compito nascosto è infatti strettamente correlato con la nostra seconda identità di pastori, quella che ci impegna all’esterno, che ci qualifica immediatamente per come ci comportiamo nei confronti di un altro nostro gregge, di quelle “pecore” cioè che si identificano come nostro prossimo, nostri fratelli, “pecore” che vivono materialmente la nostra stessa esistenza, che ci stanno sempre vicine, oppure che incontriamo saltuariamente: pecore con le quali dobbiamo relazionarci materialmente, pecore che meritano tutta la nostra attenzione, la nostra carità, la nostra dedizione: soprattutto, pecore che non dobbiamo “usare”, non dobbiamo “gestire”, non dobbiamo umiliare; pecore che al contrario, proprio nel nostro ruolo di pastori, guide, maestri, genitori, leader, dobbiamo “servire” con la massima attenzione e cura: perché sono tutte “creature” speciali, che Dio ci ha affidato come compagne di percorso: sono insomma quelle “pecore” che costituiscono il nostro “capitale umano”.
A questo proposito, essere in particolare dei “buoni pastori” significa anche non scaricare su di esse i nostri malumori, le nostre manie, le nostre fissazioni, non imporre le nostre vedute; significa non abusare della nostra autorità, non far pesare le nostre richieste; significa non svilirle, non disprezzarle considerandole degli oggetti, degli “utensili” da usare, delle “macchine” a nostro servizio, privandole di ogni loro dignità personale.
Quante “pecore” purtroppo vivono in balia dei capricci dei loro “pastori”! Quante devono fare i conti con la loro aggressività, con la loro violenza, con i loro comportamenti assolutamente negativi, immorali, inumani, che generano dolore, ansia, insicurezza, smarrimento.
Il “buon pastore”, al contrario, trasmette stima, crea serenità, fiducia, gioia; egli crede nelle proprie pecore; è convinto che in ognuna di esse ci siano germogli di bontà: “Io credo in te perché sei importante, sei una creatura di Dio, sento che tu vali”. Per questo egli vuol conoscere personalmente una ad una le proprie pecore: vuole valorizzarle singolarmente, perché nessuna è uguale all’altra: egli sa infatti che dirigerle, guidarle, significa stimolarle, incoraggiarle, spronarle nella loro personale creatività, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse.
Essere “buon pastore”, in una parola, significa amare le proprie pecore. Dove amare, come insegna Gesù, sta per servire: mettersi cioè al servizio delle loro possibilità, delle loro necessità, ponendo in secondo piano la propria volontà. “Servire” non è assolutamente “asservire”, termine simile, ma che significa l’esatto contrario; poiché indica un comportamento inaccettabile in un buon pastore, come sottomettere, assoggettare, conquistare, dominare gli altri.
Anche qui però bisogna fare attenzione, perché questa importante “apertura” verso l’altro, questa sensibilità, questa bontà, non va assolutizzata indiscriminatamente: non deve cioè “condizionare” sistematicamente il pastore, non deve influenzare a priori ogni sua valutazione. Egli deve sempre rimanere neutrale, libero, per decidere con equità, con imparzialità; chi comanda, chi dirige non può assecondare passivamente ogni velleità, ogni capriccio delle persone affidate alle sue cure, soprattutto se sono minori. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una “pecorella” finita fuori strada, va fatto nella carità ma con mano ferma, senza esitazioni o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il loro rifiuto, non deve temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.
Ci sono genitori letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno tenere un punto fermo. Madre e padre per assecondarli finiscono per mettersi l’una contro l’altro: con il risultato che in genere l’una, la madre, per lo più disponibile al “sì”, è la buona; l’altro, il padre, propendendo per il “no”, è il “solito” cattivo. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla sempre vinta, di comportarsi come vuole, diventando col crescere sempre più un tiranno, un despota, un patologico narcisista, che non avrà rispetto per niente e nessuno, convinto di potersi permettere tutto ciò che vuole.
