giovedì 19 maggio 2022

22 Maggio 2022 – VI Domenica di Pasqua


Gv 14,23-29

In quel tempo, Gesù disse: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

  

Gesù nella lunga catechesi tenuta ai discepoli durante l’ultima cena, dopo aver rivelato il tradimento da parte di Giuda, affronta il tema altrettanto spinoso della sua prossima partenza; cerca di preparare i discepoli a questo distacco, per loro sicuramente traumatico; vedendo il loro profondo turbamento, cerca di addolcire le sue parole: “Vi lascio la pace... Il vostro cuore non sia turbato, non abbia timore!”. È una preoccupazione paterna, la sua: cerca in qualche modo di rincuorarli, di infondere loro serenità, sicurezza: “Tranquilli, amici miei, voi ora siete addolorati, in ansia, ma vi assicuro che non sarete mai soli: dopo la separazione, la vostra sofferenza si tramuterà in una gioia indescrivibile, perché capirete che io sono ancora realmente con voi: sentirete la mia presenza in un modo completamente nuovo, la sentirete dentro di voi, e questo vi consolerà, vi darà forza”. Egli sa cosa significherà per loro affrontare da soli la paura, la delusione, la solitudine; per questo, nel consolarli, assicura la sua costante presenza in loro con il suo Spirito, che li seguirà, passo dopo passo, verso quelle nuove esperienze di vita.

Parole confortanti quelle di Gesù; parole di sicuro effetto; parole che i discepoli sentono dettate dal cuore: Gesù li ama, e l’amore vero trova sempre il modo per infondere forza, consolazione, nuovo vigore, nuovi propositi. Capita anche a noi, a volte, di dover consolare chi si trova in difficoltà, chi si trova a vivere momenti di smarrimento e di dolore; anche noi pronunciamo le nostre belle parole, ma ci accorgiamo che esse difficilmente raggiungono il cuore delle persone: scivolano via, non trasmettono una vera condivisione, non sono convincenti, rivelano una semplice cortesia: questo perché non apriamo veramente il nostro cuore, non ci immedesimiamo nello sconforto della persona; in questi casi, sarebbe preferibile stare in silenzio, senza parlare, senza dire nulla; sarebbe molto meglio far “sentire” semplicemente la nostra presenza, far capire che ci siamo, che comprendiamo, che condividiamo, che possono quindi contare su di noi. Consolare” infatti deriva dal latino “cum-solus”, significa cioè stare con chi è solo; affiancarsi a lui, silenziosamente, fraternamente, senza alcun invadente esibizionismo. L’importante è assicurargli la nostra presenza, la nostra sincera compartecipazione, una condivisione attenta, ma soprattutto discreta. Sappiamo che le difficoltà, le sofferenze, le delusioni, le separazioni, sono nella vita le nostre compagne di viaggio: nessuno può mai pensare di esserne esente. In tal caso però consolare non significa banalizzare l’accaduto, tanto meno appellarsi alla fatalità del destino, comportandoci come se non fosse successo nulla: consolare vuol dire soprattutto, e in ogni caso, dimostrare amore al fratello provato, aiutarlo a superare il suo particolare momento di debolezza, di smarrimento.

È infatti proprio così che si comporta qui Gesù con i discepoli: un Gesù che capisce, che consola, che ama: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Ecco: è la pace, la “sua” pace, che Egli dona: è lo stesso identico dono che Egli offrirà da risorto, nella sua prima apparizione nel cenacolo: perché la pace di Dio è serenità dell’anima, una serenità profonda, salda, irremovibile, che permette all’uomo di affrontare ogni sua paura: la paura del futuro, la paura delle malattie, della sofferenza, della morte, la paura di non essere amati. Un cuore in “pace” è un cuore saldo, forte, risoluto, che non si spaventa nelle avversità, non si dispera nel dolore, non si scoraggia nella fatica; un cuore in “pace”, riesce sempre a scoprire la presenza di Dio nella propria vita, riesce sempre a percepire la grandezza, la bellezza, l’amore del suo Signore: Lo incontra con gioia, perché si sente riconosciuto, si sente amato, si sente una cosa preziosa per Lui; un cuore in “pace”, capisce tutto questo, e con grande fiducia può esclamare: “io ti amo, o mio Dio, Tu mi ami: con Te, posso cambiare il mondo!”.

“Se uno mi ama osserverà la mia parola”. Che vuol dire qui Gesù con “osservare”? Il verbo greco “terèo” significa “custodire, guardare, aver cura, conservare, stare in guardia”; e quindi: “se uno mi ama, conserverà, custodirà la mia parola”; ne avrà cura, la guarderà attentamente; si comporta cioè come un pastore innamorato delle sue pecore: le ama perché rappresentano la sua unica ricchezza, le guarda, non le perde mai di vista, ne ha grande cura, le sorveglia dagli attacchi dei lupi e dei predatori.

