domenica 31 luglio 2022

07 Agosto 2022 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

Lc 12,32-48 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire” e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

 

Continuiamo la lettura del capitolo 12 del Vangelo di Luca. Un capitolo estremamente importante, perché traccia la via che ogni discepolo deve percorrere per fondare il Regno di Dio nella propria vita.
Oggi Luca insiste particolarmente sulla “tensione” necessaria per raggiungere la Vita, quella “molla” che nella nostra vita di cristiani non deve mai allentarsi. Per questo motivo dobbiamo liberarci di tutta quella zavorra che ci impedisce di camminare speditamente: “Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma”: è Gesù che ce lo raccomanda.
Certo, non si riferisce qui a quelle esperienze di vita intime, che ciascuno di noi conserva gelosamente nel proprio cuore, come la serenità di una giornata spesa bene, la gioia per un ideale raggiunto dopo tante fatiche e sofferenze; la commozione per la nascita di un figlio; la risposta d’amore che scorgiamo negli occhi delle persone amate; i colori della natura, il profumo dell'erba appena tagliata, il suono del vento, il canto degli uccelli; la felicità del cuore; insomma a tutte quelle sensazioni che proviamo nel sentirci vivi, amati e sorretti dalla Vita.
Questo “tesoro” nessuno potrà mai portarcelo via. Tutto questo rimarrà sempre in noi. Ma ci sono, è vero, anche tante cose inutili, tanta zavorra che ci rallenta nel cammino. Cose superflue, nocive, deleterie, cose che abbiamo stoltamente raccolto lungo il cammino della vita. Ebbene, liberiamocene, buttiamole via: riempiamo le nostre “borse” esclusivamente di cose vere, procuriamoci beni che non passano, che durano, che non invecchiano mai, ai quali la ruggine, i ladri e le tarme non possono arrivare. Forse sono beni come i soldi? No, perché ci possono facilmente essere rubati. Le ricchezze? No, perché possiamo perderle in un momento. L’auto, la casa, i cosiddetti “beni durevoli”, gli oggetti più belli e preziosi? No, perché per un motivo o per l’altro il tempo li deteriora e finiscono col distruggersi. Insomma, tutto ciò che è di questo mondo, è provvisorio, destinato a passare. È zavorra inutile, pesante, che non merita la nostra attenzione.
Tutte le raccomandazioni di Gesù riportate qui da Luca, hanno motivazioni diverse, ma sono legate tra loro da un’unica radice, un unico tema: “State svegli, non dormite, siate sempre vigili e coscienti, non addormentatevi, perché il “sonno” della ragione, del raziocinio, genera mostri, e il “sonno” dell’anima, genera morte!”.
Nella vita, l’uomo è combattuto sempre da due possibilità: fermarsi o continuare; dall’accontentarsi di quanto raggiunto, e quindi di rinunciare a nuove esperienze, e da quella contraria di andare sempre avanti, di progredire, di continuare a crescere. È un fenomeno molto comune. Quante volte sarà capitato anche a noi di dire o di pensare: “Va bene così: sono cristiano, vado a messa; so amare gli altri; sono impegnato quanto basta, mi sento di essere nel giusto; non mi serve diventare migliore, posso fermarmi qui, posso finalmente rallentare, riposarmi!”. Ma ci sbagliamo di brutto: ce lo dimostra la natura stessa: noi capiamo se un albero è vivo e vegeto se continua a crescere, a svilupparsi, a produrre foglie e frutti; se al contrario smette di crescere, di migliorare, di rinnovarsi continuamente, significa che è morto, senza vita e ben presto si secca.
Tutte le nostre crisi esistenziali derivano quindi dallo scontro di queste due possibili decisioni: quella di fermarci, di accontentarci del risultato raggiunto; l’altra, al contrario che ci sprona ad affrontare nuove prove, nuovi stimoli, a progredire. È il nostro dilemma: perché nella vita o si va avanti e si progredisce oppure ci si ferma e si regredisce: non è ammessa un’altra possibilità concreta. Eppure quanti cristiani dormono credendo di essere svegli; sono convinti di andare avanti e non si accorgono che sono immobili, immersi nelle loro fantasie, nei loro sonni.

Questo è il pericolo che dobbiamo evitare, come ci segnala Gesù: dobbiamo tenerci sempre pronti, reattivi. Aspettare in azione il ritorno del Signore in questa nostra “veglia” che si chiama vita, significa pertanto “convertirsi”, mettere a frutto i nostri talenti, quei doni che Egli ci ha consegnato al nostro ingresso nel mondo. Dobbiamo essere convinti, dobbiamo farlo; dobbiamo cambiarla radicalmente questa nostra vita, perché forse, fino ad oggi, più che “vita”, è stato in realtà un sopravvivere nell’indifferenza, nel perdere tempo creandoci solo false illusioni.

Ricordo una storiella molto carina che dice: «Un padre bussa alla porta della camera in cui suo figlio sta dormendo: “Carlo, svegliati”. E Carlo risponde: “Non voglio alzarmi papà”. Il padre urla: “Alzati devi andare a scuola”. Ma Carlo: “Non voglio andare a scuola”. “E perché no?”, gli chiede il padre alzando la voce. “Per tre motivi, risponde Carlo. “Prima di tutto, è una noia; secondo, i ragazzi mi prendono in giro; terzo, odio la scuola”. E il padre, ormai spazientito: “Bene, ora ti dico io tre motivi per cui devi andare a scuola; primo, perché è tuo dovere; secondo, perché hai quarantacinque anni, e terzo perché sei il preside».
Una storiella che farebbe anche sorridere, se in fondo non fosse così realistica. Nella vita siamo tutti campioni nel campare scuse, nel giustificare le nostre scelte, pur sapendo che non sono quelle giuste; ci ostiniamo a sprecare tempo prezioso, trastullandoci con i nostri giocattoli preferiti (denaro, automobili, vacanze, vestiti, fama, potere).
I nostri propositi di conversione, talvolta anche seri e impegnativi, sono comunque proiettati costantemente nel “domani”: perché nell’oggi dobbiamo sempre occuparci di mille cose “più urgenti”; che in pratica significa: viviamo molto bene così come siamo, nel nostro “piccolo mondo”, convinti di poter raggiungere traguardi invidiabili, anche se poi, puntualmente, si rivelano inefficaci. Non amiamo “cure” spirituali drastiche; quelle che noi definiamo con enfasi “nostre conquiste”, sono in realtà esperienze provvisorie, superficiali, passeggere, temporanee: perché a noi, in fondo, non interessa “crescere”, non vogliamo impegnarci oltre, non vogliamo “strafare”; stiamo bene così. Continuiamo cioè ad illuderci, pensando di salvarci assumendo eccezionali “compresse curative”: miracolosi “placebo”, infallibili “salvavita”, proposti e osannati dai “dotti” cerusici del momento, ma assolutamente inefficaci e inconcludenti.

