venerdì 27 maggio 2022

29 Maggio 2022 – Ascensione del Signore


Lc 24, 46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

Oggi la liturgia pone alla nostra attenzione gli ultimi momenti di Gesù su questa terra: dopo essersi accomiatato dai discepoli, li benedice, si distacca dalla terra e sale verso il cielo; sono questi i pochi particolari con cui Luca ci racconta, nell’ultima pagina del suo Vangelo, e nella prima degli Atti degli Apostoli, l’evento dell’ascensione.

Sono in tutto quattro versetti nei quali, in estrema sintesi, egli intende dirci: “Gesù è asceso al cielo: da questo momento egli non c'è più; ora al suo posto ci siete voi. Quindi voi, viri Galilaei, uomini di Galilea, e voi cristiani di oggi, voi chiesa, “quid statis aspicientes in coelum? Che state lì a fissare il cielo imbambolati? non continuate a guardare in alto con le mani in mano; datevi da fare! Lui non c'è più, va bene; ma ha lasciato voi a continuare la sua opera! Nei tre anni passati insieme, non si è certo risparmiato nell’insegnarvi cosa dovete fare”.

Ed è proprio così: Gesù ci ha lasciato, è tornato in cielo. Ma noi siamo qui, e qui c’è la sua Chiesa. Tocca ora a noi, a me, a voi, e non “agli altri”, trovare la giusta soluzione ai problemi della vita, come faceva Lui quando percorreva le strade della Palestina.

Non continuiamo a perder tempo chiedendoci per chi suona la campana: la campana suona per noi. Punto. È ora di muoverci. Soprattutto non dobbiamo aver alcun timore, perché non siamo soli: come già gli apostoli, anche noi abbiamo sempre Gesù nel cuore, dentro di noi.

Quando Luca dice che gli apostoli “stavano sempre nel tempio lodando Dio”, non intendeva dire che giorno e notte essi se ne stessero rintanati nel tempio: “stare nel tempio” vuol dire semplicemente “rimanere in contatto con Lui”, vuol dire desiderarlo, cercarlo, sentirlo, ascoltarlo, amarlo: e ciò ovunque siamo, dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo.

Anche Gesù ha passato l’intera sua vita terrena “rinchiuso” nel tempio, dall'inizio alla fine. Non perché anche lui fosse sempre lì. Ma perché era in continuo contatto con il Padre; lo sentiva, gli parlava. Del resto, per quanto ci riguarda, possiamo anche essere materialmente in chiesa, ma non per questo siamo nel “tempio” di Dio, in unione con Lui; come pure possiamo trovarci in qualunque angolo di questo mondo, e continuare ad essere in contatto con Lui, essere nel suo tempio. L’essenziale è rimanere sempre in stretto contatto con Lui.

Purtroppo gran parte della gente ha perso oggi qualunque collegamento con Dio, è “sconnessa”: è sempre di corsa, lavora, è occupata in mille faccende, in mille iniziative, fa sport, va in palestra, si diverte, ride, canta; fa di tutto, e non è mai in “casa”: è sempre altrove, non è mai veramente presente a sé stessa; è sempre lontana, distante. Perduta nel frastuono di una vita delirante, non sente, è sorda a qualunque richiamo del Dio della Vita. In una parola è completamente “scollegata” da Lui. Noi viviamo nell’illusione di onnipotenza, ci illudiamo di essere completamente autonomi, di poter fare tutto da soli: a noi, per il nostro vivere, Dio non serve.

Ma è qui che ci sbagliamo; nulla di ciò che ci riguarda accade per caso, lontano dallo sguardo amoroso del Padre. Egli non ci lascia mai soli: ci conosce troppo bene, conosce perfettamente i nostri limiti, le nostre indecisioni, i nostri dubbi, le nostre debolezze; conosce le nostre gioie, le nostre delusioni, le nostre lacrime, i sussulti del nostro cuore; conosce le fatiche, gli ostacoli che dobbiamo superare per continuare a procedere, zoppicando, per la sua strada; come pure conosce la gioia, lo slancio che proviamo dopo ogni scelta positiva; Lui sa... ma che Dio stupendo ci ha rivelato Gesù mentre era quaggiù! E che missione impegnativa ci ha affidato prima di salire al cielo! Sì, un incarico di grande responsabilità, perché ora tocca a noi mantenere presente, rivelare a tutto il mondo questo Volto sublime del Padre.

L'annuncio del Vangelo a tutte le genti, non si è concluso con la missione terrena di Gesù; non è un compito riservato esclusivamente alla sua persona: anzi lui stesso ha detto: “andate e predicate a tutte le genti…”. Quindi, ascoltando i suoi suggerimenti all’interno del nostro tempio, con lo sguardo rivolto a Lui in cielo, dobbiamo imparare a riprogettare questo mondo, dobbiamo impegnarci a modificarlo entro i parametri del suo originale progetto di vita e di amore.