Pertanto, “osservare”, qui non va inteso come “obbedire, mettere in atto, eseguire” le sue parole, i suoi comandamenti: in realtà è come se Gesù dicesse ai suoi: “Avete scoperto una verità? Avete trovato in me qualcosa che vi riscalda il cuore? Avete trovato nelle mie parole il cibo per la vostra anima? Avete scoperto in me la forza trainante per la vostra vita? Non perdete, non scartate questi doni! Custoditeli, abbiatene cura. Se mi amate, conservateli tutti nel vostro cuore, come se fossero un tesoro prezioso”.

È chiaro, ovviamente, che questa raccomandazione di Gesù vale anche per tutti noi: se amiamo il Signore, dobbiamo custodire sempre vivi nel nostro cuore i suoi insegnamenti, dobbiamo cioè conservare il suo vangelo come una guida infallibile per tutta la nostra vita: non dobbiamo perderlo mai di vista, perché è il nostro nutrimento fondamentale: mai farci distrarre dal mondo, mai utilizzare cibi avariati, ma dobbiamo essere sempre molto selettivi: “di cosa sento veramente il bisogno? Quale cibo può estinguere la mia “fame”? Cosa mi sazia, cosa mi fa sentire vivo?”. La nostra anima esige un trattamento esclusivo, non si accontenta di ciò che le passa davanti; vuole il suo nutrimento, il suo cibo; per cui una volta che l’abbiamo individuato, una volta che abbiamo capito dallo Spirito ciò che per lei è vitale, indispensabile per la sua sopravvivenza, dobbiamo conservarlo molto attentamente, dobbiamo custodirlo con amore, fare di tutto perché non si deteriori.

Oggi purtroppo il mondo non ci offre alcun aiuto in questo senso: l’unico “cibo” che ci offre in abbondanza è quello di ottenere il massimo piacere materiale dalle persone e dalle cose, di godere, di inebriarsi, in ogni singolo momento di questa vita precaria, instabile, fuggevole. I suoi massimi traguardi sono soltanto illusioni ossessive che avvelenano la vita. Se guardiamo a tutto ciò che ci viene proposto, ci confondiamo. Il rischio, se coinvolti, è di rimanere feriti, oltraggiati nell’anima, spogliati di ogni nostra dignità. Ecco perché ogni tanto è necessario fermarci, isolarci dalla confusione, dal chiasso, entrare in noi stessi, rinchiuderci nell’anima, pregare, chiarirci: per poi ripartire, riprendendo decisi la direzione e l’unico scopo valido del nostro andare.

Non abbandoniamoci alle maree della stupidità mediatica oggi imperante: non barattiamo la preziosità unica, inimitabile, della nostra anima con l’inutile e fatua chincaglieria che ci viene proposta in saldo. Seguiamo fedelmente le intuizioni suggerite dallo Spirito di Dio: non sottovalutiamole, non perdiamole, ma custodiamole con ogni cura! Non dimentichiamo mai ciò che appassiona, che fa vivere la nostra anima. Perché diventare sordi alle sue necessità, significa farla morire di inedia.

Conserviamo nel cuore soltanto ciò che sappiamo essere buono, sano, corretto, spiritualmente utile: l’amicizia di persone che rappresentano per noi dei “porti” di salvezza, delle ancore di salvataggio, dei veri salvagente nel pericolo; conserviamo i “nostri” incontri, le nostre esperienze positive, quelle che ci ricaricano, che ci danno forza ed energia per andare avanti, che sono sangue e linfa dell'anima; conserviamo quelle parole, quei richiami, quei discorsi che ci hanno scosso, che sono rimbombati dentro l’anima; perché tutto ciò è dono, tutto ciò è protezione e aiuto, tutto ciò è amore di Dio. Allora capiremo l’importanza di avere sempre in noi il suo Spirito, il Consolatore perfetto, la Luce del cuore, l’Ospite dolce dell’anima: allora capiremo la verità profonda e consolante delle parole di Gesù: “Io e mio Padre verremo da te e ci fermeremo ad abitare dentro di te”; una bellissima, incomparabile prospettiva trinitaria: Dio che non sta in cielo, che non sta tra le pareti ovattate di una chiesa, ma che vive, con il Figlio e tutto il suo amore, nel nostro cuore.

Ecco perché il messaggio del vangelo di oggi ci rimanda prepotentemente dentro di noi: perché è solo là che conserviamo tutta la nostra ricchezza, tutta la nostra bellezza: è da lì che attingiamo la nostra forza, il nostro entusiasmo, la nostra determinazione, il nostro essere fedeli discepoli di Cristo. È lì, nel nostro cuore, che risiede il nostro propulsore, il centro di comando da dove parte lo smistamento all’esterno, a favore dei fratelli, di tutto quel surplus d’amore che Dio genera in noi: e se all’esterno qualcosa di noi non convince, vuol dire che all’interno qualcosa non funziona a dovere: qualche “contatto” determinante si è ossidato, interrompendo la meravigliosa erogazione dell’amore divino. Urge allora una chiamata d’urgenza allo Spirito per un suo pronto intervento risolutore. Amen

 

  

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