«Gesù si trovava in un luogo a
pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: Signore,
insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Ed
egli disse loro: Quando pregate, dite, Padre…» (Lc 11,1-13).
«Padre…». Un giorno un bambino chiede a
sua madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prende in braccio, lo stringe forte
al suo cuore e gli dice: “Cosa senti?”. “Sento che mi vuoi bene”. E la mamma:
“Ecco, questo è Dio!”. Ed è vero. Dio è nostro Padre e ci ama così. Se quando
ci rivolgiamo a Dio, non proviamo l’intima sensazione di un amore infinito e avvolgente,
un senso profondo di pace, di tranquillità, di sicurezza, di misericordia, di
perdono, di libertà, di accoglienza, vuol dire che ancora non conosciamo Dio;
vuol dire che non lo sentiamo ancora come “nostro” Padre; vuol dire che viviamo
ancora nell'ignoranza più totale di Dio.
«Sia santificato il tuo nome». Molte persone di fronte a
questa preghiera pensano subito alle bestemmie, al parlar male di Dio,
all'usare in malo modo il nome di Dio. Ma noi bestemmiamo (non santifichiamo)
Dio in maniera ancor più grave, quando viviamo al di sotto delle nostre
possibilità; bestemmiamo Dio, quando ci lasciamo vivere ai margini dell’amore;
quando ignoriamo Dio; quando - per paura, per ignoranza, per egoismo - smarriamo
la strada che ci conduce all’Amore; quando non sappiamo accorgerci della Sua
presenza amorosa al nostro fianco. Certe vite sono un’autentica bestemmia a Dio
perché sono aride, non si costruiscono, si lasciano andare; perché rinnegano
con la loro inesistenza la Vita, perché sono inutili, futili, superficiali,
banali. Allora possiamo anche confessare parolacce e bestemmie, ma dobbiamo soprattutto
chiedere perdono e convertirci, quando la nostra vita è rinnegamento della
grandezza, dell’entusiasmo, dell’amore, della meraviglia e dello stupore di
fronte al bello, che Dio ha immesso in noi; quando cioè la nostra vita è
completamente indifferente a questi valori. Ogni volta che viviamo al di sotto
della nostra grandezza e dignità di figli di Dio, noi non solo non lo “santifichiamo”
per averci creato “grandi”, a sua immagine e somiglianza; ma lo abbassiamo stupidamente
alla nostra visione gretta e ristretta della vita. Dio è infinitamente più
grande; Dio è oltre, Dio è un'esperienza personale che non finiremo mai di
scoprire, di capire, di conoscere, di sperimentare. Questo è il mistero di Dio:
di fronte a Lui non ci resta che inchinarci umilmente e fare silenzio, perché
Lui è Santo, Altro, Oltre...
«Venga il tuo regno»: si realizzi, accada, si
compia in me ciò che tu vuoi. Il regno di Dio è la possibilità che abbiamo di
instaurare in noi la viva presenza di Dio. Noi possiamo trasformare questa
possibilità in realtà: sta a noi fare in modo che ciò si attualizzi, si realizzi,
accada; che cioè Lui sia in noi, sia evidente a tutti; che tutti lo possano
vedere nella nostra vita, attraverso le nostre scelte, le nostre azioni, i nostri
impegni sociali, i nostri progetti. Altrimenti, pur essendo una possibilità
reale, vicina, alla nostra portata, il regno di Dio continuerà a rimanere per
noi un bel progetto, un sogno vagheggiato, una realtà incompiuta, accantonata. Quando
ci impegneremo veramente perché la nostra vita diventi autentica, vera, allora il
regno accadrà in noi; quando il nostro amore diventerà meno possessivo e
condizionante, quando diventeremo più aperti e meno giudicanti, allora il regno
si realizzerà in noi; quando lotteremo per l'ingiustizia nel nostro ambiente di
lavoro, nella società, nella famiglia, quando alzeremo la voce di fronte alle
ipocrisie, quando con il nostro silenzio e la nostra indifferenza non permetteremo
agli altri di umiliarci e di umiliare i nostri sentimenti, la nostra fede, i
nostri principi, allora il regno si realizzerà in noi; quando ci esporremo,
quando non indietreggeremo di fronte alle sfide, alle provocazioni, ai
conflitti, al male invadente, quando metteremo in gioco la nostra vita per la
solidarietà, la comunione fraterna, la verità, allora il regno accadrà in noi. Ecco:
ogni volta che preghiamo “venga il tuo
regno” noi chiediamo a Dio di renderci suoi “strumenti” attivi, in modo che
tutto ciò che Lui vuole per il mondo si realizzi attraverso di noi.
«Dacci ogni giorno il pane
quotidiano».
Come il cibo naturale ci fa vivere, ci nutre, ci irrobustisce, oppure ci
intossica, così tutte le cose di cui “ogni giorno ci nutriamo” ci fanno, ci costruiscono,
ci completano, ci formano, oppure ci “de-formano”. Così “mangiare” esperienze
positive, momenti di preghiera, stare con persone positive, vivere in ambienti
mentalmente aperti e affettivamente ricchi, perdonare, cambiare in meglio, andare
a messa ogni domenica, partecipare a liturgie ricche di vita, piene di Dio, tutto
questo è il “cibo” che, giorno dopo giorno, ci costruisce e ci forma, ci
alimenta, delinea la nostra fisionomia. “Mangiare” esperienze negative,
rimanere in ambienti di chiusura totale, di scelte meschine e ignoranti, di
odio, di rancore, di soffocamento; non perdonare, vivere stressati, non darsi
occasioni di silenzio, di pace, di gioco, d'amore; essere sempre rigidi,
controllati e prevenuti; vivere maledicendo la vita, sono le cose che ci “costruiscono”
negativi, che ci “de-formano”, che progressivamente ci distruggono. Non è la
singola domenica che ci fa cristiani ma domenica dopo domenica, un giorno dopo l’altro.