Molti “pastori” confondono la bontà con la debolezza: si guardano bene dal dire un “no” deciso, temendo di offendere, di ferire, di mancare di rispetto, di passare per “senza cuore”. Pensano che deludere talvolta le aspettative, i desideri di qualcuno, equivalga ad averlo in odio, ad essere crudeli nei suoi confronti. Ma non è vero: la delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono posizioni decisamente positive, costruttive, perché obbligano il destinatario a fare delle riflessioni altamente educative, a capire cioè che nella vita non tutto è permesso, non tutto è legittimo; che esistono dei limiti, delle condizioni, dei paletti da rispettare; che la convivenza umana, la morale, la coscienza, impongono delle restrizioni, dei “no” precisi, che non consentono a nessuno di fare ciò che si vuole.
D’altro canto però, i “pastori” non devono neppure “maramaldeggiare”: non devono cioè infierire per principio, per partito preso, sui loro sottoposti, opponendo sistematicamente, sadicamente, un netto rifiuto ad ogni loro iniziativa: perché anche questo è sbagliato, è altrettanto diseducativo; est modus in rebus, diceva Orazio: ogni cosa ha una sua misura, un suo modo ottimale per affrontarla; non bisogna mai scegliere gli eccessi, il rigore preconcetto, perché, pur trovandosi nel giusto, colui che comanda senza amore, senza carità, finisce col perdere la propria autorevolezza, col diventare un burbero fantoccio che difficilmente otterrà ciò che chiede.
Il buon “pastore” sta sempre davanti, perché deve condurre gli altri (in greco agaghèin, da àgo, portare, precedere, guidare): deve cioè percorrere la loro stessa strada, deve dare il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i suoi passi la direzione più agevole e sicura da seguire: convinto che le regole del reciproco rispetto, dell’amore, della comprensione, sono le stesse, sia per chi precede che per chi segue, sia per i pastori che per le pecore. Amen.

  

giovedì 11 aprile 2024

14 Aprile 2024 – III DOMENICA DI PASQUA


Lc 24,35-48 
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Emmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

I due discepoli di Emmaus tornano dalla loro incredibile esperienza e raccontano di come abbiano incontrato Gesù sulla strada del ritorno a casa; anche Pietro racconta entusiasta il suo incontro con il Signore: ciò nonostante, quando Gesù si presenta a tutto il gruppo riunito insieme, essi rimangono dubbiosi, meravigliati, senza parole. Cosa significa? 
È chiaro: come abbiamo detto domenica scorsa, l’esperienza del Signore Risorto, cioè vederlo, sentirlo vivo, presente nella vita, è un’esperienza che ciascuno deve fare personalmente. Gesù infatti dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”. Per sincerarsi che davvero Gesù sia lì davanti a loro, che sia vivo, che si muova, parli, agisca, non basta infatti ai discepoli “guardarlo”: per averne la certezza, è necessario “toccarlo”, palparlo, uscire allo scoperto, lasciarsi coinvolgere, e questo lo possono fare solo individualmente, non in gruppo.
E ciò vale anche per noi: non ci basta il racconto degli altri; non ci basta andare in chiesa, non ci basta che altri credano e abbiano rivoluzionato la loro esistenza; non ci basta conoscere persone che, grazie alla loro fede, sono guarite dalle malattie; non ci basta scoprire la felicità negli occhi di quanti vivono una fede convinta, sincera, dopo averlo incontrato sulla loro strada. Nulla può indurci a credere veramente, se non ci decidiamo a “toccare” Dio con le nostre “mani”, a lasciarci sconvolgere intimamente dalle sue Parole; soltanto se gli permetteremo di rivoluzionare la nostra mente, di scuotere la nostra vita, le nostre certezze, riusciremo a capire che Lui è veramente il Dio “vivo”, solo allora arriveremo a “credergli” convintamente; perché la vera fede è incontro, prova, esperienza, dedizione, fiducia: se non riusciamo a conquistare questo dono, continueremo a dibatterci invano tra assurde ipotesi, inattuabili possibilità, inutili dubbi.
Sì, perché se nella nostra ricerca ci lasciamo irretire dai dubbi, dalla diffidenza, dall’orgoglio, se ci costringiamo a rifiutare per principio qualunque soluzione spirituale, qualunque coinvolgimento personale, la nostra vita continuerà a trascinarsi nell’angoscia, nell’incertezza, nella paura di scoprire quella che è la verità di Dio.
