mercoledì 6 luglio 2022

10 Luglio 2022 – XV Domenica del Tempo Ordinario


Lc 10,25-37

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa così».

  

Il vangelo di oggi si concentra, con la parabola del buon samaritano, sull’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo spunto viene offerto a Gesù dall’intervento puramente provocatorio di un “dottore della legge”. L’interrogante è un autorevole rappresentante della classe dirigente ebraica; è un’autorità, è l’uomo delle regole, colui che sa con esattezza cosa è bene e cosa no, cosa si debba o non si debba fare. Insomma è un “maestro” molto competente nel suo campo. Il guaio è che, ritenendosi anche molto scaltro, pensa di poter in qualche modo mettere in difficoltà Gesù, l’unico vero “maestro”. Che costui si ritenga all’altezza di ciò, traspare dal fatto che, mentre tutti ascoltano in silenzio e seduti le parole di Gesù, egli “si alza”: si rivolge a Lui, cioè, stando in piedi (solo i maestri parlavano in piedi), rivelando apertamente l’intenzione di voler creare una discussione tra “maestri”, un confronto/scontro tra “pari”.

Il testo italiano traduce blandamente: “Per metterlo alla prova”. Ma il testo greco, più incisivo, usa “ek-peirazo”, che significa tentare con cattiveria, tendere un tranello per far cadere l’altro: troviamo insomma lo stesso verbo usato per descrivere le tentazioni del maligno.

La domanda che gli pone, non certo dettata dall’amore per la verità, è infatti tendenziosa; gli chiede cioè di pronunciarsi su un argomento abbastanza banale, sul quale tutto sommato c’era ben poco da chiarire, visto che tutti gli ebrei conoscevano perfettamente quell’argomento: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Il tentativo di screditarlo, di deriderlo, è già evidente nell’attribuirgli il titolo di “maestro”, anche se in cuor suo non lo considera tale; sembra infatti dire: “Tu che ti ritieni tanto sapiente, tu che ti definisci maestro, vediamo un po’ come te la cavi con questa questione”.

La sua, oltretutto, è uno degli interrogativi classici che la gente comune, non particolarmente religiosa, si pone in cuor suo: gente cioè il cui principale scopo della vita non è certo quello di amare e onorare Dio e il prossimo, con tutta la forza dei propri sentimenti, con tutta l’intensità dell’anima, con tutte le vibrazioni del loro cuore. No, nella loro vita la preoccupazione più importante è al massimo quella di trovarsi “in regola”. Nessuno di queste persone, in pratica, cerca veramente Dio, nessuno cerca l’altro, nessuno cerca di “vivere” veramente. Ciò che conta è la semplice osservanza delle regole, di “tirare avanti alla meno peggio”. Una domanda, quella del dotto ebreo, che oggi potrebbe suonare più o meno così: “Gesù, cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Cosa suggerisce la Chiesa?”. Una domanda che, se posta diversamente, con umiltà e sincerità, sarebbe stata sicuramente lecita e lodevole. Ma Gesù non cade nel tranello del suo provocatore, capisce bene dove lui vuole arrivare; non si scompone e gli rigira la domanda: “Cosa dice la legge?”. In pratica lo “trascina” nella sua materia, nel suo campo di specializzazione; l’uomo di legge, a questo punto, stuzzicato nella sua vanità di “maestro”, gli risponde a raffica: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Bene”, continua Gesù. “Che vuoi di più? Che altro vai cercando? È semplice, sai tutto: osserva la legge, e otterrai sicuramente la ricompensa che essa prevede”. Chiuso. Tutto chiaro!”.

Ma l’esperto legale non demorde: vedendo sfumare il suo momento di gloria, gli pone un’altra domanda, altrettanto pretestuosa: “Ma chi è il mio prossimo?”.

E qui Gesù lo mette in difficoltà, gli confonde completamente le idee: questa volta, per capire la sua risposta, bisogna avere una mentalità ben diversa da quella legale, giuridica, chiaramente fredda, statica, razionale. Il “dottore della legge” non avrebbe mai potuto capire le ragioni di Gesù, improntate sull’amore e sulla carità; per lui tutto si riduceva a disposizioni, ordinamenti, prescrizioni, per cui il “prossimo” poteva essere soltanto un famigliare o al massimo un concittadino. Gli altri no, erano esclusi! Quindi esattamente agli antipodi dell’insegnamento di Gesù, per il quale l’amore per il prossimo non ha confini né di tempo né di luogo; con Lui non esiste la distinzione “fino a che punto” o “fino a che momento”. Se uno ha un cuore, lo deve seguire sempre, ovunque, con chiunque, punto. Chi ama non pone paletti, non discrimina, non fa differenze: è il cuore che gli ordina di amare, non la legge!

Ogni discriminazione, ogni “tu sì e tu no”, è tipico di quei poveracci, completamente amorfi, che per stabilire cosa è giusto e cosa no, si lasciano condizionare dalle regole, dal partito, dalla politica, dalla loro religione. Chi ama, lascia che sia il proprio cuore a vivere e a far vivere. Ama e basta!

Il dottore “della legge” non può capire questo linguaggio. Per cui Gesù gli chiarisce meglio il concetto, esponendogli una parabola: “C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico...”.