Se continuiamo a privarci dell’unico cibo che ci da sostanza, del cibo vero che
è Dio e tutto ciò che lo riguarda (il canto, la comunità in preghiera, il
vangelo, il clima fraterno, la partecipazione al banchetto eucaristico, il
coinvolgimento) rinsecchiamo, diventiamo sterili e vuoti. Noi diventiamo ciò
che facciamo. Noi diventiamo ciò che mangiamo, ciò di cui ci nutriamo;
diventiamo le persone e gli ambienti che frequentiamo; diventiamo le cose che
facciamo, le esperienze che scegliamo. Tutti siamo condizionabili, tutti sono
condizionati; ma sta a noi decidere da chi e da che cosa farci condizionare.
Tutti devono mangiare, tutti mangiano, ma sta solo a noi decidere cosa
mangiare. Sta a noi decidere da cosa farci nutrire. Per cui una grande e
responsabile scelta, nella nostra vita, è quella di “conservare” coscientemente
il “cibo” che ci fa bene, che ci costruisce, che ci da forza; ed eliminare
quello “guasto”, quello che ci fa star male. Se un cibo ci fa male - è ovvio – noi
non lo mangiamo: eppure ogni giorno continuiamo incoscientemente a cibarci di
robaccia, di cibi avariati, di cibi vecchi, scaduti, malsani. Attenzione:
perché noi, come ho detto, diventeremo esattamente quello di cui ci nutriamo
ogni giorno: teniamolo a mente e non incolpiamo nessuno della nostra situazione.
«Perdonaci i nostri peccati,
perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore». Il perdono deve essere il nostro
pane quotidiano (perdono e pane in ebraico hanno le stesse consonanti);
ciò di cui ogni giorno dobbiamo nutrirci, alimentarci, perché le nostre energie
siano libere e vitali e non incatenate nel risentimento e nell'odio. Pertanto ogni
giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri
sentimenti di odio e tutto ciò che ferisce noi e gli altri. Ogni giorno dobbiamo
alzarci sapendo che il pane sostanzioso, quello che ci nutre per tutta la
giornata, sarà il perdono. Dobbiamo perdonare prima di tutto noi stessi per gli
errori che abbiamo fatto, anche per quelli inconsapevoli; dobbiamo perdonare le
persone che ci fanno del male, che esprimono giudizi sommari e falsi sul nostro
comportamento, sul nostro modo di fare, su come parliamo, su come viviamo; le
persone che parlano a vanvera, che non sanno ma calunniano, che malignano su
tutto. Più che reagire, non sappiamo mai dove una reazione vada a parare, dobbiamo
perdonare.
Il
verbo “perdonare” in ebraico significa letteralmente “ricoprire una ferita”. Ecco,
ogni giorno noi dobbiamo ricoprire le ferite nostre e dei nostri fratelli: è
così che vivremo serenamente. Il perdono è il “vestito” che dobbiamo indossare
tutti i giorni per andare nel mondo; il perdono è la nostra unica possibilità
di essere spiritualmente fecondi, propositivi, utili; di essere in una parola
“generatori” di felicità.
Questa
in sintesi è la preghiera che Gesù ci insegna nel Vangelo di oggi. In che modo poi,
e con quali disposizioni dobbiamo pregare, ce lo chiarisce subito dopo, per
mezzo di due parabole.
La
prima ci racconta di un uomo che, nel bel mezzo della notte, riceve la visita inaspettata
di un ospite. Ovviamente, colto di sorpresa, il poveruomo non ha nulla da offrirgli:
cosa molto imbarazzante per un orientale che considera l'ospitalità un onore,
un bene preziosissimo. Si affretta allora, e va a sua volta a bussare dal
vicino, già a letto anche lui: e lo fa pur sapendo di procurargli un grande fastidio:
deve infatti alzarsi, aprirgli la porta già sprangata, rischiando che il
trambusto procurato svegli anche tutti quelli che già dormono. Nonostante tutto
però, egli non rinuncia, lo importuna comunque, perché in questo suo amico
ripone una piena e incondizionata fiducia. Ecco: Gesù ci invita a rivolgerci a
Dio proprio così, come ad un vero amico, anche in modo inopportuno, anche in
modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, sempre, in qualunque momento; possiamo
raccontargli tutto; a Dio possiamo aprirci e mostrarci nella nostra totale miseria,
possiamo far vedere come siamo, cosa pensiamo; tutto, completamente tutto: anche
ciò che è brutto, ciò che è indecoroso, ciò che è meschino, vergognoso; anche i
nostri pensieri più intimi, più nascosti, più cattivi, più ripugnanti, più
aggressivi. Egli, come un vero amico consolatore, ci ascolterà, ci accoglierà. Non
dobbiamo avere timori o riguardi: nella nostra preghiera a Dio, c'è spazio per
tutto.