Purtroppo, “svegliarsi” all’improvviso da questo nostro irresponsabile dormiveglia, sarà decisamente imbarazzante e doloroso: perché il momento della verità, il momento in cui tutte le nostre decantate certezze cadranno a pezzi, arriverà puntualmente. E allora scopriremo in un istante tutta l’inconsistenza e l’inutilità della nostra vita Ci accorgeremo di non avere nulla in mano: di ritrovarci davanti a Dio e a noi stessi, alla fine di un allucinante passaggio nel tempo, completamente nudi e indegni.
Solo allora capiremo il valore della vita: “Come ho fatto a vivere così? Come ho fatto a non accorgermi? Incredibile!”.
Nel sonno avevamo confuso l’irreale col reale. L’importante allora è svegliarci, vedere le cose che ci circondano nella loro giusta luce; vedere le persone per come realmente sono, e non per come noi vorremmo che fossero; vedere le cose nella loro realtà, perché soltanto ciò che esiste è reale. Stare svegli significa dire a noi stessi: “Tu ci sei”; significa poter chiamare ogni cosa col suo nome, anche se quello che scopriamo non è per nulla edificante. Stare svegli significa infatti dire: “Tu sei violenza: questo è il tuo nome; tu sei orgoglio: questo è il tuo nome; tu sei paura, terrore, viltà: questo è il tuo nome; tu sei fallimento, abbandono, tradimento: questo è il tuo nome; tu invece sei energia, forza, possibilità: questo è il tuo nome”. Chiamare ogni cosa per nome è fondamentale, perché riconosce in noi quella forza, quel vigore, che può ridarci vita. Chiamare le nostre debolezze per nome significa farle esistere, renderle reali, dir loro: “Purtroppo, mi piaccia o no, tu esisti, ma ancora per poco! Perché ora ti affronto, ti modifico, ti annullo: perché sento di poterlo fare!”.
A questo dovrebbero portare espressioni come “vegliare”, “consapevolezza”, “lucerna accesa”; termini che indicano appunto il vedere tutto ciò che c’è da vedere, il rendersi conto di ogni cosa, il non nasconderci nulla, il chiamare tutto per nome; l’avere insomma un quadro reale su cui concentrare il nostro lavoro di restauro.

“Se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate”.
Quando viene Dio? Non lo sappiamo. Arriva nel momento in cui meno ce l’aspettiamo. Ecco perché non dobbiamo perdere tempo, Ecco perché dobbiamo essere sempre pronti! Non sappiamo quando, ma egli verrà! Dio è come il ladro: viene nei momenti più imprevedibili, al di fuori di ogni logica umana, viene seguendo la sua logica divina.
Molte volte vorremmo che il nostro cammino di fede fosse chiaro, ben programmato: vorremmo sapere quali passi fare, quali insidie e quali pericoli evitare; vorremmo che la nostra salita al “santo monte di Dio” fosse graduale, comoda, in modo da poter predisporre il necessario, valutare il percorso, individuare gli ostacoli, localizzare perfettamente la meta finale.
Ma non è così! Questo appartiene al nostro innato bisogno di conoscere il “dopo”, cosa ci riserva il domani, al nostro pretendere che ogni cosa avvenga secondo i nostri programmi: dove andare, chi e cosa incontrare, data e ora della fine del viaggio. È il nostro bisogno congenito di dominare, di gestire, di avere tutto sotto controllo! Ma Dio è ingestibile: nessuno mai è stato e sarà in grado di programmarlo, controllarlo, manipolarlo.

“Allora Pietro disse: Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”. Il Signore rispose: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro”.
Tranquillo caro Pietro: le parole di Gesù valgono non solo per te e per gli altri discepoli, ma per tutti. Nessuno è proprietario della propria esistenza: la vita è un bene che non ci appartiene, noi ne siamo solo gli amministratori, e un giorno dovremo restituirla. Anche il tempo non è nostro: noi dobbiamo solo gestire quella manciata di giorni che ci sono stati concessi, mettendoli a frutto. A questo mondo nulla ci appartiene, niente e nessuno è di nostra proprietà.
Noi abbiamo soltanto il dovere di trattare ogni cosa, ogni essere umano, ogni creatura vivente, con tutto il rispetto, l’amore, la cura, di cui siamo capaci. Soprattutto dobbiamo iniziare ad amministrare al meglio noi stessi, il nostro mondo interiore, la nostra anima, evitando di “addormentarci”, di vivere nelle distrazioni, “fregandocene” di tutto e di tutti: perché il Padrone, come ci conferma oggi Gesù, si presenterà all’improvviso e, che gli crediamo o no, egli pretenderà da noi, pur nella sua infinita misericordia, un dettagliato resoconto di come abbiamo amministrato il suo impareggiabile dono. Amen.

 

lunedì 25 luglio 2022

31 Luglio 2022 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario


Lc 12,13-21 
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,13-21).

Gesù sta parlando a una grande quantità di persone: una “folla” precisa il vangelo. Forse centinaia, migliaia di persone. Sta parlando di cose molto serie, importanti, dell’essenza del vivere: dice che chi lo seguirà, non deve pensare di ottenere onori, gloria, considerazione, riconoscenza; sarà invece “rinnegato, portato davanti ai tribunali; tuttavia non dovrà mai temere di nulla, perché Dio da sempre ha cura di lui, pensa personalmente a lui; a Dio nulla sfugge di quello che lo riguarda; perfino i suoi capelli sono contati!

Sono considerazioni profonde: ma improvvisamente un tale lo interrompe per porgli una sua questione personale, molto specifica, completamente fuori tema, e quindi di nessun interesse per gli altri. Ciò che preoccupa il tizio è infatti un problema di ordine economico: suo fratello si rifiuta di cedergli la parte di eredità che gli spetta. Ovviamente, un intervento del genere fa chiaramente capire che al tizio non interessa proprio nulla degli insegnamenti profondi di Gesù; ciò che gli sta a cuore sono soltanto i suoi interessi economici: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità!”.

Ma Gesù, che capisce al volo la questione, che legge i veri interessi del suo cuore, di rimando: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. In altre parole: “Tu chiedi giustizia non perché credi nel valore della giustizia, sulla necessità che a ciascuno vengano riconosciuti i propri diritti, ma ti rivolgi a me solo perché sei avido, sei attaccato ai soldi, li desideri ardentemente, e vuoi che io risolva questo tuo problema. Ebbene, non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi, non farmi perdere tempo per i tuoi miseri interessi personali. Anche perché, ammesso pure che tu ottenga la tua parte di eredità, che la investa e ottenga da essa utili di gran lunga superiori ad ogni tua aspettativa, ricordati che tutti questi tuoi guadagni non valgono assolutamente nulla in quanto sono frutto della tua avidità; tutte le tue decisioni non nascono da un cuore e da una mente liberi, non rispondono alla tua razionalità, non sono ordinate alla giustizia, all’equità, ma sono dettate esclusivamente dalla tua fame insaziabile di sempre nuove ricchezze, delle quali ormai sei completamente schiavo”.
Attenzione: qui Gesù non dice “Tu hai ragione, tuo fratello ha torto”. Dice invece: “Tu, tuo fratello e tutti quelli che come voi pensano soltanto ad arricchirsi, perdono la parte migliore della loro vita, quella più feconda, più creativa, più vera: perdono cioè l'anima, che è molto più importante, più preziosa di qualunque ricchezza terrena”.

