Gv 10, 27-30
«Le mie pecore ascoltano la mia
voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non
andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre
mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla
mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
1. “Ascoltare”: nel linguaggio comune noi mettiamo sullo stesso piano i termini ascoltare, udire, sentire: per noi sono sinonimi, esprimono la stessa cosa. Ma non è così: “udire, sentire”, significa percepire semplicemente un suono: è un fenomeno naturale, spontaneo, fisiologico che non necessariamente coinvolge la volontà dell’individuo; uno “sente”, “ode” voci e suoni, e può rimanerne completamente indifferente ad essi. “Ascoltare” invece, è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo, nel nostro cuore, intorno a noi, determinando la nostra volontà ad agire di conseguenza, a fare delle scelte concrete. Il concetto, per esempio, è spiegato molto bene da san Benedetto, quando nel Prologo alla sua Regola, invita il discepolo ad “ascoltare” l’insegnamento del maestro: è in latino ma molto comprensibile:
Ausculta o fili, praecepta Magistri, inclina aurem cordis tui et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple, ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras … per Benedetto, cioè, l’ascolto dell’insegnamento deve interessare l’orecchio del cuore (aurem cordis tui) per poterlo accettare volentieri (libenter excipe) e soprattutto per metterlo subito in pratica (efficaciter comple). “Ascoltare” è quindi porre attenzione, fare una elaborazione mentale che comporta un’attuazione consapevole. Ne consegue che come uno ascolta, così anche si comporterà, così imposterà la sua vita. Da come parliamo, ma ancor più da come ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo. Se nella vita non “ascoltiamo” noi stessi e gli altri, non potremo neppure crescere, non potremo cioè diventare mai adulti, maturi: perché è ciò che ascoltiamo, che ci “costruisce” dentro. Non per nulla Paolo scrive ai Romani che la “fede nasce dall'ascolto”: fides ex auditu (Rm 10,17); attenzione: dall'ascolto, non dall'aver sentito tante belle prediche o tante catechesi! In realtà noi ogni giorno “udiamo” milioni di suoni, di parole, ma quante ne ascoltiamo? Nella nostra vita abbiamo “udito” migliaia di volte la proclamazione del Vangelo, senza però che scattasse qualcosa in noi. Perché? Perché ci fermiamo alla sola percezione materiale delle parole; non le “ascoltiamo”, non le metabolizziamo, ci scivolano via senza far vibrare le corde sensibili della nostra anima. Per noi è difficile ascoltare gli altri; ma lo è ancor più ascoltare noi stessi! Se invece ci ascoltassimo, potremmo inaspettatamente scoprire dentro di noi un’enorme quantità di parole, di suoni, di voci, di esperienze, di fatti, tutti in attesa di essere esaminati, catalogati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più, nel silenzio della nostra anima, probabilmente non avremmo la necessità di cercare altrove soluzioni e risposte agli interrogativi della vita: eviteremmo risposte di “altri”, spesso decisamente inutili e illusorie, in quanto non fanno parte di noi, non ci riconoscono, non sono “noi”, non sono la “nostra vita”. Solo se ci ascoltassimo di più, potremmo renderci conto di quanto, nel silenzio interiore, la nostra anima parli! Anzi, a volte la sentiremmo addirittura gridare in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo, ma quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così “assurda” (da “ab-surda” = stonata, da sordo, fuori da ogni logica), ignorando le esigenze primarie dell’anima, i richiami del profondo, le richieste sostanziali della vita. Noi siamo sordi! E, da sordi, non essendoci “ascolto”, parliamo a sproposito, senza senso: il vaniloquio, è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare del nulla, tanto caro e praticato oggi dai nostri organi di informazione!