La
seconda parabola ci spiega poi cosa significa avere Dio per padre. Ogni padre conosce
(dovrebbe!) cosa è il meglio per i propri figli. Nessun padre, al figlio che
chiede, gli darà mai una pietra al posto del pane, un serpente al posto di un pesce,
uno scorpione al posto di un uovo: è ovvio, è naturale. Allo stesso modo Dio,
che è nostro Padre, non ci darà mai nulla che possa farci male, nulla che possa
nuocerci. Questo è molto importante da capire: perché essere convinti di questo,
vuol dire entrare nella giusta “valutazione” della nostra vita; vuol dire
capire e accettare che tutto ciò che ci succede ha un senso, un suo significato,
un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo; o non lo vediamo; o addirittura
lo rifiutiamo perché lo consideriamo un male. Al contrario in tutto ciò che ci
succede, Dio ci parla, ci insegna, ci ammaestra: vuol farci entrare nella sua “logica
divina”. Quando chiediamo, Lui risponde sempre alle nostre domande: anche se lo
fa in maniera diversa da come noi vorremmo. Quando lo cerchiamo, Lui c’è; è
sempre pronto a farsi trovare, anche se spesso non ci accorgiamo di lui. Quando
bussiamo, Lui ci spalanca immediatamente porte e strade, anche se non sempre coincidono
con quelle che vogliamo noi. Una cosa ci deve sempre confortare e rassicurare: che
Lui non ci farà mai del male, non ci ferirà mai: anche quando non lo capiamo, noi
dobbiamo fidarci ciecamente di Lui; perché noi, in realtà, non sappiamo nulla, non
vediamo oltre il nostro io, non sappiamo cosa sia veramente buono per noi, soprattutto
non sappiamo cosa ci riserverà il nostro domani: sarà un domani radioso? Oppure
sarà un domani irto di prove e di contrarietà? Abbandoniamoci allora a lui, e lasciamo
fare a Lui, a Dio. Un mio amico monaco era solito ripetere: “Io so che Dio mi è
padre... questo mi basta”. Amen.
«Gesù entrò in un villaggio e
una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la
quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era
distolta per i molti servizi» (Lc 10,38-42).
Continuando
il suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ad un certo punto decide di fermarsi a
casa di due donne sue amiche: Marta e Maria (sorelle di Lazzaro). Per noi si
tratta di un normalissimo gesto di cortesia e di amicizia; ma così non era ai
tempi di Gesù, che in questo modo ha infranto ancora una volta usanze, schemi e
convenienze dell’epoca. Poco male: Gesù aveva già dimostrato di infischiarsene
altamente di tutte quelle regole assurde, di quelle stupide prescrizioni legali
e non, da tutti tenute in grande considerazione.
Il suo
è un atto “sovversivo”, un atto provocatorio, col quale intende rovesciare una
mentalità, un modo di pensare e di agire, assolutamente inutile e mortificante.
Gesù non è stato l'uomo di pace che intendiamo noi: noi siamo cresciuti con
l'immagine di un Gesù “buono e dolce”, di uno che non litiga mai, che appiana
ogni contrasto, che non entra mai in alcun conflitto. Ma il vangelo ci dimostra
che non era così. Gesù era un punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo
che volutamente rompeva con la falsità dell’epoca. Non dobbiamo mai dimenticare
che non è stato ucciso perché il suo messaggio non era “buono”, ma perché era un
messaggio “nuovo”.
Storicamente
dunque le cose devono essere andate così: Gesù arriva nel villaggio di Betania:
è molto stanco, nel corpo e nello spirito, e decide quindi di fermarsi a casa delle
due donne.
A
questo punto Marta, colta di sorpresa, si agita e si preoccupa subito per preparargli
da mangiare, per accoglierlo, per mettere in ordine la casa, in modo che tutto sia
in ordine, all’altezza dell’ospite. La sua è pertanto un’accoglienza pratica,
“esteriore”.
Maria,
invece, accoglie Gesù interiormente, lo accoglie spiritualmente: lo ascolta,
ascolta il suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure. Un
comportamento diverso, quello delle due sorelle: materiale, attivo quello di
Marta, spirituale, contemplativo quello di Maria. E Gesù è proprio da questi due
diversi comportamenti nei suoi confronti, che trae lo spunto per il suo
insegnamento.
Marta
non è cattiva; anzi, al contrario, è lei che accoglie Gesù e gli offre una
ospitalità confortevole. Anche Lei, come la sorella, vuol veramente bene a
Gesù: il vangelo dice che lo accoglie “nella sua casa”; vale a dire che anche
Lei lo accoglie nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua
parte più intima e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia? Perché è
lei che decide, di sua iniziativa, ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel
momento. Nella sua semplicità ha pensato di anteporre i bisogni pratici, le
necessità materiali dell’ospite, piuttosto che intrattenerlo con i saluti, con
i convenevoli, con lo scambio di effusioni e di confidenze. Ha pensato che
fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc.;
tutte cose indispensabili, ma che non devono essere anteposte alla gioia di
stare un po’ con l’amico; cose che oltretutto vanno fatte con discrezione, con
naturalezza, senza farle pesare all’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo.
Gesù infatti, quando arriva in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno?
Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno invece di essere
accolto, abbracciato, rassicurato, ascoltato. Ha bisogno di parlare, di
confidarsi.
Marta questo
non l’ha capito. E rimprovera addirittura la sorella perché non le da una mano.
Marta purtroppo è una di quelle persone, tanto comuni anche oggi, che sono
sempre in movimento, che risolvono tutto loro, che si distruggono nel lavoro: ora,
di fronte ad una così, che si disfa letteralmente nei lavori di casa, che lavora
per noi, che ci prepara da mangiare, che lava e stira, che ci fa trovare tutto
in ordine, come facciamo a chiederle ancora qualcos’altro per noi? Quante volte
infatti abbiamo sentito da queste persone lamentele del tipo: “Che volete ancora
di più? Ho dato tutta la mia vita per voi! Ci ho rimesso la salute! Ho vissuto solo
per voi! Ho lavorato anche sedici ore al giorno per farvi stare comodi!”. Hanno
sicuramente ragione, ma sono persone che così dicendo vogliono soprattutto farci
sentire in colpa, vogliono farci pesare tutto quello che fanno per noi. È un
modo inconscio per eludere qualunque tipo di colloquio, per non farsi
coinvolgere su un livello più confidenziale, più intimo, più personale: “Mi
pare di aver fatto abbastanza per voi: non chiedetemi altro, non chiedetemi anche
di accogliervi, di farvi le moine, di ascoltarvi, di esaudire i vostri capricci”.