Gesù quindi va oltre la distinzione tra legale/illegale, giusto/sbagliato, su cui era stato inizialmente interrogato; dichiara invece più semplicemente: “Tutti quelli che vivono come voi, con queste vostre assillanti preoccupazioni terrene, finiranno col morire in tutti i sensi a causa di esse”. Non è possibile infatti che uno che è completamente posseduto dalla mania di grandezza personale, che pensa soltanto al suo benessere materiale, alla sua promozione sociale, alla sua immagine, al suo potere, alle sue ricchezze, possa trovare anche un minimo interesse per la sua vita spirituale, per Dio, per una crescita interiore, per la sua anima.
E per rendere le sue parole ancor più chiare e comprensibili a tutti, come al solito, ricorre ad una parabola, la cui tragica conclusione, però, sembra essere sollecitata questa volta da una vendetta divina: visto cioè che il protagonista ha speso ogni sua energia vitale, ogni suo interesse, esclusivamente nell’appagare la sua insaziabile avidità, accumulando ingenti ricchezze e potere, nel momento in cui decide di godersi questo suo benessere, vivendo negli agi e nel lusso, viene raggiunto improvvisamente dalla morte che gli toglie con la vita anche l’invidiabile frutto del suo lavoro! Sembra quasi che Dio si diverta a colpire la stupidità umana, che rimanga quasi in attesa delle nostre pseudo conquiste, per poi prendersi gioco di noi.
Il vero significato, però, il senso profondo della parabola, non è questo. È al contrario un avviso profetico, 
una realistica anticipazione di ciò che accadrà a tutti quelli che durante la loro vita, hanno pensato soltanto alle cose futili di questo mondo, alle ricchezze, ai divertimenti, e non hanno trovato neppure un momento da dedicare a Dio, alla propria anima; a quanti cioè, che pur di ottenere residenze di lusso, ricchezze, “magazzini” stracolmi di “patacche”, hanno stupidamente e inutilmente svenduto il bene prezioso della propria anima. 
Chi vive così, finirà così!” sembra concludere Gesù: tutte le illusioni che rincorrete nel presente, sono tutte destinate a finire, devono cioè fare i conti con un futuro che non conoscete, con quella realtà, certa e inevitabile, che ora vi rifiutate anche solo di prendere in considerazione.

L'uomo della parabola, assorbito totalmente nella ricerca dei beni materiali, come tutti i ricchi del vangelo, è anonimo, è uno sconosciuto, uno senza nome. Non ha un nome proprio perché un tipo del genere non merita una propria identità spirituale; chi agisce prescindendo da Dio, non è nessuno, è una nullità, un fallito! Questo in sintesi è l’insegnamento della parabola: e Gesù l’ha detto anche apertamente: A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”.
Già, a che ci servono le ricchezze, le montagne di denaro, se perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra indipendenza, la nostra serenità, la pace, la presenza rassicurante di chi amiamo, la gioia per la crescita dei nostri figli, la forza trainante di una vera amicizia? Significa vivere una situazione tragica, irreale, con una visione del tempo totalmente sfasata: per noi il presente non esiste, parliamo e pensiamo unicamente proiettati nel domani: faremo così, faremo colà, demoliremo, costruiremo, raccoglieremo. Non ci rendiamo conto che prima o poi tutto finirà, tutto passerà, che tutto ha sì un inizio, ma anche una fine certa! Nessuno di noi è eterno, nessuno di noi è immortale. La vita ha un suo corso ben definito, circostanziato, scandito dal tempo: inizia, cresce, raggiunge il suo apice, tramonta, finisce. Tutto ciò che in questo frattempo noi abbiamo rinviato, scartato, accantonato, lasciato in sospeso, lo abbiamo irrimediabilmente perduto. Ciò che è passato, è passato e non tornerà mai più. Ciò che non abbiamo voluto gustare allora, non lo potremo gustare mai più. Anche l'uomo della parabola si illudeva: “Eh sì,
verrà un giorno in cui finalmente mi riposerò, mangerò, mi darò alla pazza gioia”. Illuso! Eppure, quante persone continuano a trascurare i momenti più importanti della vita, quelli da dedicare a Dio, con la scusa del lavoro, della carriera, dell’affermazione sociale ed economica, della ricchezza e del benessere: alla gente oggi interessa sempre meno vivere in pace con la propria coscienza, con Dio, con loro stessi, con la famiglia, con gli amici più cari; sono cose che non prendono neppure in considerazione: cose che possono tranquillamente aspettare; e rimandano, rimandano, rimandano. Finché un giorno, improvvisamente, tutti i loro progetti, i loro sogni, i loro traguardi meravigliosi, si frantumano di fronte alla morte, ad un evento tragico, ad una malattia fulminante. Dalla sera alla mattina, ogni loro sogno ambizioso si rivela inutile, una insensata, stolta perdita di tempo, una fatua illusione.

Purtroppo, spinto da una pubblicità mediatica insulsa e martellante, l’uomo è portato a rincorrere avidamente tutto ciò che non ha, e non si rende conto che già possiede il meglio; non capisce di possedere già, dentro di sé, il “tesoro” più grande e prezioso di qualunque altra ricchezza: l’anima, lo Spirito divino. Nessuna ricchezza, infatti, nessun prestigio, nessun riconoscimento esteriore, può farci sentire più importanti, più sicuri, più appagati; niente e nessuno, nessun idolo, nessun “Dio” terreno, potrà mai farci sentire così vivi, realizzati, soddisfatti, come vivere degnamente e consapevolmente la “Vita” dello Spirito che ci inabita. Amen.

 

giovedì 21 luglio 2022

24 Luglio 2022 – XVII Domenica del Tempo Ordinario


Lc 11,1-13 
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (Lc 11,1-13).


Gesù, nel vangelo di oggi, ci insegna come dobbiamo pregare. Il testo del “Padre Nostro” nella versione di Luca, è più breve rispetto a quella di Matteo, e quindi, come dicono gli studiosi, con ogni probabilità, è anche quella più vicina all’originale. Era naturale infatti, per le prime comunità cristiane, aggiungere parole e concetti ad un testo originale inizialmente breve, per renderlo più completo e comprensibile. Qui Gesù spiega ai discepoli, e a noi, non solo il motivo per cui dobbiamo pregare, ma soprattutto con quali parole e con quale disposizione d’animo, dobbiamo farlo.

«Quando pregate dite: Padre». “Padre” è una parola che per noi, abituati all’immagine umana del nostro genitore, potrebbe anche trarci in inganno: non sempre infatti la figura del padre è positiva, sinonimo di amore per i figli. Ma noi non dobbiamo proiettare su Dio le nostre esperienze umane, le immagini della nostra fragilità. Dio è Padre alla maniera di Dio, Egli è un “Padre” il cui amore va decisamente oltre i limiti della nostra comprensione. 
Un giorno un bambino chiese alla madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: “Cosa senti ora, figlio mio?”. “Sento che mi vuoi tanto bene”. E la mamma: “Dio è proprio così, figlio mio!”. Ecco: finché non faremo questa esperienza di amore totale, finché non avremo più alcuna paura di abbandonarci completamente a Lui, finché non proveremo la sensazione di libertà infinita, di massima accoglienza, di estrema sicurezza tra le sue braccia, noi saremo sempre nell’anticamera di Dio. È Gesù che ci ha parlato di Dio come di un Padre. Come? “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il credente, colui che vuol seguire Gesù, non è quindi uno che si limita a osservare le leggi, che ubbidisce e basta, che non “sgarra mai”, ma è uno che cerca soprattutto di amare come ama Lui, con la sua stessa accoglienza. Quella dunque che ci propone Gesù è l’immagine di un Dio decisamente nuova: un Dio, a cui non interessa comportarsi come un giudice inflessibile, pronto a penalizzare quelli che sbagliano, ma un Dio che: “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35); ama cioè tutti, usa misericordia a tutti, vuole una vita vera per tutti! Non a caso, come abbiamo visto due domeniche fa, Gesù ci indica un samaritano, un eretico, un nemico, un maledetto, come modello di credente, poiché solo lui prova misericordia, solo lui si ferma e si prende cura dell’uomo moribondo, mentre il sacerdote e il levita, i religiosi per eccellenza, i puri, gli osservanti, tirano dritto. Gesù non pretende un’osservanza esteriore, ancorché stretta e letterale, a tutta la legge (come il sacerdote e il levita) ma vuole che lo stesso amore che Lui nutre per noi, si dilati, si espanda, si riversi su tutta l’umanità (il samaritano): “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Con Gesù tutto è cambiato, rispetto a prima; Dio non vuole più essere servito, è Lui che ci serve. Esattamente come ha fatto nell’Ultima Cena, quando si è messo a servire i discepoli e a lavare loro i piedi. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27:). Se le religioni ci dicono ciò che l’uomo deve fare per Dio (preghiere, penitenze, digiuni, cerimonie, ecc.) il vangelo di Gesù, “to eu-anghelion” - la “buona notizia”, ci dice che Dio ama spontaneamente l’uomo, aldilà di tutto e di ogni cosa. San Paolo in proposito si esprime in modo meraviglioso: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Rm 8,15). Quindi qualunque sia la nostra situazione, la nostra povertà, il nostro disagio, il nostro peccato, la nostra morte, la nostra vergogna, ricordiamoci sempre che siamo figli di Dio: rivolgiamoci a Lui... e mai, assolutamente mai, Lui ci respingerà.  