Nello specifico noi, i nuovi discepoli di Gesù, non siamo chiamati a compiere azioni eccezionali, straordinarie, trascurando tutte le cose di quaggiù, per occuparci solo delle cose di lassù; dobbiamo al contrario vedere quelle di lassù continuando la vita di quaggiù, con i piedi ben piantati per terra. In altre parole dobbiamo sì guardare a Gesù in cielo, nella sua gloria, ma dobbiamo anche interessarci degli uomini, nostri fratelli, anch’essi figli di Dio, considerare l'umanità intera come un’unica famiglia, vedere nel domani di ogni persona non la morte, ma una vita gloriosa che durerà per sempre... È questo lo sguardo che l'ascensione del Signore ci sollecita a mantenere nella nostra vita quotidiana. Oggi, guariti dall'amore di Cristo, possiamo finalmente spalancare i nostri occhi alla luce dello Spirito, nonostante siano deboli, sensibili, fragili, bisognosi di tempo, per adattarsi all’intensità, allo splendore della sua luce.

Noi ora contempliamo Gesù vivere nella gloria del cielo: ma lo vediamo anche vivere misterioso qui su questa terra: egli infatti vive con la sua grazia nell'intimo di ogni cristiano; vive nel sacrificio eucaristico; vive nei tabernacoli del mondo, prolungando la sua presenza reale e redentrice; vive nella sua Parola che risuona nell'intimo delle coscienze; vive e si fa presente nei vescovi, nei sacerdoti, nei religiosi, chiamati nominativamente a rappresentarlo davanti agli uomini con le loro parole, con le loro opere, con la loro vita da consacrati.

È una presenza reale che ci conforta, ci consola, ci dà pace, ci motiva. Cristo è rimasto con ciascuno e con tutti noi. La sua è una presenza reale ed efficace, anche se invisibile e impalpabile. Una presenza da amico, da confidente, da padre amoroso e comprensivo, che ascolta i nostri segreti, le nostre intimità, le nostre piccole fragilità quotidiane, con lo stesso amore, con la stessa bontà e misericordia, delle nostre ribellioni interiori, dei nostri sfoghi d'ira, delle nostre lacrime di orgoglio, della nostra disperazione nel dolore e nella sofferenza...

Questa è la consolante realtà: Cristo è rimasto con noi, al nostro fianco. È rimasto con noi per salvarci, per aiutarci con il suo Spirito, a costruire dentro di noi l'uomo interiore, l'uomo nuovo, la sua “copia” vivente: perché noi siamo chiamati ad essere i "Gesù" di oggi: è questa la nostra missione: è questo il bello della nostra vita. Un compito che non deve essere un peso, ma un onore, una gioia unica: perché è la nostra possibilità di essere i “sosia” di Gesù Risorto, di poter portare il suo Volto in tutte le strade del mondo, al pari dei suoi primi dodici discepoli. Amen.

 

 

giovedì 19 maggio 2022

22 Maggio 2022 – VI Domenica di Pasqua


Gv 14,23-29

In quel tempo, Gesù disse: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

  

Gesù nella lunga catechesi tenuta ai discepoli durante l’ultima cena, dopo aver rivelato il tradimento da parte di Giuda, affronta il tema altrettanto spinoso della sua prossima partenza; cerca di preparare i discepoli a questo distacco, per loro sicuramente traumatico; vedendo il loro profondo turbamento, cerca di addolcire le sue parole: “Vi lascio la pace... Il vostro cuore non sia turbato, non abbia timore!”. È una preoccupazione paterna, la sua: cerca in qualche modo di rincuorarli, di infondere loro serenità, sicurezza: “Tranquilli, amici miei, voi ora siete addolorati, in ansia, ma vi assicuro che non sarete mai soli: dopo la separazione, la vostra sofferenza si tramuterà in una gioia indescrivibile, perché capirete che io sono ancora realmente con voi: sentirete la mia presenza in un modo completamente nuovo, la sentirete dentro di voi, e questo vi consolerà, vi darà forza”. Egli sa cosa significherà per loro affrontare da soli la paura, la delusione, la solitudine; per questo, nel consolarli, assicura la sua costante presenza in loro con il suo Spirito, che li seguirà, passo dopo passo, verso quelle nuove esperienze di vita.