Marta quindi
si sentiva al sicuro, era certa di essere nel giusto: “Mi sto distruggendo per
te, caro Gesù; sono io che provvedo a te, non ho tempo per le chiacchiere di
mia sorella!”. È vero: Marta fa tanto, ma non fa quello che realmente serve a
Gesù. Anzi, a ben vedere, è lei e non Gesù, che ha un grande bisogno di essere
riconosciuta, accettata, coccolata. Ma questo suo bisogno non le è chiaro, non
lo conosce abbastanza, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse
contro la sorella e Gesù. È risentita Marta; il suo cuore ribolle dalla rabbia
per come stanno andando le cose; vorrebbe che Gesù le dicesse: “Ma che brava
che sei! Che cena squisita! Che bella casa! Quanto hai fatto per me: grazie di
cuore!”. Ma non succede…
Quante
volte capita anche a noi di non essere chiari con noi stessi e con il prossimo!.
Quante volte diciamo una cosa e ne pensiamo un’altra; vorremmo una cosa, ma non
abbiamo il coraggio di chiederla apertamente. Così, per esempio, quando diciamo:
“Non mi telefoni mai!”, in realtà vorremmo dire: “Avrei piacere di sentirti;
avrei piacere di parlare con te, vorrei che fossi tu a cercarmi qualche volta!”.
Invece di dire: “Non sei mai a casa!”, vorremmo essere più chiari e dire: “Vorrei
che tu ed io stessimo più insieme! Ho bisogno del tuo aiuto. Ho bisogno che tu
ti sieda qui, che mi ascolti, che mi dia un po’ del tuo tempo. Ho bisogno di
te; ho bisogno che tu stia con me; ho bisogno di sentire il tuo amore; ho
bisogno di sentirmi dire che valgo, che sono importante per te”. È chiaro che
troppo spesso ci comportiamo così per paura: perché essere più chiari, più
espliciti, ci farebbe sentire anche più deboli, più vulnerabili. E allora
facciamo come Marta: accusiamo. Spesso è infatti più facile accusare che
manifestare i nostri sentimenti, i nostri bisogni interiori, le nostre
aspirazioni; è molto più semplice attaccare, colpire gli altri, che mostrarci noi
vulnerabili e bisognosi.
Marta
non ha dubbi: Gesù in casa sua deve trovarsi sicuramente bene: è lei che gli ha
messo a disposizione il massimo confort possibile, per cui si aspetta di
sentirsi almeno dire: “Che brava donna!”. Ma questo, cara Marta, è il tuo di
bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto di tua iniziativa. Perché
non hai chiesto invece a Gesù cosa gli avrebbe fatto piacere? Era così
semplice! Invece no, ti sei indaffarata come una matta per fare di testa tua,
per poi offenderti, sentirti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti offesa, trascurata,
perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma
tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore.
Ecco
perché, fratelli, dobbiamo imparare a riconoscere i nostri bisogni; a
riconoscere sempre le nostre aspettative, ad esprimerle, senza proiettarle
sugli altri, pretendere che siano gli altri a capirle, irritandoci se ciò non succede.
È evidente che Marta e Maria non si parlano, non si dicono nulla. Perché Marta
non è diretta, esplicita, con sua sorella? Perché non le chiede apertamente di
darle una mano? Perché invece mugugna sotto sotto? Perché cerca di portare Gesù
dalla sua parte contro di lei?
Quante
persone sono incapaci di affrontare le persone con le quali hanno dei malintesi!
Vanno dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con
gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo
da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un
altro non serve a nulla, se non a farci compatire. Così la moglie si sfoga con
le amiche di quanto il marito sia insensibile, chiuso, egoista, uno che pensa
solo a quello. E il marito dal canto suo si sfoga con gli amici su quanto lei sia
paranoica, una che pensa sempre e solo all'ordine in casa, una a cui non si può
mai dire niente. Parliamone tra noi, invece! Diciamoci ciò che non va! Cercare consensi
dagli altri significa volersi sentir dire che siamo noi dalla parte del giusto,
della ragione; che è l'altro ad avere torto. Bella soddisfazione: non è certo
questo che ci risolve la questione.
Maria,
al contrario di Marta, coglie subito il bisogno di Gesù e lo ascolta. Non è lei
che decide ciò di cui Egli ha bisogno. Quando arriva, non dice una sola parola,
lo ascolta semplicemente, si fa vuoto, spazio, perché Gesù entri e si senta
pienamente accolto.
Quando
dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci a priori: “Che gli dirò?
Riuscirò a sostenere un discorso? E se mi chiede qualcosa cui non so
rispondere? Riuscirò a capirlo? Sarò efficace?”. Impariamo ad ascoltare. Il
resto viene da sé. Non pretendiamo di cambiare le persone secondo i nostri
gusti.
Facciamo
come Maria: creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego
onnipresente, creiamo spazio perché possano entrare, portare se stessi, mostrarsi
per quello che sono. Offriamo loro quella stessa ospitalità che tutti noi vorremmo
ricevere.
Il
vangelo dice che Maria stava ai piedi di Gesù. Stare a contatto con i piedi,
con la terra (humus), indica prima di tutto un atteggiamento di umiltà
(humilitas). Ed è così, come Maria, che dobbiamo accogliere i nostri fratelli;
dobbiamo far capire che siamo lì completamente per loro. Essi lo sentono, lo
percepiscono: e in quel nostro spazio d'amore essi potranno esprimere le loro
paure, le loro angosce, le loro aspettative, i loro bisogni, i loro amori, le loro
contraddizioni, le loro ambiguità, i loro lati d'ombra, i loro sogni
impossibili; lì avranno uno spazio dove piangere e dove ridere; uno spazio dove
disperarsi ed essere abbracciati; uno spazio dove sentirsi al sicuro, protetti,
dove rifugiarsi. Perché incontrare noi, per loro, deve essere come per Gesù incontrare
Maria: incontrare cioè l'amore vero, l’amore autentico.