«Sia santificato il tuo nome». Molte persone, quando leggono questa frase, pensano alle bestemmie, alle imprecazioni, al disprezzare il nome di Dio: ma è una interpretazione riduttiva: noi infatti lo “bestemmiamo”, non “santifichiamo” cioè il nome di Dio”, quando nella vita sprechiamo i suoi doni; “bestemmiamo” Dio quando ci “lasciamo” vivere, quando per paura, o per attaccamento alle cose di questo mondo, smarriamo il nostro cammino; “bestemmiamo” Dio tutte le volte che i nostri occhi non sanno cogliere la sua presenza in noi. La vita di tante persone è una continua bestemmia a Dio perché vivono senza amore, senza ideali, ignorandolo completamente: sono futili, superficiali, banali. Allora è giusto pentirci quando bestemmiamo Dio insultandolo con le parole; ma dobbiamo soprattutto chiedere perdono e convertirci, quando con la nostra vita rinneghiamo la grandezza, la bellezza, la meraviglia delle aspettative che Dio ha riposto in noi.
Ogni volta che viviamo voltando le spalle alla sua chiamata, noi non santifichiamo Dio, ma bestemmiamo colui che ci ha creato per essere “grandi”, per essere “santi”: qadosh, in ebraico, oltre che “santo”, indica anche “la cruna di un ago”, un “passaggio”, la “porta per entrare nella santa montagna di Dio”. Cos’è un ago nei confronti di una montagna? Nulla. Ebbene, questo è quanto sappiamo di Dio. Non limitiamo Dio alla nostra mente. Dio è più grande, Dio è oltre, Dio è un'esperienza che per quanto facciamo non potremo mai scoprire, capire, conoscere interamente. Egli ci stupirà sempre, ci sbalordirà in ogni caso. Di fronte a Lui tutti dobbiamo solo inchinarci e fare silenzio: perché Lui è il Santo, è Altro, è sempre Oltre. Questo è il mistero di Dio!

«Venga il tuo regno»: cioè si realizzi, si compia, in me ciò che tu vuoi. In tutte le culture c’era il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità, proiettato in un tempo futuro, sconosciuto. Anche nell’Antico Testamento c’era questa speranza. Gesù al contrario non disse mai: “Il regno verrà!”, ma: “Il regno è qui” (Mc 1,15), è con noi, è dentro di noi, perché tutti abbiamo la possibilità di instaurare la signoria di Dio in noi stessi. Sta a noi trasformare questa possibilità in realtà, permettere al regno di realizzarsi, di accadere: rendendolo manifesto con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri pensieri. Noi infatti realizziamo il regno di Dio quando ci impegniamo a rendere più vera la nostra vita, quando il nostro amore diventa meno possessivo e condizionante, quando diventiamo più aperti e meno giudicanti, quando nel nostro ambiente lottiamo contro l’ingiustizia, quando ci opponiamo alle ipocrisie, al male, alle ingiustizie, quando difendiamo la solidarietà, la comunione, la verità. Allora ogni volta che noi preghiamo “venga il tuo regno” stiamo chiedendo a Dio che faccia di noi il suo strumento, che ciò che Lui vuole, si realizzi attraverso di noi.

«Dacci ogni giorno il pane quotidiano». Gesù, alludendo al “nostro” pane, usò l’espressione “lehem huqi” che significa il “pane che costruisce”, un concetto tradotto in greco con “epiousion”, e in latino con “supersubstantialem”; un pane quindi che va ben oltre il semplice “alimento quotidiano”, il pane del fornaio: chiediamo a nostro Padre un qualcosa di superiore, di soprannaturale, di decisamente più importante: chiediamo cioè quell’unico “pane sostanzioso”, quello vero, in grado di nutrire l’anima.
Ogni giorno noi abbiamo assoluto bisogno di alimentare l’anima: un po’ di intimo silenzio, un confronto profondo con noi stessi, su di noi, sulla nostra vita; un pensiero su Dio, sui nostri rapporto con Lui; una breve lettura della Parola, un buon testo che ce la commenti, che ci insegni qualcosa, che ci faccia riflettere; un po’di preghiera silenziosa, di intimità spirituale; un momento insomma che ci faccia sentire a casa Sua, al sicuro, non da estranei, ma da figli suoi, che vogliono nutrirsi tra le Sue braccia.
In questo modo possiamo pian piano modellare la nostra vita, nutrirla, darle la forma che desideriamo. Tocca a noi scegliere questo cibo “nutriente”: non è vero che siamo impediti, che siamo in balia degli altri, della società, del mondo. Dobbiamo smetterla di rifiutarci di scegliere con fermezza il “meglio”, dicendo che è difficile, che non è possibile, che la Chiesa di oggi, la società in cui viviamo, non aiutano: ricordiamoci che disinteressarci di tutto, il nostro pusillanime “non voler scegliere”, è già una scelta, che porta spesso a risultati deleteri! Non è vero che una cosa vale l’altra: a pranzo, in tavola, una pietanza non vale l’altra, non è la stessa cosa; e se non vale per il cibo materiale, figuriamoci per quello spirituale. Se per l’igiene quotidiana del corpo stiamo molto attenti a scegliere i prodotti delle migliori marche, perché non dovremmo farlo anche per l’igiene della nostra anima? Sarà ben più importante, che ne dite? Allora evitiamo di prelevare dagli scaffali della vita la prima cosa che ci capita davanti, ciò che è più comodo, più a portata di mano; scegliamo e decidiamo noi quella che fa veramente bene alla nostra anima. Siamo noi che dobbiamo costruire la nostra vita, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta; siamo noi gli unici artefici, gli assoluti protagonisti; siamo pertanto noi che dobbiamo dire “sì” ad un “cibo” salutare, sano, che ci fa bene, che ci fa crescere, e dire “no” ad un altro del tutto scadente, dannoso per la nostra salute. Siamo noi, solo noi, nessun altro! 
Dobbiamo agire intelligentemente in questo: se infatti invertiamo l’ordine delle consonanti alla parola “lehem” (pane) otteniamo la parola “meleh”, che significa “sale”, “saggezza”: ecco, chiediamo allora a Dio anche quella “saggezza” che ci guidi nella scelta del nostro pane quotidiano, di quel pane substantialem, che ci rende forti, robusti, penetranti nei confronti della vita e di Dio, nostro Padre; quella stessa “saggezza” che poi sicuramente ci renderà anche “salati”, sapidi, gustosi, pieni di senso e di significato, nei confronti dei nostri fratelli.