Parole confortanti quelle di Gesù; parole di sicuro effetto; parole che i discepoli sentono dettate dal cuore: Gesù li ama, e l’amore vero trova sempre il modo per infondere forza, consolazione, nuovo vigore, nuovi propositi. Capita anche a noi, a volte, di dover consolare chi si trova in difficoltà, chi si trova a vivere momenti di smarrimento e di dolore; anche noi pronunciamo le nostre belle parole, ma ci accorgiamo che esse difficilmente raggiungono il cuore delle persone: scivolano via, non trasmettono una vera condivisione, non sono convincenti, rivelano una semplice cortesia: questo perché non apriamo veramente il nostro cuore, non ci immedesimiamo nello sconforto della persona; in questi casi, sarebbe preferibile stare in silenzio, senza parlare, senza dire nulla; sarebbe molto meglio far “sentire” semplicemente la nostra presenza, far capire che ci siamo, che comprendiamo, che condividiamo, che possono quindi contare su di noi. Consolare” infatti deriva dal latino “cum-solus”, significa cioè stare con chi è solo; affiancarsi a lui, silenziosamente, fraternamente, senza alcun invadente esibizionismo. L’importante è assicurargli la nostra presenza, la nostra sincera compartecipazione, una condivisione attenta, ma soprattutto discreta. Sappiamo che le difficoltà, le sofferenze, le delusioni, le separazioni, sono nella vita le nostre compagne di viaggio: nessuno può mai pensare di esserne esente. In tal caso però consolare non significa banalizzare l’accaduto, tanto meno appellarsi alla fatalità del destino, comportandoci come se non fosse successo nulla: consolare vuol dire soprattutto, e in ogni caso, dimostrare amore al fratello provato, aiutarlo a superare il suo particolare momento di debolezza, di smarrimento.

È infatti proprio così che si comporta qui Gesù con i discepoli: un Gesù che capisce, che consola, che ama: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Ecco: è la pace, la “sua” pace, che Egli dona: è lo stesso identico dono che Egli offrirà da risorto, nella sua prima apparizione nel cenacolo: perché la pace di Dio è serenità dell’anima, una serenità profonda, salda, irremovibile, che permette all’uomo di affrontare ogni sua paura: la paura del futuro, la paura delle malattie, della sofferenza, della morte, la paura di non essere amati. Un cuore in “pace” è un cuore saldo, forte, risoluto, che non si spaventa nelle avversità, non si dispera nel dolore, non si scoraggia nella fatica; un cuore in “pace”, riesce sempre a scoprire la presenza di Dio nella propria vita, riesce sempre a percepire la grandezza, la bellezza, l’amore del suo Signore: Lo incontra con gioia, perché si sente riconosciuto, si sente amato, si sente una cosa preziosa per Lui; un cuore in “pace”, capisce tutto questo, e con grande fiducia può esclamare: “io ti amo, o mio Dio, Tu mi ami: con Te, posso cambiare il mondo!”.

“Se uno mi ama osserverà la mia parola”. Che vuol dire qui Gesù con “osservare”? Il verbo greco “terèo” significa “custodire, guardare, aver cura, conservare, stare in guardia”; e quindi: “se uno mi ama, conserverà, custodirà la mia parola”; ne avrà cura, la guarderà attentamente; si comporta cioè come un pastore innamorato delle sue pecore: le ama perché rappresentano la sua unica ricchezza, le guarda, non le perde mai di vista, ne ha grande cura, le sorveglia dagli attacchi dei lupi e dei predatori.

Pertanto, “osservare”, qui non va inteso come “obbedire, mettere in atto, eseguire” le sue parole, i suoi comandamenti: in realtà è come se Gesù dicesse ai suoi: “Avete scoperto una verità? Avete trovato in me qualcosa che vi riscalda il cuore? Avete trovato nelle mie parole il cibo per la vostra anima? Avete scoperto in me la forza trainante per la vostra vita? Non perdete, non scartate questi doni! Custoditeli, abbiatene cura. Se mi amate, conservateli tutti nel vostro cuore, come se fossero un tesoro prezioso”.

È chiaro, ovviamente, che questa raccomandazione di Gesù vale anche per tutti noi: se amiamo il Signore, dobbiamo custodire sempre vivi nel nostro cuore i suoi insegnamenti, dobbiamo cioè conservare il suo vangelo come una guida infallibile per tutta la nostra vita: non dobbiamo perderlo mai di vista, perché è il nostro nutrimento fondamentale: mai farci distrarre dal mondo, mai utilizzare cibi avariati, ma dobbiamo essere sempre molto selettivi: “di cosa sento veramente il bisogno? Quale cibo può estinguere la mia “fame”? Cosa mi sazia, cosa mi fa sentire vivo?”. La nostra anima esige un trattamento esclusivo, non si accontenta di ciò che le passa davanti; vuole il suo nutrimento, il suo cibo; per cui una volta che l’abbiamo individuato, una volta che abbiamo capito dallo Spirito ciò che per lei è vitale, indispensabile per la sua sopravvivenza, dobbiamo conservarlo molto attentamente, dobbiamo custodirlo con amore, fare di tutto perché non si deteriori.