Invece
di costruire case e palazzi, costruiamo invece “amore”, e tutto il mondo diventerà sicuramente
migliore. Perché soprattutto di amore noi abbiamo bisogno. Poi verrà anche Marta,
con il lavoro, la casa, il cibo, le cose da fare, i problemi, le pulizie, il riordinare
e quant'altro. Ma prima di tutto c’è la carità, l’amore, c’è Maria: questa è
l'unica cosa di cui il mondo ha veramente bisogno. Questo è l'essenziale, è ciò
che non può esserci tolto; altrimenti soffriremo e moriremo tutti dentro,
accartocciati nella nostra aridità. Amen.
«Maestro, che cosa devo fare
per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25-37).
È la
domanda classica del cristiano quella che il dottore della legge rivolge a Gesù.
Una domanda che tutti, prima o poi ci poniamo: ma è anche una domanda
tendenziosa, provocatoria: “Che cosa devo fare per andare in Paradiso? Come
devo comportarmi per essere un buon cristiano? Io so già cosa mi dicono le
regole, ma tu, Gesù, tu cosa mi dici?”. È chiaro che si tratta di una domanda
comunque inutile, perché tutti sappiamo perfettamente come dobbiamo comportarci,
cosa dobbiamo fare, cosa evitare.
Certo,
in questi ultimi anni le cose sono molto cambiate: da un comportamento
cristiano rigido e severo, regolamentato da norme e prescrizioni, si è arrivati
ad un lassismo preoccupante: tutto è permesso, tutto lecito; è l’individuo stesso
che determina la moralità dei suoi atti. Tanto, ci troviamo di fronte ad un Dio
“super” misericordioso: la sua bontà infinita, il suo amore smisurato, la sua compassione
senza limiti, hanno avuto decisamente la meglio sulla sua severità di giusto giudice.
Entrambe le posizioni sono ovviamente sproporzionate. La virtù come al solito sta
nel mezzo. Ed è questo che Gesù intende dirci tra le righe.
Non so
se ricorderete, ma una volta le persone arrivavano addirittura a trasferire su
Dio lo stesso ruolo inquisitore e vessatorio, tipico di gran parte dei “genitori”
e dei preti vecchio stampo: si era in regola, si andava bene solo se il “Grande
Genitore” (Dio) era contento di noi. Per questo abbiamo obbedito, ci siamo
piegati a regole che oggi definiremmo assurde, abbiamo (forse?) svenduto la nostra
“gioia” di vivere spensieratamente, pur di “essere in regola” con Dio. Insomma
i tempi avevano contribuito a trasformare Dio in un “Grande Fratello”, la trasmissione
voyeuristica che tutti abbiamo criticato: quel Dio (che decisamente non è il
Dio del vangelo) era un po’ “guardone”, uno che spiava sempre tutti, vedeva e
sentiva ogni cosa; sapeva quindi perfettamente quando uno sbagliava, perché tutto
era registrato chiaramente sul suo “monitor”. Una visione angosciosa che
terrorizzava la gente di allora: aveva paura di sbagliare, di non essere in
regola, di far peccato, di essere esclusa, di non essere ammessa in paradiso,
insomma di non andare bene, di essere sbagliata. Lo scopo primo della vita non
era pertanto quello di “vivere”, non era amare, non era entrare nelle relazioni
interpersonali con la forza piena dei sentimenti, con tutta l'intensità
possibile dell’amore, con tutte le vibrazioni possibili del cuore. No, lo scopo
primario della vita era “la regola”. Per questo nessuno cercava veramente Dio,
nessuno cercava di vivere serenamente la “propria” vita. Ciò che contava era vivere
“in regola”, da “bravi cristiani”. Pensare diversamente, scostarsi appena dalle
“regole”, significava essere decisamente dei cattivi cristiani.
Bene: colui
che si rivolge tendenziosamente a Gesù è intriso di questa mentalità, è un “esperto
in regole”: «Cosa devo fare per ereditare
la vita eterna?». Ma Gesù, sapientemente, elude il tranello, e gli rivolge
una contro domanda (nasce quasi una sfida tra i due!). «Che cosa sta scritto nella Legge?». Come a dire: “Ma come? Proprio
tu che sei un esperto della legge chiedi a me una cosa del genere? Dovrei
essere io a chiederlo a te!”. E in questo modo Gesù lo smaschera: “Visto che tu
conosci perfettamente le leggi fondamentali dell’amore verso Dio e il prossimo,
osservale e basta!”. Ma il dottore della legge non demorde: dopo la brutta
figura, cerca di “rimettersi in piedi”. E gli fa un'altra domanda: «Chi è il mio prossimo?». È chiaro che questo
tizio non arriverà mai a capire la nuova mentalità di Gesù: viaggia su un
livello diverso, è sintonizzato su una stazione diversa. È limitato,
impastoiato nelle sue prescrizioni. Con Gesù non ci sono limiti all’amore: non esiste
più il “fino a dove”, il “fino a quando”. Se uno ha un cuore, deve seguirlo
pienamente. Chi ama non fa distinzioni su chi ha davanti: chi ama segue solo il
proprio cuore. Chi pone delle differenze, dei distinguo - “tu sì” e “tu no” - è
ancora “fuori”, è condizionato dall'esterno, da regole esteriori, umane, spesso
di convenienza.
Il
dottore della legge non può capire. Perciò Gesù gli propone la parabola: «un uomo scende da Gerusalemme a Gerico...».