«E perdona a noi i nostri peccati…» Il “pane” (lehem) e la “saggezza” (meleh), diventano anche “perdono(mahol). Anche il perdono è quindi il nostro pane quotidiano: perdono che chiediamo a Dio per il male che abbiamo fatto e continuiamo a fare, la forza di perdonare quanti ci fanno del male. Ogni giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri risentimenti, tutto ciò che ci ferisce. Ogni giorno, quando ci alziamo, dobbiamo ricordare che il nostro “pane sostanziale”, nutriente, per l’intera giornata, è il perdono. Dobbiamo perdonarci perché abbiamo sbagliato, perché abbiamo fatto un errore; dobbiamo perdonarci perché ci succedono delle cose che non possiamo controllare, su cui non possiamo intervenire. Dobbiamo perdonare gli altri, quelle persone che criticano senza motivo il nostro comportamento, il nostro modo di fare, di parlare, di vivere, che sparlano e malignano sul nostro conto. Sono cose che ci indispettiscono, è vero, ma che possiamo farci? Se possiamo, chiariamo; altrimenti a che prò continuare a pensarci, continuare a star male per giorni e giorni? Non è forse meglio perdonare, accettare che possano pensare così, accettare di essere feriti? “Perdono” in ebraico si dice anche “kafor”, che vuol dire “ricoprire la ferita”. “Kafor” allora è prendere in mano ogni giorno le nostre ferite e ricoprirle di perdono. 
Il perdono deve essere il nostro “habitus” di tutti i giorni, il vestito con cui dobbiamo camminare nel mondo; perché esso è la nostra unica possibilità di fecondità, di felicità.

«… anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore». Noi possiamo condonare, possiamo perdonare tutto ai nostri fratelli, se noi stessi abbiamo fatto esperienza di perdono. Altrimenti non sappiamo di che si tratta! Chi non condona, chi non elimina qualunque contrasto con i fratelli, non ha ancora conosciuto chi è Dio. Perché chi conosce Dio, chi vive il Vangelo, chi sa cosa Dio ha fatto nei suoi confronti, non può fare diversamente: può solo “perdonare”.

«Non abbandonarci alla tentazione». Ritengo più corretta e pertinente la versione letterale “non introdurci, non immetterci nella tentazione”, rispetto alla formula impostaci di recente che non traduce con fedeltà il testo originale, ma ne offre una fantasiosa interpretazione: è vero che anche il precedente non indurci in tentazione” non rendeva il senso letterale del testo: sia il verbo greco “eisenènkes”, che quello latino “inducas”, sono categorici in proposito, esprimendo entrambi, rigorosamente, lo stesso identico concetto, cioè “non introdurci, non portarci dentro, non farci entrare nella tentazione”; quindi un “introdurre” (in-ducere, condurre dentro) che non è il nostro “indurre” dell’italiano parlato, che esprime una connotazione negativa, nel senso di spingere, istigare, invogliare persuadere, convincere, come se Dio si divertisse, per mezzo della tentazione, a spingere, istigare, provocare il male: significato che non esiste in alcun modo nei suddetti verbi originali: inoltre, nell’Antico Testamento, il termine tentazione ha un senso diverso a quello nostro, non esprime mai una “sollecitazione”, un “invito” truffaldino a disobbedire alla nostra coscienza, un trabocchetto per farci commettere qualcosa di proibito; la “tentazione” per il testo sacro è semplicemente una “prova”, una “verifica”, una specie di “esame” che tutti prima o poi nella vita dobbiamo affrontare; una verifica che serve a noi stessi per renderci conto di quello che realmente siamo, a cosa realmente aspiri il nostro cuore, la nostra mente; nella realtà umana, quindi, la tentazione è semplicemente un passaggio obbligato attraverso cui la nostra libera volontà potrà esprimersi con le sue scelte; un evento indispensabile perché, attraverso meritate vittorie o incresciose sconfitte, progressivamente ci trasforma, ci rende più forti, più maturi, tetragoni al male, per proseguire in maniera sempre più consapevole, meritoria, positiva, sulla strada che Gesù ci ha indicato.
Non per nulla, il termine “Nahasc”, nome del serpente tentatore, di colui cioè che “gestisce” le tentazioni, 
in lingua ebraica significa ostacolo, impedimento, un qualcosa che va vinto, oltrepassato: e una volta superato, la nostra anima rifiorisce, acquista nuovo vigore, nuova consapevolezza, nuova luce, nuovo controllo, nuova fermezza. Ecco allora che il senso della tentazione è altamente positivo: Dio ci mette alla prova non per il gusto di divertirsi, di abbandonarci nelle difficoltà, ma solo per aiutarci a crescere, perché dobbiamo essere convinti di quel che facciamo, dobbiamo dimostrare a noi stessi fino a che punto siamo coerenti al nostro “si” a Dio: quanto cioè siamo con Lui sinceri.

Nella nostra preghiera al Padre, pertanto, noi non diciamo a Dio: “Non tentarci!”, e neppure “non abbandonarci nel bel mezzo dei marosi della vita”; Dio non tenta e non abbandona mai nessuno! Gli chiediamo soltanto di aiutarci, di non introdurci “da soli” nelle prove, di stare sempre al nostro fianco in qualunque situazione pericolosa; quasi a volergli dire: “Sai che sono debole e povero; vigila tu su di me perché le tentazioni, le prove, gli ostacoli della vita, non siano superiori alle mie forze. Nel tuo amore di Padre, non permettere che il maligno con i suoi ostacoli abbia il sopravvento su di me: tienimi per mano, fa' che non cada sotto un peso troppo grande per me, aiutami sempre ad uscirne vincitore!”. Una preghiera più che doverosa e lecita, perfettamente adeguata e rispettosa della misericordia e dell’amore di Dio.

Dopo averci insegnato la preghiera, Gesù ci suggerisce anche in che modo e con quale disposizione dobbiamo pregare: e lo fa ricorrendo a due serie di esempi: nella prima parte (vv. 5-8) ci indica che dobbiamo rivolgerci a Dio come ad un amico: anche in maniera inopportuna, senza riguardi, anche in modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci, possiamo esporgli, fargli vedere tutto ciò che siamo e tutto ciò che pensiamo: anche ciò che non è dignitoso, anche ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri pensieri più cattivi, più ripugnanti, aggressivi. Nella preghiera c’è spazio per tutto. Ed Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà.

Nella seconda parte (vv. 9-13), ci spiega invece cosa significa avere Dio per padre. Ogni padre sa cosa serve ai propri figli. Nessun padre dà al figlio, che gli chiede da mangiare, una pietra invece di pane, un serpente al posto di un pesce, o uno scorpione invece di un uovo. È pacifico. Allo stesso modo Dio, che è nostro Padre, non permetterà mai nulla che possa nuocerci, nulla che non sia sopportabile, superabile. Essere intimamente convinti di ciò, anche nelle prove più dure, più impensabili, vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che ci succede ha un senso, ha un suo significato, un valore, anche se noi a prima vista noi non lo capiamo, lo rifiutiamo, o addirittura lo consideriamo una punizione, un male, una tragedia.