Anche gli apostoli, come ci documenta il vangelo di oggi, dimostrano apertamente la loro ritrosia nel credere alla risurrezione: non credono agli amici che hanno visto Gesù; non credono alla Maddalena, non credono a Gesù stesso, pur avendolo lì, davanti ai loro occhi; non gli credono neppure dopo aver visto le sue ferite e aver mangiato nuovamente con lui; fanno fatica a credergli anche quando Gesù, dati alla mano, spiega loro dettagliatamente che tutto quanto gli è accaduto pochi giorni prima, era puntualmente previsto negli Scritti dei loro Padri.
La fede autentica, totale, sincera, è per tutti un traguardo impegnativo, un cammino spirituale che procede per gradi, a piccoli passi, che richiede un’aperta disponibilità, una lenta e faticosa maturazione.
Noi invece preferiremmo un intervento divino fulmineo, scenografico, come quello che ha disarcionato Paolo sulla via di Damasco; noi, cristiani del consumismo, siamo quelli del “tutto e subito”, del “detto e fatto”, del “cotto e mangiato”. Siamo abituati con la TV o il computer: basta un semplice pulsante, un telecomando, e tutto è risolto, tutto lo scibile viene prontamente esibito, ogni nostro dubbio ottiene risposta. Ma con Dio non funziona così! La strada che ci porta a Lui si concretizza lentamente, gradualmente, necessita di silenzio, di raccoglimento, di tempi e modalità particolari. Tutto avviene con pazienza, con dedizione, con perseveranza: è esattamente come scalare una parete rocciosa: qualunque nostro movimento verso l’alto richiede dei punti di appoggio validi: dobbiamo cioè essere sicuri che l’ancoraggio successivo a cui affidiamo la nostra vita, sia in grado di sorreggerci, deve darci fiducia, sicurezza, tranquillità.
Soltanto se giorno dopo giorno sapremo superare le difficoltà della nostra scalata spirituale, altrettanto complicata e impegnativa, riusciremo a raggiungere la vetta altissima di Dio, e abbracciare con il cuore e la mente la grandiosità divina del suo amore.
Luca dunque, oltre a descriverci le difficoltà incontrate dagli apostoli per raggiungere la fede nel risorto, ci lascia intuire anche quelle che sono le strategie da seguire, per facilitarci l’incontro con Gesù.
La prima è di ripetere quanto Gesù stesso ha fatto con i discepoli: presentarci cioè a Lui così come siamo, esibendo le prove della nostra di passione: le nostre ferite, le nostre piaghe interiori, i nostri insuccessi, le nostre cadute.
Presentarci a Gesù in questo modo, significa dimostrargli che nonostante le nostre tante debolezze, siamo riusciti a percorrere un piccolo tratto della sua strada, vuol dire documentargli la nostra vita, le nostre azioni, i nostri pensieri, le nostre disfatte, i nostri fallimenti. Molti cristiani, spossati, sfiniti, scoraggiati dai loro insuccessi, pensano che “non ci sia più niente da fare, che il traguardo sia ormai compromesso, inavvicinabile. Ma non è vero! Gesù ci ha insegnato che dobbiamo superare qualunque difficoltà, dobbiamo insistere, non dobbiamo mai, in nessun caso, “abbandonare l’aratro”, ma guardare sempre avanti, con la costanza e la fiducia di chi sa di non essere solo, perché Dio è sempre al nostro fianco, pronto a correre in nostro aiuto. Non immaginiamo neppure come le cose cambierebbero, se solo ci fidassimo di Dio, se solo mettessimo nelle sue le nostre mani ferite, quando ci sentiamo incapaci di realizzare, di costruire, di fare qualcosa: improvvisamente diventerebbero mani forti, gloriose, risorte, guarite, con le quali poter nuovamente produrre, creare, realizzare. Se mettessimo il nostro cuore ferito in quello trafitto del Risorto, guariremmo immediatamente, e potremmo condividere con gli altri una vita nuova, più intensa, più luminosa.