Gerusalemme distava ventisette chilometri da Gerico, con un dislivello di mille
metri. Era una strada conosciuta soprattutto per la sua pericolosità, piena di
agguati, rapine e imboscate. Beh, a tutti nella vita capiterà, prima o poi, qualche
imboscata. Tutti avremo a che fare con dei predoni e dei briganti: qualcuno ci
bastonerà, qualcuno ci spoglierà, qualcuno ci lascerà mezzi morti. Ora, il punto
non sta tanto sul “come evitare i briganti”, visto che l'unica soluzione è quella
di starsene sempre rintanati “in casa”, chiusi nel nostro io, rinunciando a
vivere; il punto sta piuttosto su come programmare la nostra vita: cioè se “vivere
o non vivere”; se rimanere a “Gerusalemme” (all’ombra delle sacrestie, delle
parrocchie) o provare ad uscire, andare incontro agli altri, a quelli che sono
più bisognosi, più feriti, più bastonati di noi.
D’altronde
Gesù nella parabola è chiaro: se qualcuno non interviene immediatamente, quell'uomo
muore. E chi l'ha ucciso? I briganti? Solo loro? O non l'hanno ucciso anche coloro
che, potendo fare qualcosa, non l'hanno fatto? Eppure quante persone si
giustificano con la famosa frase: “Io non ho fatto nulla di male!”. Già, ma in
certe situazioni, non fare nulla, non intervenire, vuol dire condannare.
Nel
racconto di Gesù emergono dunque tre personaggi diversi, ognuno soffocato dal proprio
ruolo specifico; compaiono tutti “per caso”, come del resto tutto (o forse
niente?) avviene per caso nella vita: si tratta prima di tutto di un sacerdote,
un addetto al culto e quindi di uno che viveva ad un livello superiore, un
livello cui non competeva “istituzionalmente” il doversi preoccupare di un
“ferito”, di un “moribondo”. Poi un levita, un sacrista diremmo oggi, anche lui
un uomo di chiesa: e anche lui convinto di essere al di sopra, estraneo alla
situazione. È sintomatico: quando non vogliamo fare qualcosa, tutti abbiamo
sempre una scusa pronta: il problema di questi due “ecclesiastici” è che sono così
presi dal loro “status”, da non accorgersi che la loro anima, il loro cuore, ne
sono rimasti soffocati: “Sei un sacerdote, non spetta a te fare queste cose!”, il
ruolo dice al primo. “Sei un levita, uno che è vicino alle cose di Dio; devi
comportarti in maniera adeguata”, dice al secondo.
C’è anche
un terzo personaggio, più defilato, ma non per questo meno arroccato nel
proprio ruolo: l'albergatore:. Quando il samaritano gli consegna il pover’uomo,
mezzo morto, si guarda bene dal dirgli: “Ma sì, non ti preoccupare per i soldi!
In una situazione del genere non se ne parla neppure: vai tranquillo, tu hai
fatto già fin troppo; ora mi prendo io cura di quest'uomo e non voglio
assolutamente nient’altro da te”. Nossignori, quando arriva, lui se ne sta
zitto e incassa tutto: incassa i due denari e, fiutato l'affare, gliene
chiederà di sicuro anche altri. Anche lui è vittima del suo ruolo distruttivo: “Io
non guardo nessuno in faccia, mi faccio gli affari miei”. Il suo ruolo gli
impedisce di provare amore, compassione, di sentire la vita.
È
così, dunque: anche nella nostra esistenza il ruolo può uccidere il nostro cuore,
può distruggere la nostra anima, la nostra vita. Quando noi ci identifichiamo
in un unico ruolo, costringiamo la nostra sensibilità su di un solo canale. È
come mangiare solo dolci tutto il giorno. Sì, buoni, ma a lungo andare ci producono
repulsione. Se non stiamo attenti il ruolo ci distacca da noi stessi, dal nostro
sentire, da ciò che abbiamo dentro; per cui di fronte ad una situazione improvvisa,
completamente diversa, non ascoltiamo il nostro cuore, ormai atrofizzato, e diamo
sempre la stessa risposta, preconfezionata, già fatta, già stabilita dal nostro
“ruolo”. Non siamo più noi che sentiamo e che agiamo, ma è lui, il nostro ruolo,
che agisce autonomamente e automaticamente.
Ebbene,
in questa parabola – ed è il più importante - c'è anche un uomo libero, un uomo
non imprigionato dal suo ruolo: il samaritano. È lui che ci viene proposto come
esempio da seguire. Il samaritano non ha maschere o ruoli da difendere: in lui,
nel suo cuore, la vita circola libera e vibrante. Sono in tre che passano per la stessa strada (sacerdote,
levita e samaritano); tutti e tre vedono l'uomo. Ma solo del samaritano il
testo dice qualcosa che non dice degli altri due: che ne “ebbe compassione”. Tutto
ciò che fa dopo, è solo la conseguenza di questo suo sentimento.
Compassione:
in greco, con la stessa radice, si indica “l'utero materno”: è quell'emozione
che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare: è l’amore di una madre
per il proprio figlio. Come poteva allora il samaritano tirare dritto? Come
poteva far finta di niente? Il sacerdote e il levita si sono appellati alle
loro regole: la “regola” giustificava il loro comportamento. Sì, ma il loro
cuore? La verità è che “non lo sentivano” più. Non “sentire” il cuore, significa
essere “insensibili” all’amore, a tutto ciò che riguarda i nostri fratelli, il
nostro prossimo. Quando le persone dicono: “Io sono sensibile”, bisognerebbe
chiedere loro: “Sensibili come? a che cosa?”. Perché sentire suonare una cassa
di 500 watt di potenza, non è “essere sensibili”; significa non essere sordi
del tutto. Come la mettiamo sotto i 10 watt? Davanti a noi ci sono due tipi di
morte: quella del fisico e quella dell'anima. Con quella del fisico moriamo
dentro e fuori. Con quella dell'anima viviamo al di fuori, ma siamo morti
dentro. Facciamo in modo allora di “sentire” sempre; di essere sensibili in
ogni caso, per non correre il rischio di essere morti, prima ancora che arrivi la
nostra morte fisica. Amen.