Un racconto molto attuale e realista per quel tempo: Gerusalemme dista ventisette chilometri da Gerico; la strada di collegamento, con un dislivello di circa mille metri, era purtroppo nota per la sua pericolosità, con frequenti agguati, rapine, imboscate. Sarebbe stato preferibile evitarla, ma un uomo, non potendo fare altrimenti, sfidando sorte e pericoli, decide di percorrerla: purtroppo, per sua sfortuna, gli capita di cadere vittima dei briganti che lo picchiano, lo bastonano, e lo spogliano di tutto, abbandonandolo sulla strada mezzo morto, solo con sé stesso, con nessuno che potesse soccorrerlo, aiutarlo. A chi avrebbe potuto ricorrere quel poveretto? Chi chiamare? Su chi poter fare affidamento per essere soccorso? È logico pensare che egli abbia rivolto il suo primo pensiero ai genitori, a qualche amico o collega fidato, a qualche assistente sociale, a qualche ecclesiastico di sua conoscenza, che ne so, ad un prete, un frate, ecc. “Nossignori”, fa capire Gesù tra le righe: “se dovesse capitare a voi una cosa simile, non contate sulle istituzioni, sui chi ha dei “doveri” nei vostri confronti, anche se stabiliti per legge. Non è certo sulla base del proprio “ruolo” che uno vi verrà in soccorso; perché soltanto chi ha un cuore pieno d’amore può considerarvi come “prossimo” e correre da voi. Nella vita non aspettatevi mai l’aiuto da dove “non può” venire: non contate sulla funzione, sulla carica, sulle prescrizioni legali: contate solo sul cuore delle persone”.

Questo è quanto in pratica ci dice oggi Gesù: “State attenti, perché il ruolo che rappresentate può soffocare il vostro cuore, può stroncare la vita della vostra anima. Se non state attenti, il ruolo vi distacca da voi stessi, dalla vostra sensibilità, da ciò che avete dentro; non vi ascoltate più; coerenti col ruolo, continuate a dare risposte senza senso, vaghe, preconfezionate. Non siete più voi che sentite e decidete, ma è il vostro ruolo che sente e agisce per voi in maniera automatica”. Parole sacrosante: come dobbiamo comportarci allora nella pratica?

Spersonalizziamoci: evitiamo cioè di pensare sempre, in qualunque situazione, da genitori, da insegnanti, da preti, da carabinieri, da avvocati: perché prima o poi il nostro ruolo fagociterà la nostra personalità, ci renderà insensibili, intransigenti, duri, intolleranti. Ascoltiamo prima di tutto il nostro cuore! Ascoltiamo cosa ci suggerisce di volta in volta lo Spirito che è in noi. Agiamo liberamente, al di fuori degli schemi costrittivi imposti dai vari ruoli della vita.

Imitiamo l’unico personaggio che, nella parabola, dimostra la sua indipendenza da qualunque schema mentale: l’unico uomo che è libero, autonomo, non schiavizzato dal suo ruolo: il buon samaritano.

Egli non ha maschere o ruoli da difendere; in lui la “vita” circola libera e vibrante.

In tre, sacerdote, levita e samaritano, passano per la stessa strada; tutti e tre vedono l’uomo ferito: ma solo del samaritano il vangelo sottolinea un particolare, che volutamente non dice degli altri due: “ne ebbe compassione”. È l’unico che si è lasciato guidare dal cuore. Il suo è un sentimento esclusivo: il verbo greco “splanchnizomai” (avere compassione) chiama in causa le viscere, l’utero materno; un’emozione fortissima, quindi, che tocca, che colpisce, che fa addirittura soffrire, che fa vibrare, che scuote completamente: un’emozione pari a quella che prova una madre nello stringere tra le braccia il suo figlioletto appena partorito.

Come poteva quell’uomo tirare dritto? Come poteva quel samaritano far finta di niente? Il suo cuore urlava, era vivo, batteva a mille: al contrario dei cuori del sacerdote e del levita, che erano morti, atrofizzati, impassibili, soffocati dal ruolo, paralizzati dalle regole del “lecito” o “non lecito”.

Non “sentire” il cuore, significa pertanto essere “insensibili” all’amore, a tutto ciò che riguarda i nostri fratelli, il nostro prossimo. Quando le persone dicono: “Io sono sensibile”, bisognerebbe chiedere loro: “Sensibili come? fino a che punto?”. Perché se sentiamo rumori di 140 decibel (il motore delle auto da corsa), non significa “essere sensibili”, ma più semplicemente non essere completamente sordi: ma come la mettiamo con quelli al di sotto dei 10 decibel, come il respiro umano? Impariamo ad affinare sempre più la nostra “sensibilità”; impariamo ad avvertire sempre più nitidamente anche la voce impercettibile dei nostri fratelli, del nostro prossimo bisognoso. Non dimentichiamoci mai, in proposito, di “sentire” il nostro cuore, di assicurarci che batta sempre per amore; e soprattutto rimaniamo sempre vigili nell’ascolto dello Spirito, per non correre il rischio di vivere come degli zombie, dei morti che camminano. Amen.

  

Nessun commento: