«In quel tempo, venne da Gesù
un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi
purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo
voglio, sii purificato!”».
Oggi
Marco ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso e la sua
guarigione. Tranquilli, la malattia della lebbra è stata ormai quasi
completamente debellata; non dovremmo quindi temere più di “toccare”, di “comunicare”
con gli altri (la lebbra a quei tempi impediva qualunque tentativo di avvicinamento,
di socializzazione). Purtroppo però oggi dobbiamo fare i conti con un’altra malattia
epidemica, altrettanto invalidante: l’incomunicabilità, l’indifferenza,
l’ermetismo, la chiusura totale verso gli altri. In questo senso tutti noi continuiamo
ad essere dei lebbrosi; e ciascuno di noi può immedesimarsi in quel poveretto.
Sì, perché la nostra vita è infestata di questa nuova lebbra, con tutte le sue
variabili di isolamento e solitudine: c’è la lebbra di chi non si sopporta; di
chi non sopporta il proprio fisico, il proprio carattere, la propria vita; e non
si sopporta perché, quando si guarda dentro, non trova niente per cui valga la
pena di impegnarsi. C’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare
la propria dignità; c’è la lebbra della vergogna: di quando si viene additati; di
quando ci viene continuamente rinfacciato il nostro errore; la lebbra di chi
non si perdona, di chi confessa sempre la stessa colpa da anni, di chi si sente
sempre colpevole; la lebbra della vergogna di sentirsi inferiore agli altri, per
non aver studiato, per non essere brillante, per non essere fisicamente bello e
attraente; c’è la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti,
insignificanti. Ebbene, fratelli, chi di noi non si è sentito discriminato,
etichettato, evitato, come il lebbroso del vangelo? Ma ci sono anche altre
lebbre che fanno terra bruciata intorno a noi, essendo gli altri a farne le
spese, a pagarne le dirette conseguenze: alludo alla lebbra dell’invidia, della
superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della
lussuria… ; sono tutte lebbre deformanti, che di fronte ai nostri fratelli ci
rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi esente da
queste forme di lebbra? Penso proprio ben pochi. Allora andiamo da Gesù,
supplichiamolo anche noi! Facciamo anche noi come ha fatto il lebbroso del
vangelo.Riviviamo per un attimo la scena: il poveretto si butta in ginocchio e supplica Gesù: “Se vuoi puoi guarirmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Gesù e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si crede malato non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Per questo il lebbroso si abbandona, e chiede a Gesù di fare tutto lui: “Se vuoi puoi guarirmi”.
E Gesù interviene. Egli prova nei confronti di tanta arrendevolezza qualcosa di forte ed intenso: è “mosso a compassione”. Il termine greco, oltre che compassione, indica addirittura un “amore materno”, un amore che tocca dentro, un amore viscerale. Un amore che compendia i sentimenti umani più vulnerabili: la misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Quando un uomo è rifiutato da tutti, ha una vitale necessità di questo amore; ha bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno di poter sentire che c’è qualcuno che lo accoglie, che lo apprezza, che non lo evita. Perché questo è un amore che salva.
Gesù guarda questo relitto umano con occhi diversi da quelli degli altri: “Io ti conosco, credo in te; so che sotto questo tuo aspetto disgustoso, sopravvive ancora un germoglio stupendo, un qualcosa di grande e prezioso. Sei così, perché sei stato deformato dal dolore della vita; ma io vedo la tua bellezza, le tue potenzialità. E voglio che torni a risplendere”.
E l’amore “materno” di Gesù, da sentimento, diventa azione: “Stese la mano”. Il verbo “ekteino” vuol dire proprio “distendere”, un allungare le mani, protenderle: Gesù lo ama e il suo amore si fa azione, si protende verso di lui e lo tocca. Immaginiamolo quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno alla larga, tutti dicono: “Tu sei peccatore per questo sei ammalato; tu non hai speranze”; mentre Gesù, il maestro - sfidando la religione per la quale chi toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro – si “distende”, gli va incontro, allunga la mano e lo “tocca”; il verbo greco “apto” oltre che “toccare” indica “afferrare”: un significato che rende l’azione di Gesù ancora più amorevole: si dirige decisamente con le braccia protese verso di lui, ma l’uomo, consapevole della sua deformità, istintivamente si ritrae, tenta di scappare; ma Gesù lo “afferra”, lo trattiene con forza (“lo voglio”), e aggiunge “guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha impresso in te quando ti ha creato. Se ti liberi del rancore, dell’amarezza, della vergogna, dei rifiuti che ti hanno deturpato, riacquisterai la tua luce primordiale”.
Ecco, questo in sostanza vuol dire “guarire”: ritornare ad essere se stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea che Dio, la Vita, aveva in testa per noi e che i fatti e le situazioni umane hanno gradualmente deformato, alienato, distrutto. Come a dire “sii ciò che eri; ritorna ad essere esattamente quello stesso che Dio aveva in testa quando ti ha pensato”.