«In quel tempo, il Signore
designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e
luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: La messe è abbondante, ma sono pochi
gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella
sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate
borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la
strada». (Lc 10,1-12.17-20).
Ci
troviamo dunque di fronte ad una impellente necessità: «La messe è molta, ma
gli operai sono pochi». Di fronte ad una “materialità” dilagante, di fronte ad
un progressivo allontanamento da Dio da parte del mondo, l’uomo ha bisogno sempre
più di nuovi inviati che gli offrano spiritualità, fiducia, amore. Nel nostro
immaginario, pensiamo spesso che – se avessimo tanti soldi, tanta ricchezza, tante
auto, tante possibilità, tanti amici - sicuramente staremmo bene; ci sentiremmo
completamente appagati, a posto di tutto.
Ma poi
ci accorgiamo che non è così, perché più abbiamo, più vorremmo avere. Più la
materialità, le cose caduche, effimere, ci assorbono, più cadiamo nello
sconforto; sentiamo il bisogno vitale di un altro tipo di ossigeno, di “spiritualità”,
di entrare in un rapporto interiore con Dio, poiché tutto quello che ci accaparriamo
in questo mondo, non influisce minimamente sulla nostra “anima”, non ci porta quella
linfa vitale, generatrice di autentica felicità e serenità. Siamo tutti “messe”
incolta, in attesa di essere curata, coltivata: una “messe” bisognosa
dell’intervento determinante di veri operatori di felicità.
La
cronaca nera ci riporta sempre più frequentemente di persone che, ricche e
fortunate, sterminano improvvisamente la loro famiglia, i loro cari, per poi uccidersi.
Avevano
tutto! Ma tutto ciò che avevano non li rendeva felici, non dava loro la voglia,
l’entusiasmo di vivere, di combattere per quella felicità vera e duratura, che
trascende le cose di quaggiù. Perché questa è una ricchezza che non si compra,
non è in vendita, non è di questo mondo: appartiene allo spirito, all’anima!
Guardiamoci
attorno: tutti si lamentano, tutti sono arrabbiati, tutti sono nervosi. Eppure oggi
economicamente stiamo molto meglio dei nostri nonni: c’è un maggior benessere, possiamo
permetterci vacanze, divertimenti, vestiti eleganti, ogni sorta di cibo e tanto
altro ancora. Se qualcuno ci chiedesse cosa ci manca, sinceramente non potremmo
che rispondere: “Niente”. Ma non è vero. Ci manca invece proprio quella voglia
di vivere che avevano i nostri nonni; ci manca il loro gusto del vivere, del
combattere; ci mancano le loro convinzioni profonde, la loro religiosità, i
loro ideali, nei quali trovavano veramente la forza per vivere e combattere.
Ecco
perché oggi in particolare, di fronte a tanta “messe” in sofferenza c'è tanto bisogno
di “operai”, di “uomini di Dio”, di preti “convinti”, che parlino al cuore
della gente, che indichino loro la strada che conduce a Dio; non servono “funzionari”,
“impiegati” della chiesa gerarchica, ma “inviati” innamorati della loro missione divina, fieri di
essere stati scelti da Lui, e completamente disponibili a fare la sua volontà. Non
possiamo avere tipi, magari culturalmente preparatissimi, ma in totale asfissia di
amore e di divino. Assomiglierebbero in qualche modo ad una dotta dichiarazione della Congregazione della
Fede o ad un articolo del Catechismo o del Codice: dottrinalmente perfetti, ma incapaci di riscaldare il
cuore, inadeguati a metterci in contatto diretto con l’amore del Signore, a
farci sentire che siamo i suoi “benvoluti”, quelli che per Lui hanno valore, quelli
importanti. Spesso finiamo per essere un “numero” anche per gli operatori di Dio,
per la Chiesa di Dio, oltre che per una società tritatutto come quella di oggi.
Eppure,
Dio vede la sua “messe” che langue, e manda continuamente nuovi operai: ma
questi operai, come si comportano?
I
settantadue del vangelo andavano, guarivano le malattie e annunciavano: “Il
regno è qui, in mezzo a voi; datevi da fare!”. Non andavano a dire: “Tu devi
fare così; tu sei in peccato, sbagli continuamente; il Signore di sicuro ti
punirà, perché non sei un bravo cristiano”. Dicevano invece: “Tu sei ammalato
nel cuore, ma se lo vuoi, puoi sicuramente guarire, perché il Signore ti ama e
ti aspetta nella sua casa”.
La gente
purtroppo è piena di malattie, ma non riesce a trovare dei validi “dottori” per
guarire. Forse anche perché continua a credere nell'onnipotenza del medico e
non si rende conto che la Vera Forza per guarire è dentro di lei, nel suo cuore.
Allora più che di cattedratici, ha bisogno di “medici” esperti di anima, capaci
di farle “riprendere conoscenza”, di infonderle fiducia, di iniettarle la consapevolezza
che Dio, la Forza vitale, è dentro di lei. “Medici” che la facciano pregare,
che tirino fuori il suo spirito, che la alimentino del pane celeste, dell’acqua
sorgiva che disseta.