2. “Conoscere”: è la seconda parola da approfondire. Il pastore conosce una ad una le pecore che lo ascoltano. Per noi, “conoscere” in genere significa sapere chi è un certo tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma questa è una semplice raccolta di dati biografici, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità. Ben più profondo e pregnante è invece il significato biblico di conoscere, che significa fare un'esperienza, incontrare, sentire, capire: l’uomo della Bibbia, per esempio, “conosce” la propria donna nell’unirsi sessualmente a lei per procreare, per avere un figlio: due corpi si “conoscono”, si fondono nell’intimità, per assicurare continuità esistenziale alla propria famiglia. La “conoscenza” non consiste quindi nel raccogliere un sacco di informazioni; sarebbe come dire: “conosco com'è un liquore, perché “conosco” la sua marca, la sua tipica bottiglia”. Ma per conoscere veramente un liquore è necessario berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore. Questo è il punto: e questo principio vale anche per il nostro rapporto con Dio: noi lo “conosciamo”, non perché sappiamo a memoria le risposte del catechismo, ma perché lo sperimentiamo nella nostra vita, perché lo “sentiamo” vibrare nel nostro cuore, perché avvertiamo in noi la sua potenza, la sua forza, che ci coinvolge, perché lo “mangiamo nell’Eucaristia e, penetrandoci, ci cambia. È questa un’esperienza unica, indescrivibile, che ci destabilizza, ci astrae dalla nostra natura umana, dalla nostra fragilità temporale.
3. “Seguire”: è la nostra terza parola; è la conseguenza dell’ascoltare e del conoscere: una volta recepito, “assimilato” completamente il messaggio di Gesù, per noi sarà naturale concretizzarlo e trasferirlo con gioia nella nostra vita pratica. È così che conquisteremo la pace, la serenità del sentirci protetti, perché nessuno potrà mai “distoglierci, rapirci” dall’abbraccio di Dio. “Nessuno le strapperà dalla mia mano”: il verbo greco “arpàzo” significa proprio questo: “rapire, strappare via, prendere, rubare”. Purtroppo tutti noi mortali viviamo nel timore di perdere qualcosa, che qualcosa ci venga portato via, che quanto ci appartiene, quanto abbiamo conquistato con fatica e sacrificio, ci venga improvvisamente sottratto, rubato dalla mala sorte: è una paura che ci accompagna giorno dopo giorno, esattamente come la paura di perdere la nostra vita, i nostri cari, le nostre ricchezze; come pure la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, la notorietà. Un timore, una paura che genera preoccupazione, ansia: l’ansia è infatti la compagna fedele del nostro viaggio di uomini moderni, tecnologici. Ma perché la gente ha tanta paura di perdere qualcosa che in fondo non gli appartiene? Cosa abbiamo noi mortali di veramente “nostro”? A chi e a che cosa possiamo veramente dire: “sei mio”? Proprio a nulla, amici miei: perché tutto ciò che ci circonda, tutte le nostre ricchezze, i nostri beni, vita compresa, li abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: completamente nudi siamo entrati in questo mondo e completamente nudi ne usciremo. Un giorno, vicino o lontano che sia, saremo costretti ad abbandonare tutto ciò che definiamo “nostro”, tutto ciò che amiamo, tutto ciò a cui siamo profondamente legati: è la conclusione della nostra vita terrena, il momento ultimo, è la morte. Una prospettiva finale e irrevocabile che, solo a pensarla, ci inquieta, ci preoccupa, ci infastidisce, ci turba. Ecco allora che una certezza ci viene in aiuto col vangelo di oggi: alle pecore che ascoltano la mia voce, che io conosco e che mi seguono “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Per questo i primi cristiani gridavano ai loro persecutori: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la Vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi e nessuno può strapparci dalle Sue mani”.
Fidiamoci anche noi allora di questa promessa di Dio, della sua Parola: abbandoniamoci fin d’ora a Lui, aggrappiamoci a quella mano che amorosamente ci tende, non sottraiamoci mai a quel suo abbraccio paterno: allora vivremo sereni, nella certezza che nessuno mai potrà farci del male, nessuno mai potrà separarci dall’amore del Padre! Amen.
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