Il secondo modo per incontrare Gesù è di donare noi stessi agli altri, praticando la carità, l’amore, la comprensione. È nell’apertura verso i fratelli, che potremo sentire chiaramente la presenza di Cristo vivo, di percepirlo in maniera forte. Solo se ci apriremo al prossimo, se lo accoglieremo nella carità, ci sentiremo anche noi accolti e amati; sentiremo nuovamente la gioia della vita pulsare dentro di noi, ci sentiremo nuovamente forti, potenti, fiduciosi, in ciò che facciamo. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”: ebbene, noi ogni settimana abbiamo la possibilità di fare questa “comunità” con i fratelli, celebrando l’Eucarestia, la nostra Pasqua domenicale. È lì, infatti, che le nostre anime possono riconoscersi, unirsi, incontrarsi, per “incontralo” nella partecipazione, nella lode, nella preghiera, nel ringraziamento. È lì che abbiamo la chiara percezione della presenza di Dio: perché Lui è proprio lì, in mezzo a noi, con noi. Ed è da lì, da questo incontro, che usciremo fortificati, come i discepoli, pronti per testimoniarlo al mondo intero.
La terza strada per incontrare il Risorto è lo studio, la meditazione del Vangelo. È lì che Gesù ci spiega la sua vicenda, cos’è successo, cos’è accaduto. Noi dobbiamo capire la nostra storia, da dove veniamo, dove siamo diretti; abbiamo bisogno di individuare quel filo rosso che lega noi, le nostre giornate, la nostra vita, con Dio, con la Vita, perché solo così possiamo dare alla nostra esistenza, un significato, un senso, un legame col soprannaturale, col divino: solo così possiamo fare realmente esperienza del Signore Risorto, scoprendo che nulla avviene per caso, che tutto ciò che ci riguarda ha un senso ben preciso, che ogni nuova situazione che affrontiamo ha sempre qualcosa da dirci: e capiremo che, avendo Dio come obiettivo finale, qualunque sacrificio, qualunque difficoltà, qualunque imprevisto, è affrontabile e superabile.
Per questo, noi cristiani abbiamo un bisogno radicale, assoluto, di conoscere, capire, vivere, il Vangelo e la Bibbia, perché come diceva S. Girolamo: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Purtroppo la società moderna globalizzata è totalmente indifferente a ciò: una situazione quantomai deleteria, perché la gente ha bisogno di conoscere Dio, di credere in Gesù, nel suo vangelo, piuttosto che nella magia, negli amuleti, nelle superstizioni, negli esibizionismi religiosi, giustificandosi con un insignificante “così fan tutti”: l’umanità intera deve credere convinta, deve aderire a Cristo, con l’anima e il cuore; noi cristiani, dobbiamo insomma essere tutti orgogliosi della nostra fede cattolica, di appartenere alla Chiesa di Cristo.
Anche se in questi ultimi anni, proprio al suo interno, si sono distinti pastori che, consacrati per trasmettere al mondo l’autentico messaggio divino e per confermare nella fede i fratelli, hanno invece provveduto a manipolarlo, travisarlo, umiliarlo, assecondando le ideologie di una società corrotta. Purtroppo capita spesso di ricevere, per questo, espressioni di scherno e di commiserazione da parte dei non credenti: “ma tu credi ancora al Dio dei preti? Non ti accorgi che le loro prediche sulla misericordia, sulla carità, sul perdono, vengono apertamente contraddette dai loro comportamenti autoreferenziali, astiosi, vendicativi?”.
Ebbene, non lasciamoci irretire in tali provocazioni: rivolgiamo invece le nostre preghiere a Dio per quanti sono venuti meno ai loro doveri di pastori.
Non solo: ma dobbiamo pregare Dio soprattutto per noi, perché ci aiuti ad essere noi, con la nostra vita, una sincera “lettura vivente” del suo Vangelo, convinti che dalla falsità, dall’ambiguità, dalla disonestà, dall’ignoranza, non potrà mai uscire nulla di caritatevole, di gradito a Dio. Solo la sua Verità assoluta ci rende liberi, anche se talvolta per ottenerla, dobbiamo affrontare difficoltà, dispiaceri, delusioni. Una realtà però ci consola, ci aiuta, ci sorregge nel nostro cammino: ogni volta che ci avviciniamo personalmente a Gesù, ogni volta che ascoltiamo le sue Parole, ogni volta che leggiamo e meditiamo il suo Vangelo, Lui riesce sempre ad infiammarci l’anima, ad appassionarci profondamente, a riscaldarci il cuore: perché il suo Vangelo, non è semplicemente un testo da leggere, ma una persona viva e palpitante che ci parla: è un Maestro indulgente, benevolo ma esigente; un Padre paziente che desidera abbracciare i suoi figli, un Dio tutto misericordia e amore, che si aspetta da essi di essere riamato con gioia. Amen.