Il
male che affligge l’umanità, la malattia che più la debilita, proviene
dall’anima, dallo spirito, dal suo interiore. Gran parte delle malattie
fisiche, provengono proprio dal fatto che è lo spirito ammalato, che è la
psiche che sta male. Ora, da dove viene la malattia, proviene sempre anche la
guarigione: il problema pertanto non è di trovare la pastiglia giusta, ma di guarire
il nostro spirito contaminato, di cambiare, di ritrovare ciò che abbiamo perso,
di riscoprire la sorgente vera della salute.
È in
questo modo infatti molti “mali” sparirebbero: l'odio, la collera, l'ira, la
paura, la vergogna, il senso di colpa che corrode…; che ce ne facciamo di
queste malattie che appestano l’anima? Ci va di guarire veramente? E allora,
fratelli, tiriamo fuori la grinta: il regno è qui, ora, diamoci da fare.
Gesù
prima di tutto dice: “Pregate”; ma subito dopo aggiunge: “Andate”: in altre
parole “Vai tu, muoviti!”. Invece noi normalmente ci fermiamo alla prima parola,
alla preghiera: “Fa' Signore che succeda qualcosa; manda qualcuno a guarirmi:
aspetto”. E sulla seconda, si tira indietro! Non vuole responsabilità.
Oggi in
giro si fa un gran parlare di “responsabilità”, che bisogna essere
responsabili, ecc. Ma responsabilità, da “respondeo”, comporta necessariamente
un “rispondere”. C'è la chiamata (“vocatus”, vocazione) e c'è la risposta
(responsabilità). Noi diventeremo grandi, adulti, quando alla chiamata della
vita risponderemo di sì: quando cioè assumeremo le nostre responsabilità. Altrimenti
rimarremo gli eterni bambini che delegano in tutto la mamma. L'adulto si fa
coinvolgere. Il nullafacente chiama sempre in causa gli altri.
Ci
lamentiamo perché la politica fa schifo? Rispondiamo noi in prima persona, facciamo
le nostre scelte con coscienza, secondo i nostri principi, la nostra fede. Ci
lamentiamo perché in parrocchia si potrebbe fare di più? Rispondiamo in prima
persona: “Eccoci”, siamo disponibili: siamo pronti a fare il messaggero,
l’animatore, il catechista, e perché no, anche a pulire per terra. Ci lamentiamo
perché le cose non vanno come dovrebbero? Andiamo avanti! Insomma noi, oltre
che criticare e lamentarci, cosa facciamo? Vogliamo un mondo migliore?
benissimo, diamoci da fare!
La
vita, Dio, ci interpella continuamente, ha bisogno di noi. Egli ci ha “chiamati”
all'esistenza, per consentirci di dargli una risposta. Appena ci ha visto, ci ha
detto: “Tu! Ho bisogno di te!”. E noi che facciamo? Continuiamo a trastullarci
con i nostri inconcludenti teoremi mentali? Dio non sa cosa farsene delle nostre
teorie, delle nostre preghiere, dei nostri omaggi, dei nostri “fioretti”. Egli vuole
noi. Punto. Ed è ovvio: un innamorato, una innamorata, non sa che farsene dei
regali, dei fiori, dei biglietti, delle telefonate, delle promesse, se poi non ottiene
l’amore. Dio è innamorato di noi, vuole il nostro amore, la nostra risposta.
Tutto il resto non conta!
Bene:
noi cosa “portiamo” in questa chiamata? Cosa diamo, cosa trasmettiamo, quando incontriamo
le persone, i fratelli, la messe? Alcuni si dicono soddisfatti: “Io sono sempre
pronto per gli altri; io do tanto”. Sì, è vero, ma cosa diamo? Non basta dare;
l’importante è “cosa” diamo; “cosa” trasmettiamo, quali sono i “messaggi” che portiamo!.
Sarebbe
interessante andare dalle persone che frequentiamo e chiedere loro: “Senti
dimmi la verità, quando stai con me, cosa ti passo?”. Mah!
Un
fiore non ha bisogno di “portare” profumo: ci inonda di fragranza perché lui è
così. Così siamo anche noi. Se nel nostro cuore abbiamo la pace, dovunque andremo
ne lasceremo il profumo. Se abbiamo guerra, lasceremo macerie.
I
settantadue inviati vanno, e tornano entusiasti: “È proprio così, Signore! Come
hai fatto tu così riusciamo a fare anche noi!”. È solo questione di fiducia in
Lui, nelle sue Parole: se solo ne abbiamo un briciolo, scopriamo
improvvisamente che quello che Lui ha fatto lo possiamo fare anche noi:
l’importante è credergli e avere la sua forza dentro di noi.
Gesù è
felice nel vedere lo stupore, la gioia, dei suoi discepoli; ma raddrizza subito
il tiro: “Non siate felici per il potere che avete, per quello che potete fare.
Non siete voi ma è la Forza che è in voi che compie tali prodigi. Siate invece
felici per aver fedelmente risposto alla chiamata: non importa se non riuscite
a fare miracoli, a guarire gli ammalati, a resuscitare i morti; quello che
importa è che per la vostra “risposta”, i vostri nomi sono già scritti in cielo”.
Gli
uomini, noi, passiamo tutti: tempo qualche anno e i nostri nomi saranno
completamente dimenticati. Più nessuno si ricorderà di noi. Così è per i nomi
scritti sulla terra, quaggiù; svaniscono nel nulla.
Ma i
nomi scritti nel cielo rimangono per sempre. “State tranquilli” ci dice Gesù: “voi
mi avete seguito, avete risposto alla mia chiamata: non sarete abbandonati;
state tranquilli, nessuna paura, voi siete protetti, salvati; voi siete nel
palmo della Mano di Dio. Nessuno da lì potrà mai rapirvi”. Ebbene: nel cuore di
Dio nessun nome passa, nessun nome viene dimenticato. Nel cuore di Dio vivremo
per sempre. Amen.