Oggi purtroppo il mondo non ci offre alcun aiuto in questo senso: l’unico “cibo” che ci offre in abbondanza è quello di ottenere il massimo piacere materiale dalle persone e dalle cose, di godere, di inebriarsi, in ogni singolo momento di questa vita precaria, instabile, fuggevole. I suoi massimi traguardi sono soltanto illusioni ossessive che avvelenano la vita. Se guardiamo a tutto ciò che ci viene proposto, ci confondiamo. Il rischio, se coinvolti, è di rimanere feriti, oltraggiati nell’anima, spogliati di ogni nostra dignità. Ecco perché ogni tanto è necessario fermarci, isolarci dalla confusione, dal chiasso, entrare in noi stessi, rinchiuderci nell’anima, pregare, chiarirci: per poi ripartire, riprendendo decisi la direzione e l’unico scopo valido del nostro andare.

Non abbandoniamoci alle maree della stupidità mediatica oggi imperante: non barattiamo la preziosità unica, inimitabile, della nostra anima con l’inutile e fatua chincaglieria che ci viene proposta in saldo. Seguiamo fedelmente le intuizioni suggerite dallo Spirito di Dio: non sottovalutiamole, non perdiamole, ma custodiamole con ogni cura! Non dimentichiamo mai ciò che appassiona, che fa vivere la nostra anima. Perché diventare sordi alle sue necessità, significa farla morire di inedia.

Conserviamo nel cuore soltanto ciò che sappiamo essere buono, sano, corretto, spiritualmente utile: l’amicizia di persone che rappresentano per noi dei “porti” di salvezza, delle ancore di salvataggio, dei veri salvagente nel pericolo; conserviamo i “nostri” incontri, le nostre esperienze positive, quelle che ci ricaricano, che ci danno forza ed energia per andare avanti, che sono sangue e linfa dell'anima; conserviamo quelle parole, quei richiami, quei discorsi che ci hanno scosso, che sono rimbombati dentro l’anima; perché tutto ciò è dono, tutto ciò è protezione e aiuto, tutto ciò è amore di Dio. Allora capiremo l’importanza di avere sempre in noi il suo Spirito, il Consolatore perfetto, la Luce del cuore, l’Ospite dolce dell’anima: allora capiremo la verità profonda e consolante delle parole di Gesù: “Io e mio Padre verremo da te e ci fermeremo ad abitare dentro di te”; una bellissima, incomparabile prospettiva trinitaria: Dio che non sta in cielo, che non sta tra le pareti ovattate di una chiesa, ma che vive, con il Figlio e tutto il suo amore, nel nostro cuore.

Ecco perché il messaggio del vangelo di oggi ci rimanda prepotentemente dentro di noi: perché è solo là che conserviamo tutta la nostra ricchezza, tutta la nostra bellezza: è da lì che attingiamo la nostra forza, il nostro entusiasmo, la nostra determinazione, il nostro essere fedeli discepoli di Cristo. È lì, nel nostro cuore, che risiede il nostro propulsore, il centro di comando da dove parte lo smistamento all’esterno, a favore dei fratelli, di tutto quel surplus d’amore che Dio genera in noi: e se all’esterno qualcosa di noi non convince, vuol dire che all’interno qualcosa non funziona a dovere: qualche “contatto” determinante si è ossidato, interrompendo la meravigliosa erogazione dell’amore divino. Urge allora una chiamata d’urgenza allo Spirito per un suo pronto intervento risolutore. Amen

 

  

giovedì 12 maggio 2022

15 Maggio 2022 – V Domenica di Pasqua

Gv 13,31-35

Quando fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri»

Per comprendere bene il vangelo di oggi dobbiamo leggerlo nel suo contesto originale, altrimenti i riferimenti e il significato delle parole sfuggirebbero alla nostra attenzione. Il testo infatti inizia con “Quando fu uscito…”: ma a chi si riferisce? Chi è la persona che, una volta uscita, costringe Gesù a dare delle spiegazioni ai presenti su quanto è avvenuto e su quello che succederà dopo? Che significa che Gesù ora si sente “glorificato”? per che cosa? Cerchiamo di dare un senso a questi interrogativi.