In tutto ciò che ci succede, in tutto ciò che la vita ci riserva, Dio ci parla, ci ammaestra, seguendo la sua logica: noi chiediamo e Lui ci risponde, anche se non sempre risponde come noi ci aspettiamo; noi cerchiamo, e Lui ci fa sempre trovare quello di cui abbiamo bisogno, anche se non sempre coincide con ciò che noi vorremmo; noi bussiamo e Lui puntualmente apre davanti a noi delle porte e delle strade, anche se non sempre sono di nostro gradimento, ma sempre e comunque sono il meglio per noi, anche se noi non capiremo mai cosa sia il meglio per noi. Un vecchio monaco amava ripetere: “Io so che Dio è buono, che mi ama: questo mi basta, non mi serve nient’altro!”. Fidiamoci allora anche noi di Dio. Tranquillamente; perché Lui non ci deluderà mai! Amen.

  

mercoledì 13 luglio 2022

17 Luglio 2022 – XVI Domenica del Tempo Ordinario


Lc 10,38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,38-42).

 

Continuando il suo viaggio al sud verso Gerusalemme, Gesù giunge a Betania, località in cui risiede l’amico Lazzaro con le sorelle Marta e Maria. Evidentemente l’amico in quell’occasione è assente, perché il vangelo non fa alcun riferimento sulla sua presenza in casa: è infatti la stessa Marta che offre ospitalità a Gesù, il quale, stanco per il cammino, profondamente turbato per ciò che l’attende, l’accetta ben volentieri; un comportamento, comunque, che se per la nostra mentalità è assolutamente inattaccabile, in quanto espressione di un normale rapporto di amicizia e di cortesia, per quei tempi era invece improponibile e inaccettabile: anzi accettando l’ospitalità delle due donne, sembra quasi che Gesù voglia dimostrare pubblicamente la sua intolleranza per tutte quelle consuetudini, per quelle regole assurde, quelle prescrizioni apertamente stupide, che pur nella loro rigidezza insensata erano comunque tenute in grande considerazione dal popolo. Del resto Gesù non era nuovo a tali “disobbedienze”: Egli infatti aveva già ripetutamente dimostrato di non gradire l’inconsistenza, l’inutilità di questo modo di pensare e di agire, assolutamente mortificante per chiunque.

Va sottolineato in proposito, che Gesù, nella sua missione terrena, non è mai stato un “portatore di pace” come lo immaginiamo noi: noi siamo cresciuti con l'immagine di un Gesù sempre “buono e dolce”; di una persona tranquilla che non litiga mai, che cerca di evitare qualunque scontro, che non alza mai la voce, che rifugge sempre e comunque da qualunque genere di controversie proprio “ad tuendam charitatem”. Ma Gesù, come ci dimostra ampiamente il vangelo, non era affatto così. Egli al contrario per le autorità, soprattutto quelle religiose, era una spina nel fianco, rappresentava un vero punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo che puntualmente stigmatizzava la loro falsità, la loro doppia vita. Non dobbiamo mai dimenticare infatti che furono proprio i capi religiosi che decretarono la sua crocifissione non perché inculcasse nel popolo dei principi di vita “dannosi”, agnostici, inaccettabili; ma perché erano principi di vita radicalmente “nuovi”, rivoluzionari, innovatori rispetto al loro stile di vita, alla loro legislazione, e quindi pericolosi, temibili.

Ma cerchiamo, a questo punto, di evidenziare il messaggio che Gesù vuole trasmetterci attraverso questa pagina del suo vangelo: Egli dunque giunge nel villaggio di Betania: è molto stanco, provato, sia nel corpo che nello spirito e, all’invito di Marta, decide di approfittare della sua offerta di ospitalità, fermandosi a casa dell’amico Lazzaro.

A questo punto Marta, felice di avere in casa un ospite così illustre, è presa immediatamente dall’ansia, si agita, corre per la casa a controllare che tutto sia in ordine, si affretta ad imbandire la tavola, a preparargli da mangiare; vuole insomma che l’accoglienza sia perfetta in tutto. Sua sorella Maria, al contrario, non si preoccupa di nulla: fa gli onori di casa a Gesù, lo fa accomodare e, “seduta ai suoi piedi”, si intrattiene a parlare con Lui: ascolta con attenzione i suoi discorsi, si rende conto immediatamente del suo turbamento, della sua profonda inquietudine; vuole capire il motivo di queste sue preoccupazioni; vuole condividere con Lui l’ansia del suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure.

Ci troviamo quindi di fronte a due comportamenti diametralmente opposti tra loro: quello di Marta è quello classico della donna attiva, pratica, della donna “casalinga”, abituata a mettere concretamente a loro agio le persone che le fanno visita; il suo è un atteggiamento che si concentra soprattutto sull’aspetto “concreto”, “materiale”, “esteriore” dell’ospitalità. Maria al contrario è una donna sensibile, sentimentale; la sua è un’accoglienza soprattutto “emotiva”, vuole che l’ospite si senta come a casa sua, che stia bene, sia rilassato, vuole soprattutto valorizzare la “spiritualità” dell’accoglienza, dell’amicizia: lei vuole conoscere a fondo il suo ospite, vuole capire, vuole imparare dai suoi insegnamenti, dalle sue esperienze di vita; vuole farsi partecipe delle sue emozioni; un comportamento quindi, il suo, eminentemente spirituale, ascetico, contemplativo. Ed è proprio questo il comportamento che Gesù dichiara apertamente di prediligere.

Ciò ovviamente non ci autorizza a pensare che Marta sia cattiva, che sia indifferente, insensibile alla visita di Gesù; anche perché è proprio lei che per prima lo invita a fermarsi, offrendogli ospitalità. Anche Lei è affezionata a Gesù: tant’’è che lo accoglie volentieri “nella sua casa”, lo accoglie cioè nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua parte più profonda e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia qui Marta? Nel decidere autonomamente ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel momento: si mette in movimento e fa tutto di sua iniziativa; nella sua mentalità casalinga pensa di anteporre i bisogni pratici, le necessità materiali dell’ospite, piuttosto che chiedersi prima quali fossero le sue reali esigenze, magari intrattenendosi anche lei nei saluti, nei convenevoli; ha pensato quindi che fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc., tutte cose indispensabili, è vero, ma che non dovevano essere anteposte alla gioia di stare un po’ con l’amico; faccende, quelle sue, che oltretutto vanno fatte con discrezione, con naturalezza, senza farle pesare sull’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo. Gesù infatti, quando entra in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno? Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno soprattutto di essere accolto, ascoltato, rassicurato, abbracciato. Ha bisogno di parlare, di confidarsi, di condividere con qualcuno l’ansia, la paura, per la sua ormai imminente tragedia.