  

giovedì 4 aprile 2024

07 Aprile 2024 – II DOMENICA DI PASQUA


Gv 20,19-31 
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Il vangelo di oggi descrive due apparizioni di Gesù ai discepoli rinchiusi nel cenacolo. Nella prima, avvenuta in assenza di Tommaso, Egli lascia intuire le conseguenze del “vedere” il Signore nella propria vita; nella seconda, alla presenza di Tommaso, fa capire che “vedere” il Signore è un fatto strettamente riservato, personale: nessuno infatti può in alcun modo sostituirci nel toccarlo, sentirlo, viverlo, sperimentarlo dentro di noi: è una esperienza intima, che ciascuno deve fare personalmente. 
I discepoli, dopo la morte di Gesù, pensando che: “Se hanno ucciso Lui, sicuramente uccideranno anche a noi!”, si sono barricati nel cenacolo. Vivono le giornate in preda al panico, segregati da tutti, a porte sprangate. Quelle “porte chiuse”, in un simile contesto, sembrano indicare il loro stato d’animo: non vogliono più saperne di Gesù, hanno paura, vogliono dimenticare tutto, vogliono tornare alla loro quotidianità, alla vita di prima.
Certo, in precedenza hanno sperimentato giorni indimenticabili con Gesù: sono arrivati anche a credergli, a seguirlo con entusiasmo, ma la tragedia delle ultime ore ha infranto ogni loro sogno: l’unica possibilità è quella di rinunciare a tutto e di tornare nella tranquillità dell’anonimato.
La paura è un sentimento irrazionale che costringe spesso l’uomo a fare scelte estreme: è infatti per paura che talvolta anche noi voltiamo le spalle a Dio, alla nostra fede: non ce l'abbiamo con Lui, anzi vorremmo che rimanesse nel nostro cuore, vorremmo conoscerlo a fondo; sappiamo bene che non è un nemico, che non vuole ucciderci, condannarci, o farci del male; ma nel nostro animo proviamo comunque una gran paura: paura in particolare di “aprirgli le porte” dell’anima, paura per quello che potrebbe trovare dentro di noi, paura di sentirci rinfacciare la perdita dell’entusiasmo iniziale, l’abbandono dei nostri doveri, delle nostre promesse; paura di finir sbugiardati per i nostri ridicoli travestimenti, per la nostra ipocrisia, per la nostra ambiguità, per i nostri grandiosi progetti fondati sul nulla.
Gli eventi del vangelo di oggi, al contrario, ci assicurano che il nostro Dio non incute terrore: è un Dio che non vuole mettere nessuno con le spalle al muro. Anzi, incontrarlo, è per tutti di vitale importanza, un evento assolutamente necessario, indispensabile: significa scuoterci dal nostro immobilismo, dalla nostra apatia, dal nostro nasconderci; significa rinunciare alla nostra mentalità egoistica, costruire l’esistenza sull’autenticità, scegliere solo il bene, ciò che è costruttivo, efficace, anche se costa, anche se è impegnativo, se talvolta doloroso, imbarazzante: perché significa togliere i “paletti” di protezione del nostro “ego”, significa aprire ogni serratura, spalancare tutte le porte; significa farlo entrare nelle nostre “segrete”, nella zona tenebrosa della nostra falsità, della presunzione, dell’orgoglio, dell'ignoranza, dell’inganno: in una parola nella notte fonda della nostra anima, mettendoci completamente nelle Sue mani e accettare ogni Sua iniziativa.
Tommaso non è presente a questa prima apparizione: come a dire che non è ancora pronto ad incontrare Gesù: resiste, è dubbioso, nell’incertezza non vuole aprire il suo cuore a nessuno.