La scena si svolge all’interno del cenacolo, durante l’ultima cena: Gesù ha appena finito di lavare i piedi ai dodici, e sta raccomandando ai presenti di seguire il suo esempio, mettendosi a servizio degli ultimi, di chi ne ha maggior bisogno. È un momento di grande intimità: egli sta impartendo le ultime raccomandazioni, sta consegnando loro il suo testamento spirituale: è serio, parla a voce bassa, confidenzialmente, lascia emergere dal cuore tutta l’amarezza e l’inquietudine per il suo grande sacrificio ormai vicino; improvvisamente tace; poi, proseguendo con voce rotta dall’emozione, rivela un particolare tremendo: “Uno di voi mi tradirà” (Gv 13,21)Ne segue un silenzio glaciale. I dodici si guardano l’un l’altro: “Uno di noi? Impossibile! Noi siamo tutti con te!”. In loro domina lo sgomento, il dramma, la costernazione, ma si insinua anche il dubbio. Hanno bisogno di chiarimenti, e gli chiedono increduli: “Ma Signore, chi mai può essere?”. E Gesù: “È colui per il quale inzupperò il boccone, e glielo offrirò”A quel tempo, nei banchetti importanti, c’era l’usanza che il padrone di casa offrisse il primo boccone all’ospite d’onore, in segno di deferenza e di stima. È l’estremo gesto d’amore e di riguardo di Gesù nei confronti di Giuda il traditore, nel tentativo di distoglierlo dal suo insano proposito. Ha già provato in tutti i modi, gli ha dimostrato tutta la sua amicizia, la sua disponibilità, il suo cuore generoso. Ma ogni suo sforzo non è servito a nulla: Giuda rifiuterà ogni cosa, ed uscirà dal cenacolo perdendosi nelle tenebre della notte.

Non appena Giuda è uscito dal cenacolo - e qui inizia il nostro vangelo - Gesù offre dunque ai suoi una spiegazione: ma lo fa con parole ermetiche, di difficile interpretazione: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. A cosa mai si riferisce Gesù esclamando che “ora”, cioè in quel preciso momento è stato glorificato, quando in realtà Giuda, sbattendo la porta, è appena uscito col proposito di tradirlo, e Lui sa che la sua fine è ormai imminente? Perché parlare proprio ora di “gloria”, di “glorificazione”? Certo deve essere una “gloria” che gli sta molto a cuore, se Giovanni nel riferire le sue parole, in due soli versetti, ripete insistentemente per ben cinque volte lo stesso verbo “glorificare”. 

Per cercare di capirne il motivo, dobbiamo ricorrere al linguaggio biblico, che molto spesso dà alle parole un significato diverso dal nostro: infatti i termini “gloria”, “glorificare” (dal greco “doxa”, "dokèo"), contrariamente al nostro lodare, esaltare, celebrare, acquistano in Giovanni il significato di “rivelare, dimostrare, far vedere”Per cui Gesù, consapevole del fatto che tra poco sarebbe iniziata la sua ora, dichiarando ai discepoli di sentirsi “glorificato”, vuole far capire loro che il rifiuto di Giuda non è altro che l’inizio di quel programma di amore immenso e di estremo sacrificio, che il Padre gli aveva richiesto, per il riscatto dell’umanità peccatrice. Gesù quindi, accettando il suo sacrificio, “glorifica” dimostra, rivela al mondo intero il suo amore di Figlio per il Padre, e nello stesso tempo l’amore del Padre per l’umanità intera: un comune, smisurato amore per gli uomini, che verrà sacrificato sul patibolo della croce per la loro salvezza. L’elemento portante, dunque, di questo “inno di gloria”, di questa “rivelazione” del piano di Dio in Gesù, è dunque l’amore.

Un sentimento determinante, fondamentale, che ci offre la chiave interpretativa di questo vangelo, che in ultima analisi, ci mette concretamente di fronte alle nostre responsabilità: in pratica ci fa capire che come ha fatto Gesù, anche noi cristiani dobbiamo “glorificare” Dio; dobbiamo cioè “dimostrare” di essere suoi discepoli, dobbiamo rendere evidente la sua presenza nella nostra vita, imitando ciò che lui ha fatto nella sua: in altre parole, dobbiamo donare gratuitamente a tutti, anche noi come Lui, amore, comprensione, senza chiedere nulla in cambio, senza avanzare pretese; dobbiamo semplicemente amare, avendo come unico scopo - come raccomanda Paolo nella Lettera ai Romani c. 5 – di rendere partecipi gli altri, di quella sovrabbondanza di amore, che Dio ha riversato nei nostri cuori.

Noi Dio non lo vediamo, è vero: è difficile per noi amare chi non vediamo, chi non conosciamo personalmente, chi è lontano da noi; abbiamo però il nostro prossimo, che vediamo continuamente; abbiamo i nostri fratelli, che ci stanno sempre vicino: amando loro, è come se amassimo Lui, perché chi ama loro, ama Lui. E Lui ama tutti: vicini o lontani dal suo cuore, fedeli o infedeli alla sua chiesa, Dio ama veramente tutti, e lo fa senza pretendere nulla in cambio, senza alcun obbligo da parte nostra, perché il suo è un amore totalmente gratuito, un amore che è già nostro dal primo istante di vita; perché è un amore conquistato, e assicurato per tutti, dal sacrificio di Gesù sulla croce. Tutto quello che noi dobbiamo fare, è semplicemente di accoglierlo, di accettarlo, nient’altro.