Marta questo non lo sa, non ha avuto modo di capirlo: anzi si lamenta addirittura con Gesù perché la sorella è seduta con Lui e non le dà una mano; lei purtroppo appartiene a quel genere di persone, tanto comuni anche oggi, che non stanno mai ferme, che sono in perpetuo movimento, che vogliono risolvere personalmente ogni cosa, distruggendosi magari in mille faccende di nessun conto: ecco perché era convinta anche in quel momento di fare l’unica cosa giusta: “Mi sto occupando io di te, caro Gesù; sono io che provvedo a soddisfare le tue necessità; io non ho tempo per le chiacchiere e le fantasie di mia sorella!”. Solo che Marta, nel suo gran daffare, non capisce, a differenza della sorella, ciò di cui Gesù ha veramente bisogno: anzi non si rende neppure conto che è lei stessa, e non Gesù, che ha bisogno di essere aiutata, capita, riconosciuta, accettata. A lei questo suo bisogno non è chiaro, non lo riconosce, non vuole ammetterlo, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse contro la sorella. Bisogna anche capirla Marta: è veramente risentita: il suo cuore ribolle dalla rabbia per come stanno andando le cose; non la sfiora alcun dubbio: Gesù si trova bene in casa sua, solo perché è lei che gli ha messo a disposizione il massimo confort; vorrebbe tanto, quindi, che Gesù le dicesse: “Ma che brava che sei! Che brava donna! Che cena squisita! Che bella casa! Hai fatto per me veramente l’impossibile: grazie di cuore!”; ma tutto ciò non succede! “E non succede, cara Marta, perché questo è solo il “tuo” bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto. Ora ti offendi, ti senti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti trascurata, perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore”.

Ecco allora l’evidente messaggio per noi: nella vita dobbiamo sempre aver presente ciò che noi vogliamo, ciò che gli altri si aspettano da noi, ciò di cui noi stessi abbiamo maggior bisogno; dobbiamo imparare a conoscere le nostre aspettative, ad esprimerle, esternarle: non possiamo proiettarle sugli altri, non possiamo pretendere che siano gli altri a capirle, offendendoci, irritandoci se ciò non avviene. Perché Marta non è stata diretta con sua sorella? Perché non le ha chiesto discretamente ma chiaramente di darle una mano? Perché ha continuato invece a mugugnare dentro di sé, senza parlarle? Perché ha inopportunamente coinvolto Gesù, cercando in Lui un alleato contro di lei?

Troppe persone sono purtroppo incapaci di affrontare direttamente le persone con le quali hanno qualche malinteso! Vanno piuttosto dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un altro non serve a nulla, se non a farci compatire e ad innescare una catena di pettegolezzi senza costrutto.

Maria, al contrario di Marta, coglie al volo il bisogno di Gesù, lo ascolta. Non è lei che parla, non è lei che decide ciò di cui Egli ha bisogno. Quando arriva, non dice una sola parola, semplicemente lo ascolta; svuota il suo cuore, fa spazio nella sua mente, perché Gesù entri e si senta pienamente accolto.

Quando dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci su come comportarci, su cosa dirgli, di quali argomenti parlare: impariamo piuttosto ad ascoltare, e poi tutto viene da sé. Non pretendiamo sempre di insegnare, di modificare tutto e tutti secondo i nostri gusti.

Facciamo come ha fatto Maria con Gesù: ascoltiamo, creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego onnipresente, creiamo spazio, perché chiunque vuole entrare possa portare sé stesso, sentirsi a proprio agio, mostrarsi serenamente per quello che è.

Il vangelo dice che Maria, nell’ascoltare Gesù, stava seduta ai suoi piedi: stava cioè a contatto con la terra (humus), sottolineando con ciò il suo atteggiamento di umile (humilis) ascolto. Ed è così che anche noi dobbiamo accogliere i nostri fratelli; dobbiamo cioè far capire loro che siamo lì con la massima disponibilità. Essi questo lo sentono, lo percepiscono subito: e in quel piccolo spazio d'amore che offriamo, essi potranno finalmente esprimere le loro paure, le loro angosce, le loro speranze, le loro necessità, le loro contraddizioni, i loro sogni impossibili; avranno insomma la possibilità di piangere e di ridere, potranno disperarsi ed essere consolati, potranno sentirsi al sicuro, protetti, capiti, amati.

Ecco perché, invece di scegliere immediatamente il ruolo di Marta, più semplice e meno impegnativo, dobbiamo immedesimarci con decisione in quello di Maria: infatti solo costruendo “amore”, il mondo diventerà migliore. Poi affronteremo anche, come Marta, i problemi del lavoro, della casa, del cibo, delle cose da fare. Prima di tutto però dobbiamo sempre assicurare carità, amore, ascolto, perché sono le cose più importanti di cui il mondo ha bisogno: sono questi gli elementi essenziali che evitano a noi, insensibili, egocentrici, accartocciati nelle nostre aridità, di morire definitivamente dentro. Amen.

 

 

mercoledì 6 luglio 2022

10 Luglio 2022 – XV Domenica del Tempo Ordinario


Lc 10,25-37

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa così».

  

Il vangelo di oggi si concentra, con la parabola del buon samaritano, sull’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo spunto viene offerto a Gesù dall’intervento puramente provocatorio di un “dottore della legge”. L’interrogante è un autorevole rappresentante della classe dirigente ebraica; è un’autorità, è l’uomo delle regole, colui che sa con esattezza cosa è bene e cosa no, cosa si debba o non si debba fare. Insomma è un “maestro” molto competente nel suo campo. Il guaio è che, ritenendosi anche molto scaltro, pensa di poter in qualche modo mettere in difficoltà Gesù, l’unico vero “maestro”. Che costui si ritenga all’altezza di ciò, traspare dal fatto che, mentre tutti ascoltano in silenzio e seduti le parole di Gesù, egli “si alza”: si rivolge a Lui, cioè, stando in piedi (solo i maestri parlavano in piedi), rivelando apertamente l’intenzione di voler creare una discussione tra “maestri”, un confronto/scontro tra “pari”.

Il testo italiano traduce blandamente: “Per metterlo alla prova”. Ma il testo greco, più incisivo, usa “ek-peirazo”, che significa tentare con cattiveria, tendere un tranello per far cadere l’altro: troviamo insomma lo stesso verbo usato per descrivere le tentazioni del maligno.

La domanda che gli pone, non certo dettata dall’amore per la verità, è infatti tendenziosa; gli chiede cioè di pronunciarsi su un argomento abbastanza banale, sul quale tutto sommato c’era ben poco da chiarire, visto che tutti gli ebrei conoscevano perfettamente quell’argomento: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Il tentativo di screditarlo, di deriderlo, è già evidente nell’attribuirgli il titolo di “maestro”, anche se in cuor suo non lo considera tale; sembra infatti dire: “Tu che ti ritieni tanto sapiente, tu che ti definisci maestro, vediamo un po’ come te la cavi con questa questione”.

La sua, oltretutto, è uno degli interrogativi classici che la gente comune, non particolarmente religiosa, si pone in cuor suo: gente cioè il cui principale scopo della vita non è certo quello di amare e onorare Dio e il prossimo, con tutta la forza dei propri sentimenti, con tutta l’intensità dell’anima, con tutte le vibrazioni del loro cuore. No, nella loro vita la preoccupazione più importante è al massimo quella di trovarsi “in regola”. Nessuno di queste persone, in pratica, cerca veramente Dio, nessuno cerca l’altro, nessuno cerca di “vivere” veramente. Ciò che conta è la semplice osservanza delle regole, di “tirare avanti alla meno peggio”. Una domanda, quella del dotto ebreo, che oggi potrebbe suonare più o meno così: “Gesù, cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Cosa suggerisce la Chiesa?”. Una domanda che, se posta diversamente, con umiltà e sincerità, sarebbe stata sicuramente lecita e lodevole. Ma Gesù non cade nel tranello del suo provocatore, capisce bene dove lui vuole arrivare; non si scompone e gli rigira la domanda: “Cosa dice la legge?”. In pratica lo “trascina” nella sua materia, nel suo campo di specializzazione; l’uomo di legge, a questo punto, stuzzicato nella sua vanità di “maestro”, gli risponde a raffica: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Bene”, continua Gesù. “Che vuoi di più? Che altro vai cercando? È semplice, sai tutto: osserva la legge, e otterrai sicuramente la ricompensa che essa prevede”. Chiuso. Tutto chiaro!”.