Ma quando Gesù entra per la seconda volta nel cenacolo e davanti a lui ripete: “Pace a voi!”, tutte le sue resistenze cadono. Si rende conto che Egli non inveisce, non rimprovera, non biasima nessuno: al contrario augura pace a tutti, a ciascuno, un saluto estremamente rassicurante: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare, ci sono io, non temere, non aver paura”. E questa volta, rivolto solo a lui, mostrandogli le ferite, dice “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani… non essere incredulo, ma credente!”. 
Perché in questo incontro Gesù mette in evidenza le sue ferite? Di fronte allo scetticismo di Tommaso, non sarebbe stato più credibile, più perentorio, più scenografico dimostrare in maniera eclatante la sua potenza, la sua gloria, la sua divinità, la sua vittoria strepitosa sulla morte, piuttosto che abbassarsi a documentare la sua identità con le prove della passione, assecondando le pretestuose condizioni di un povero diffidente?
Per una ragione fondamentale: la fede cristiana, fin dal suo esordio, doveva avere come riferimento non un Dio inavvicinabile, scontroso, incomunicabile, isolato nella sua gloria, nella potenza della sua maestosità, ma un Dio umile, rivestito di “umanità”, morto crocifisso; che per redimere l’uomo, per restituirgli la dignità perduta, ha “svuotato sé stesso”, ha rinunciato cioè alla sua divinità, assumendo la natura umana con tutti i limiti e le sue debolezze; che per amore ha accettato il patibolo della croce, sopportandone “fino alla fine” le estreme e strazianti sofferenze.
È questo il motivo per cui Gesù si presenta agli uomini senza alcuna ostentazione di potenza, senza i fasti della sua maestosità, senza i trofei delle sue vittorie, ma esibendo umilmente, amorevolmente, le sue piaghe, le sue mani forate dai chiodi, il suo cuore trafitto dalla lancia. Egli si presenta con i segni della sua passione, per rassicurare, per confortare, per accogliere e alleviare il dolore umano, per incontrare, da pari, l’umanità sofferente: Egli, alle piaghe inflittegli dalla malvagità umana, contrappone l’amore premuroso di un Padre che vuole eliminare dai suoi figli ciò che è male, che è doloroso, che impedisce loro di vivere, di crescere, di camminare spediti e liberi al suo seguito.
Chiunque ha avuto personalmente la fortuna di incontrarlo sulla propria “via dolorosa”, non può che riconoscere questa verità: “È vero, mio Dio, avevo veramente bisogno di te: al tuo sguardo le mie ferite sanguinanti sono completamente scomparse. Il tuo amore mi ha ridato vita: l’unico mio rammarico è di non averti incontrato prima!”.
Purtroppo tanti, troppi cristiani continuano a tenere Dio fuori dalla loro porta, preferendo vivere scioccamente da invalidi, con le loro ferite doloranti, le loro piaghe purulente. La loro è una vita non-vita, carica di angoscia, di rabbia, di dolore, di lacrime, di disperazione. Anche se all’esterno non traspare nulla, anche se dal di fuori tutto sembra assolutamente normale, nel loro intimo sono dominati dalla paura, dal sospetto, dalla solitudine. Non si fidano di Gesù, non vogliono ascoltare le sue parole, ignorano il suo invito, la sua amicizia, il suo aiuto: “Non temere, lo so che hai una paura folle, lo so che ti sei sbarrato in te stesso e non vuoi che io entri, ma fidati, fammi entrare nella tua paura, nei tuoi spazi ermeticamente chiusi; stai tranquillo, io vengo per offrirti soltanto amore e pace!”.
La nascita e lo sviluppo della nostra fede, come tutto ciò che ci riguarda, sono legati alle nostre personali esperienze. Il percorso che fanno gli altri, le prove che incontrano, non incidono sulla nostra crescita spirituale; sapere come gli altri abbiano incontrato la fede è sicuramente istruttivo, ma del tutto irrilevante per il nostro percorso: perché è fondamentale, essenziale, che siamo noi stessi, personalmente, ad incontrare Dio: un incontro che si rivelerà oltretutto coinvolgente, bruciante, decisivo, al punto da farci esclamare con Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio, ma ora i miei occhi ti vedono…” (Gb 42,4). Ecco: le esperienze altrui, le testimonianze, i santi, la fede degli altri, non bastano: incontrare Dio è una nostra esclusiva esperienza. Che poi, ad essere concreti, non è che ciò sia un’esperienza impossibile.