Perché c’è tanto scontento sulla terra, tanta infelicità? Perché le persone non vivono quello che sono: vogliono essere qualcos’altro che non sono, vogliono essere continuamente “altro”. Non si riconoscono in chi sono, e cercano affannosamente di vivere qualcosa che non sono. La felicità invece è fare esattamente ciò per cui siamo stati creati. Se vogliamo altre cose, primo, non riusciremo mai a farle e, secondo, la nostra vita sarà sempre incompleta, vana, non realizzata, inutile. Se uno non vive la propria “forma” si sforma, si deforma.
Ci chiediamo continuamente: “Che devo fare?”. Domanda più che lecita. Ma non ci accorgiamo che intorno a noi troppe persone fasulle sono pronte a darci le “loro” risposte; e ci costringono a vivere vite non nostre, vite di altri. In realtà, la domanda che tutti dobbiamo porci, è un’altra: “Chi sono io?”. E solo Lui, sommessamente, può suggerirci la risposta. “Sii te stesso e saprai chi sei; con il mio “contatto” guarirai dalla tua lebbra e vivrai ammirandomi nella tua immagine”. Questo vivere è la sorgente della vita, della felicità, del nostro esserci.
La risposta di Gesù al lebbroso: “Lo voglio, guarisci”, stupenda, rassicurante, entusiasmante nella sua essenzialità, merita bene qualche altra considerazione.
Prima di tutto Gesù non teme di sporcarsi le mani, di contagiarsi, e tocca quel poveretto devastato dalla lebbra. Egli crede in lui. Lo conosce da sempre, lo ama; si sporca le mani, si lascia coinvolgere da lui, proprio perché lo ama: e subito l’altro inizia a guarire. Potenza dell’amore.
Un giorno una suora disse a Madre Teresa: “Madre perché i miei ammalati non trovano la pace come qui da te?”. “Perché io non lavoro per portar loro la pace; io la trovo qui con loro”. Sporcarsi le mani vuol dire condividere: “Mi metto in gioco con te e ti accompagno nella tua strada”. Questo è l’amore vero, fratelli, l’amore autentico; un amore fiducioso e lungimirante che dice: “In te c’è una sorgente pura; io la valorizzerò”.
Può succedere che anche noi, poveri lebbrosi, perdiamo il senso della nostra origine e del nostro essere; però se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di calarci completamente nella nostra anima, scopriremo sicuramente una piccola radice, una minuscola parte di noi che non è deformata, che non è corrotta, distrutta. È la nostra sorgente di luce interiore, che può anche essere spenta, offuscata, coperta, ma non cancellata. È come entrare in una stanza completamente buia: non si vede nulla, ma la luce c’è, basta girare l’interruttore, aprire le tapparelle. Con il soffio della vita, tutti abbiamo ricevuto questo dono di luce: ripeto, può capitare che in qualcuno non sia accesa, non risplenda, ma c’è (e continuerà ad esserci).
Ecco perché, fratelli, ogni uomo merita rispetto, onore, accoglienza. Non per quello che fa, ma per quello che è, per la sua essenza. Possiamo certamente condannare quello che fa, possiamo rifiutarlo o non accettarlo; ma dobbiamo sempre ricordare che nel suo profondo vive e sgorga la stessa nostra Sorgente Pura. È per questo che, davanti a Lui, siamo tutti uguali; è per questo che ogni uomo è mio fratello: e in questo tempo di decadimento dei valori morali, di chiusura alla religione e a Dio, di mancanza di validi riferimenti, dobbiamo riscoprire questa realtà e dare nuovo vigore alla nostra spiritualità: “Tu sei mio fratello. Non temere, camminiamo insieme, corriamo al Suo passaggio sulle strade della nostra vita, e chiediamogli a gran voce: Se vuoi, puoi purificarmi!”.
“Io lo voglio!” risponde Gesù al lebbroso; “Io lo voglio!” è sempre pronto a rispondere anche a noi. Ma noi, lo vogliamo veramente? vogliamo che Gesù ci guarisca? È importante chiederselo, perché Dio non può niente se noi non lo vogliamo. Dio può tutto, ma solo se noi lo vogliamo.
Verrebbe da dire: “Esiste forse un ammalato che non vuole guarire? Tutti lo vogliono!”. Eppure non è così, fratelli. Perché “guarire” vuol dire “rendere puro, luminoso”, portare luce nel nostro buio, ridare forza al nostro fisico stremato, fare pulizia, eliminare le impurità della nostra lebbra. Tutte cose che ci coinvolgono in prima persona, che costano fatica. Tutti vogliamo guarire, ma non tutti siamo disposti a faticare, a collaborare, a metterci del nostro, ad accettare le conseguenze della guarigione. Non possiamo guarire senza trasformarci radicalmente. Non siamo più noi, non siamo più l’originale; e dobbiamo essere noi a voler “guarire”, ad abbandonare questa nostra falsa e deformante identità per ritornare alla purezza originale. Tutti vorremmo guarire senza far nulla; senza cambiare idee; senza cambiare le nostre certezze, i nostri pensieri, il nostro modo di vivere. Ma guarire così è impensabile! Se il nostro modo di vivere e di pensare non ci guarisce, vuol dire che dobbiamo cambiare mentalità e modo di vivere: insistere sulle nostre posizioni significa ammalarsi sempre più gravemente. “Io lo voglio” continua a ripeterci Gesù. E noi che aspettiamo ancora? Affrettiamoci, “tocchiamolo”. Amen.
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