Ma l’esperto legale non demorde: vedendo sfumare il suo momento di gloria, gli pone un’altra domanda, altrettanto pretestuosa: “Ma chi è il mio prossimo?”.

E qui Gesù lo mette in difficoltà, gli confonde completamente le idee: questa volta, per capire la sua risposta, bisogna avere una mentalità ben diversa da quella legale, giuridica, chiaramente fredda, statica, razionale. Il “dottore della legge” non avrebbe mai potuto capire le ragioni di Gesù, improntate sull’amore e sulla carità; per lui tutto si riduceva a disposizioni, ordinamenti, prescrizioni, per cui il “prossimo” poteva essere soltanto un famigliare o al massimo un concittadino. Gli altri no, erano esclusi! Quindi esattamente agli antipodi dell’insegnamento di Gesù, per il quale l’amore per il prossimo non ha confini né di tempo né di luogo; con Lui non esiste la distinzione “fino a che punto” o “fino a che momento”. Se uno ha un cuore, lo deve seguire sempre, ovunque, con chiunque, punto. Chi ama non pone paletti, non discrimina, non fa differenze: è il cuore che gli ordina di amare, non la legge!

Ogni discriminazione, ogni “tu sì e tu no”, è tipico di quei poveracci, completamente amorfi, che per stabilire cosa è giusto e cosa no, si lasciano condizionare dalle regole, dal partito, dalla politica, dalla loro religione. Chi ama, lascia che sia il proprio cuore a vivere e a far vivere. Ama e basta!

Il dottore “della legge” non può capire questo linguaggio. Per cui Gesù gli chiarisce meglio il concetto, esponendogli una parabola: “C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico...”.

Un racconto molto attuale e realista per quel tempo: Gerusalemme dista ventisette chilometri da Gerico; la strada di collegamento, con un dislivello di circa mille metri, era purtroppo nota per la sua pericolosità, con frequenti agguati, rapine, imboscate. Sarebbe stato preferibile evitarla, ma un uomo, non potendo fare altrimenti, sfidando sorte e pericoli, decide di percorrerla: purtroppo, per sua sfortuna, gli capita di cadere vittima dei briganti che lo picchiano, lo bastonano, e lo spogliano di tutto, abbandonandolo sulla strada mezzo morto, solo con sé stesso, con nessuno che potesse soccorrerlo, aiutarlo. A chi avrebbe potuto ricorrere quel poveretto? Chi chiamare? Su chi poter fare affidamento per essere soccorso? È logico pensare che egli abbia rivolto il suo primo pensiero ai genitori, a qualche amico o collega fidato, a qualche assistente sociale, a qualche ecclesiastico di sua conoscenza, che ne so, ad un prete, un frate, ecc. “Nossignori”, fa capire Gesù tra le righe: “se dovesse capitare a voi una cosa simile, non contate sulle istituzioni, sui chi ha dei “doveri” nei vostri confronti, anche se stabiliti per legge. Non è certo sulla base del proprio “ruolo” che uno vi verrà in soccorso; perché soltanto chi ha un cuore pieno d’amore può considerarvi come “prossimo” e correre da voi. Nella vita non aspettatevi mai l’aiuto da dove “non può” venire: non contate sulla funzione, sulla carica, sulle prescrizioni legali: contate solo sul cuore delle persone”.

Questo è quanto in pratica ci dice oggi Gesù: “State attenti, perché il ruolo che rappresentate può soffocare il vostro cuore, può stroncare la vita della vostra anima. Se non state attenti, il ruolo vi distacca da voi stessi, dalla vostra sensibilità, da ciò che avete dentro; non vi ascoltate più; coerenti col ruolo, continuate a dare risposte senza senso, vaghe, preconfezionate. Non siete più voi che sentite e decidete, ma è il vostro ruolo che sente e agisce per voi in maniera automatica”. Parole sacrosante: come dobbiamo comportarci allora nella pratica?

Spersonalizziamoci: evitiamo cioè di pensare sempre, in qualunque situazione, da genitori, da insegnanti, da preti, da carabinieri, da avvocati: perché prima o poi il nostro ruolo fagociterà la nostra personalità, ci renderà insensibili, intransigenti, duri, intolleranti. Ascoltiamo prima di tutto il nostro cuore! Ascoltiamo cosa ci suggerisce di volta in volta lo Spirito che è in noi. Agiamo liberamente, al di fuori degli schemi costrittivi imposti dai vari ruoli della vita.

Imitiamo l’unico personaggio che, nella parabola, dimostra la sua indipendenza da qualunque schema mentale: l’unico uomo che è libero, autonomo, non schiavizzato dal suo ruolo: il buon samaritano.

Egli non ha maschere o ruoli da difendere; in lui la “vita” circola libera e vibrante.

In tre, sacerdote, levita e samaritano, passano per la stessa strada; tutti e tre vedono l’uomo ferito: ma solo del samaritano il vangelo sottolinea un particolare, che volutamente non dice degli altri due: “ne ebbe compassione”. È l’unico che si è lasciato guidare dal cuore. Il suo è un sentimento esclusivo: il verbo greco “splanchnizomai” (avere compassione) chiama in causa le viscere, l’utero materno; un’emozione fortissima, quindi, che tocca, che colpisce, che fa addirittura soffrire, che fa vibrare, che scuote completamente: un’emozione pari a quella che prova una madre nello stringere tra le braccia il suo figlioletto appena partorito.

Come poteva quell’uomo tirare dritto? Come poteva quel samaritano far finta di niente? Il suo cuore urlava, era vivo, batteva a mille: al contrario dei cuori del sacerdote e del levita, che erano morti, atrofizzati, impassibili, soffocati dal ruolo, paralizzati dalle regole del “lecito” o “non lecito”.

Non “sentire” il cuore, significa pertanto essere “insensibili” all’amore, a tutto ciò che riguarda i nostri fratelli, il nostro prossimo. Quando le persone dicono: “Io sono sensibile”, bisognerebbe chiedere loro: “Sensibili come? fino a che punto?”. Perché se sentiamo rumori di 140 decibel (il motore delle auto da corsa), non significa “essere sensibili”, ma più semplicemente non essere completamente sordi: ma come la mettiamo con quelli al di sotto dei 10 decibel, come il respiro umano? Impariamo ad affinare sempre più la nostra “sensibilità”; impariamo ad avvertire sempre più nitidamente anche la voce impercettibile dei nostri fratelli, del nostro prossimo bisognoso. Non dimentichiamoci mai, in proposito, di “sentire” il nostro cuore, di assicurarci che batta sempre per amore; e soprattutto rimaniamo sempre vigili nell’ascolto dello Spirito, per non correre il rischio di vivere come degli zombie, dei morti che camminano. Amen.