Non servono miracoli per “testimoniare” al mondo questo amore di Dio, non serve una vita eroica: anzi, a volte, è Dio stesso che rivela la sua presenza in noi: noi non ce ne rendiamo conto, ma può capitare che nella vita di tutti i giorni, un raggio del suo amore illumini in maniera particolare la nostra anima, si impadronisca del nostro cuore: una presenza che ogni volta, lascia in noi una traccia inconfondibile del suo amore.

“Dove vado io, voi non potete venire”: i discepoli, dopo la sua cattura, dopo il suo distacco da loro, lo cercheranno, perché la sua improvvisa assenza provoca in loro ansia, preoccupazione: ma essi non possono seguirlo dove egli sta andando: perché egli sta liberamente percorrendo la strada che, attraverso la croce, lo riporta al Padre. In tale percorso nessuno, per ora, è in grado di accompagnarlo. Nessuno, ancora, è in grado di capire la grandezza del suo amore e di unirsi a lui nel donarlo. Nessuno ha ancora la capacità di amare in questo modo: neppure i suoi discepoli, quelli che gli stanno più vicini; soltanto dopo la sua passione e morte egli darà loro la possibilità di mettere in pratica la sua ultima volontà.

Un comandamento veramente nuovo, quello di Gesù: una norma sconosciuta fino ad allora, una regola di vita veramente straordinaria, che ha coinvolto radicalmente la loro esistenza: uno stile, un dovere primario, che coinvolge anche ogni futuro discepolo; un programma di vita che capovolge completamente le nostre priorità, il nostro metodo di giudizio, il valore delle nostre valutazioni, delle nostre categorie umane. Per noi, infatti, è discepolo di Cristo, è un “cristiano”, semplicemente chi è battezzato, chi riceve i sacramenti, chi va in chiesa, chi rispetta certe regole, certe norme di vita. Per Gesù invece, essere cristiani, essere suoi discepoli, vuol dire una cosa sola: “amare come Lui ha amato”; amare cioè con un amore identico al suo, identico a quello del Padre. Ma, ci chiediamo, come si esplica, in cosa consiste, questo amore del Padre? Ce lo spiega solennemente Giovanni in tre parole: “Deus caritas est! - Dio, è amore! (1Gv 4,16). Dio cioè, non “possiede” un amore da donare; Dio non “prova” amore; Dio è Amore: è Amore assoluto, Amore totale; tutta la sua “essenza” è Amore! Egli, per amare, non “trasmette” un sentimento, non esterna un’emozione, non “offre” qualcosa, come facciamo noi: Egli ama incorporando, assorbendo l’amato nel suo amore, trasformandolo in Amore (qui manet in caritate in Deo manet – chi ama, rimane in Dio). È solo così, che Dio ama gli uomini; tutti, indistintamente: anche quelli che non lo meritano; anche quelli che continuano a tradirlo, anche quelli che lo rifiutano, che lo ignorano, che lo insultano, che vivono come se non esistesse.

Questo, è il “comandamento nuovo” di Gesù: questo è il comandamento che Giovanni correttamente definisce entolèn kainèn, che in greco non significa “nuovo” in senso temporale, cioè l’ultimo, quello “più recente” (avrebbe detto “entolèn néan”), ma “nuovo” per il suo contenuto, “nuovo” nella sostanza, perché ha rovesciato completamente i contenuti della vecchia tradizione, della Legge mosaica, ha rivoluzionato il concetto stesso di Dio: trasformandolo da padrone esigente, in padre innamorato. Un comandamento nuovo anche perché: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Parole importanti, parole che dovrebbero essere tenute in seria considerazione anche e soprattutto da quei discepoli moderni, da quei cattolici che si ritengono osservanti, praticanti, perfettamente in regola con Dio semplicemente perché alla domenica vanno in chiesa.

Attenzione: Gesù non dice: “Si saprà che siete miei discepoli, se andate a messa, se dite il rosario tutti i giorni, se ascoltate attentamente le prediche, se fate delle offerte generose, se siete iscritti a tutte le associazioni cattoliche”. No, Gesù non si è mai sognato di dire questo. Anzi, all’epoca, egli si è dimostrato particolarmente severo e intransigente con gli scribi e farisei, proprio perché si consideravano “speciali”, si ritenevano “eletti” da Dio, gli unici “osservanti” perfetti della religione, i custodi del tempio. Quindi, non è il nostro esteriore, non è il nostro apparire, che ci qualifica davanti a Dio: ciò che ci deve distinguere, non è il “fare”, il “dare”, l’essere giudicati protagonisti della “carità”, elementi importanti, insostituibili, fedeli collaboratori dei preti. No.