Quando alla domenica andiamo in chiesa per l’Eucaristia, non andiamo forse per incontrarlo? Non andiamo per alimentare la nostra relazione d'amore, per stare un po’ con Lui, per “vedere” il nostro Amore? Altrimenti che ci andiamo a fare!
Molte persone dicono: “Io a Messa ci vado solo quando ho tempo, quando ne ho voglia, quando non ho niente da fare”. Errore! Esprimersi così è sbagliato, da “ignoranti”: perché quando amiamo veramente qualcuno, la cosa più importante che desideriamo è di vederlo sempre, continuamente. Una relazione d’amore ha bisogno di vicinanza continua, di incontrarsi, di vedersi, di conoscersi: ha bisogno di intimità, altrimenti che amore è?
Tante altre persone, invece, ci vanno in chiesa: ma non ci stanno con il cuore, con l'anima; non cantano, non pregano, non ascoltano la Parola di Dio; non partecipano, non si lasciano coinvolgere; sono sordi, disinteressati, chiusi nella loro indifferenza: esserci o non esserci per loro è la stessa cosa. In questo modo però è impossibile qualunque intimità con Dio, qualunque incontro, qualunque relazione. È come andare a far visita ad una persona amata e non parlarle, stare ammutoliti, immusoniti, non interessarsi a lei. Che amore è? Che rapporto è?
Allora, ogni volta che ci raduniamo nel nostro “cenacolo”, nelle nostre chiese, consapevoli di essere degli innamorati fedifraghi, comportiamoci da peccatori pentiti: mostriamo al Signore le nostre “ferite”: inosservanze, incomprensioni, egoismi, liti, giudizi maligni, relazioni sbagliate; ferite doloranti da cui sentiamo il bisogno di guarire, di disintossicarci: mettiamoci umilmente ai piedi di Gesù, entriamo un istante in noi stessi, chiudiamo gli occhi e ascoltiamo la sua voce dolce e suadente: “Pace a te; non aver paura; ci sono io, sta’ tranquillo”.
Mostriamogli anche noi il “costato trafitto”, le ferite profonde del nostro cuore, del nostro io, della nostra dignità, del nostro onore, dell’essere rifiutati dagli altri, traditi, incompresi, umiliati, evitati. Sono sensazioni amare che corrodono la vita, ci destabilizzano, ci umiliano: l’aver fallito nella vita, nel matrimonio, nel lavoro, nell'educazione dei figli; l’aver umiliato, usato, ingannato il prossimo; l’essere superficiali, trasgressivi, incuranti di migliorare, di maturare spiritualmente. Offriamole, tutte queste nostre ferite, proprio perché dolorose, alla misericordia divina. E aspettiamo umilmente il balsamo delle parole di Gesù, cariche di amore, di comprensione, di condivisione: “Pace a te; ci sono io con te, non disperare; fatti coraggio, risorgi, fermati qui un momento a riposare con me. Io ti amo così come sei: posso guarirti, ma solo se anche tu lo vuoi; anche se ti senti debole, insicuro, tu puoi comunque seguirmi, perché non sei solo, saremo insieme, io e te, ad affrontare la strada: stabilisci tu la lunghezza del passo, io non ho fretta, ti aspetto, e se cadi ancora, ti prenderò in braccio. Ti amo e continuerò sempre ad amarti, in qualunque situazione, perché io ho bisogno del tuo amore!”.
Sono parole preziose, importanti, sono di Dio, sono quelle di cui abbiamo bisogno, quelle che ci ridanno pace, fiducia, amore, forza per rialzarci e ripartire rinvigoriti.
Ecco, questo è un nostro semplice, umile, “incontrare” Gesù: facciamolo ogni domenica; facciamo questa esperienza di risurrezione con Lui, col Risorto. Incontriamolo, assicuriamogli la nostra buona volontà, il nostro amore, la nostra riconoscenza: e diciamogli convintamente che senza di Lui, senza la sua vicinanza, senza il suo aiuto, senza il suo amore, è veramente impossibile vivere. Amen.