Il nostro “habitus”, il nostro “contrassegno” originale, quello autentico, quello che ci fa riconoscere come discepoli di Cristo, è uno solo: l’amoreLe divise, le medaglie, i distintivi, le celebrazioni, le cerimonie, il canto corale, cose di cui noi molto spesso andiamo fieri, in realtà non contano nulla, sono solo dei corollari, incapaci da soli a qualificare la nostra fede, la nostra vita interiore. La nostra risposta alla “chiamata” di Dio, la nostra coerenza nel seguire i suoi insegnamenti, va misurata solo ed esclusivamente sull’amore, da come amiamo Dio, da come amiamo i nostri fratelli, il nostro prossimo; un amore che non prevede esibizioni straordinarie, interventi eroici, da prima pagina dei giornali o da interviste televisive: ma un amore attento, solerte, discreto, umile, nascosto: praticato con sollecitudine, con attenzione, con soluzioni che non hanno bisogno di pubblicità, di visibilità, ma che raggiungono immediatamente il loro scopo, perché spinte da un amore vero, compiute nella riservatezza, nell’umiltà, nel silenzio. Amen.

 

giovedì 5 maggio 2022

08 Maggio 2022 - IV Domenica di Pasqua


Gv 10, 27-30

«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 Il Vangelo di oggi, uno dei più corti dell’intero anno liturgico, fa parte di una delle catechesi tenute da Gesù a Gerusalemme. Sono poche parole, che però sintetizzano e documentano un messaggio per noi di estrema importanza: Le mie pecore ascoltano la mia voce, io le conosco, esse mi seguonoTre verbi, ascoltare, conoscere, seguire, che sviluppano tre momenti di un crescendo programmatico, che deve assolutamente determinare la nostra vita di cristiani “moderni”. Analizziamo meglio la portata di queste parole.

1. “Ascoltare”: nel linguaggio comune noi mettiamo sullo stesso piano i termini ascoltare, udire, sentire: per noi sono sinonimi, esprimono la stessa cosa. Ma non è così: “udire, sentire”, significa percepire semplicemente un suono: è un fenomeno naturale, spontaneo, fisiologico che non necessariamente coinvolge la volontà dell’individuo; uno “sente”, “ode” voci e suoni, e può rimanerne completamente indifferente ad essi. “Ascoltare” invece, è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo, nel nostro cuore, intorno a noi, determinando la nostra volontà ad agire di conseguenza, a fare delle scelte concrete. Il concetto, per esempio, è spiegato molto bene da san Benedetto, quando nel Prologo alla sua Regola, invita il discepolo ad “ascoltare” l’insegnamento del maestro: è in latino ma molto comprensibile:

Ausculta o fili, praecepta Magistri, inclina aurem cordis tui et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple, ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras … per Benedetto, cioè, l’ascolto dell’insegnamento deve interessare l’orecchio del cuore (aurem cordis tui) per poterlo accettare volentieri (libenter excipe) e soprattutto per metterlo subito in pratica (efficaciter comple)“Ascoltare” è quindi porre attenzione, fare una elaborazione mentale che comporta un’attuazione consapevole. Ne consegue che come uno ascolta, così anche si comporterà, così imposterà la sua vita. Da come parliamo, ma ancor più da come ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo. Se nella vita non “ascoltiamo” noi stessi e gli altri, non potremo neppure crescere, non potremo cioè diventare mai adulti, maturi: perché è ciò che ascoltiamo, che ci “costruisce” dentro. Non per nulla Paolo scrive ai Romani che la “fede nasce dall'ascolto”: fides ex auditu (Rm 10,17); attenzione: dall'ascolto, non dall'aver sentito tante belle prediche o tante catechesi! In realtà noi ogni giorno “udiamo” milioni di suoni, di parole, ma quante ne ascoltiamoNella nostra vita abbiamo “udito” migliaia di volte la proclamazione del Vangelo, senza però che scattasse qualcosa in noi. Perché? Perché ci fermiamo alla sola percezione materiale delle parole; non le “ascoltiamo”, non le metabolizziamo, ci scivolano via senza far vibrare le corde sensibili della nostra anima. Per noi è difficile ascoltare gli altri; ma lo è ancor più ascoltare noi stessi! Se invece ci ascoltassimo, potremmo inaspettatamente scoprire dentro di noi un’enorme quantità di parole, di suoni, di voci, di esperienze, di fatti, tutti in attesa di essere esaminati, catalogati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più, nel silenzio della nostra anima, probabilmente non avremmo la necessità di cercare altrove soluzioni e risposte agli interrogativi della vita: eviteremmo risposte di “altri”, spesso decisamente inutili e illusorie, in quanto non fanno parte di noi, non ci riconoscono, non sono “noi”, non sono la “nostra vita”. Solo se ci ascoltassimo di più, potremmo renderci conto di quanto, nel silenzio interiore, la nostra anima parli! Anzi, a volte la sentiremmo addirittura gridare in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo, ma quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così “assurda” (da “ab-surda” = stonata, da sordo, fuori da ogni logica), ignorando le esigenze primarie dell’anima, i richiami del profondo, le richieste sostanziali della vita. Noi siamo sordi! E, da sordi, non essendoci “ascolto”, parliamo a sproposito, senza senso: il vaniloquio, è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare del nulla, tanto caro e praticato oggi dai nostri organi di informazione!

2. “Conoscere”: è la seconda parola da approfondire. Il pastore conosce una ad una le pecore che lo ascoltano. Per noi, “conoscere” in genere significa sapere chi è un certo tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma questa è una semplice raccolta di dati biografici, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità. Ben più profondo e pregnante è invece il significato biblico di conoscere, che significa fare un'esperienza, incontrare, sentire, capire: l’uomo della Bibbia, per esempio, “conosce” la propria donna nell’unirsi sessualmente a lei per procreare, per avere un figlio: due corpi si “conoscono”, si fondono nell’intimità, per assicurare continuità esistenziale alla propria famiglia. La “conoscenza” non consiste quindi nel raccogliere un sacco di informazioni; sarebbe come dire: “conosco com'è un liquore, perché “conosco” la sua marca, la sua tipica bottiglia”. Ma per conoscere veramente un liquore è necessario berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore. Questo è il punto: e questo principio vale anche per il nostro rapporto con Dio: noi lo “conosciamo”, non perché sappiamo a memoria le risposte del catechismo, ma perché lo sperimentiamo nella nostra vita, perché lo “sentiamo” vibrare nel nostro cuore, perché avvertiamo in noi la sua potenza, la sua forza, che ci coinvolge, perché lo “mangiamo nell’Eucaristia e, penetrandoci, ci cambia. È questa un’esperienza unica, indescrivibile, che ci destabilizza, ci astrae dalla nostra natura umana, dalla nostra fragilità temporale.

3. “Seguire”: è la nostra terza parola; è la conseguenza dell’ascoltare e del conoscere: una volta recepito, “assimilato” completamente il messaggio di Gesù, per noi sarà naturale concretizzarlo e trasferirlo con gioia nella nostra vita pratica. È così che conquisteremo la pace, la serenità del sentirci protetti, perché nessuno potrà mai “distoglierci, rapirci” dall’abbraccio di Dio. “Nessuno le strapperà dalla mia mano”: il verbo greco “arpàzo” significa proprio questo: “rapire, strappare via, prendere, rubare”. Purtroppo tutti noi mortali viviamo nel timore di perdere qualcosa, che qualcosa ci venga portato via, che quanto ci appartiene, quanto abbiamo conquistato con fatica e sacrificio, ci venga improvvisamente sottratto, rubato dalla mala sorte: è una paura che ci accompagna giorno dopo giorno, esattamente come la paura di perdere la nostra vita, i nostri cari, le nostre ricchezze; come pure la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, la notorietà. Un timore, una paura che genera preoccupazione, ansia: l’ansia è infatti la compagna fedele del nostro viaggio di uomini moderni, tecnologici. Ma perché la gente ha tanta paura di perdere qualcosa che in fondo non gli appartiene? Cosa abbiamo noi mortali di veramente “nostro”? A chi e a che cosa possiamo veramente dire: “sei mio”? Proprio a nulla, amici miei: perché tutto ciò che ci circonda, tutte le nostre ricchezze, i nostri beni, vita compresa, li abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: completamente nudi siamo entrati in questo mondo e completamente nudi ne usciremo. Un giorno, vicino o lontano che sia, saremo costretti ad abbandonare tutto ciò che definiamo “nostro”, tutto ciò che amiamo, tutto ciò a cui siamo profondamente legati: è la conclusione della nostra vita terrena, il momento ultimo, è la morte. Una prospettiva finale e irrevocabile che, solo a pensarla, ci inquieta, ci preoccupa, ci infastidisce, ci turba. Ecco allora che una certezza ci viene in aiuto col vangelo di oggi: alle pecore che ascoltano la mia voce, che io conosco e che mi seguono “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Per questo i primi cristiani gridavano ai loro persecutori: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la Vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi e nessuno può strapparci dalle Sue mani”. 

Fidiamoci anche noi allora di questa promessa di Dio, della sua Parola: abbandoniamoci fin d’ora a Lui, aggrappiamoci a quella mano che amorosamente ci tende, non sottraiamoci mai a quel suo abbraccio paterno: allora vivremo sereni, nella certezza che nessuno mai potrà farci del male, nessuno mai potrà separarci dall’amore del Padre! Amen.