giovedì 19 ottobre 2023

22 Ottobre 2023 – XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
22, 15-21 
In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

 Possiamo definire la scena organizzata dai farisei nei confronti di Gesù con alcune incisive immagini: una riunione tra incapaci, un accordo subdolo e scellerato, un intervento di falsi discepoli, una richiesta untuosa e melliflua, una proposta trabocchetto per Gesù. 
È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù, proprio perché erano proprio i personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, che si approfittavano apertamente della loro posizione per compiere i loro loschi affari. Questa élite, più volte pubblicamente redarguita da Gesù, da lui indicata come meno degna dei pubblicani e delle prostitute, lo considera ormai un nemico da combattere in ogni modo: per quella gente Egli è un uomo pericoloso, uno che deve essere fermato ad ogni costo, poiché oltre a non rispettare le istituzioni religiose, arriva a discreditarle apertamente! A questo punto, si riuniscono per decidere sul da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”.
Ormai è guerra aperta, e riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di realizzare i loro progetti perversi, si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Gesù è il nemico comune e, come dice il proverbio, “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!
Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con delle lodi chiaramente costruite, false, esagerate: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Ma Gesù non si scompone, li conosce molto bene, e con calma si rivolge loro: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?” Anzi li paragona apertamente a satana, il tentatore: Matteo infatti utilizza qui lo stesso verbo “tentare” (peiràzo) usato nel racconto delle tentazioni (4,1).
Finiti i convenevoli, il gruppetto scopre immediatamente le carte: vogliono che Gesù si esprima apertamente su un argomento spinoso, controverso: “Dì a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente equivale a dire: “Devi dirci, qui davanti a tutti, ciò che pensi degli invasori romani”. La trappola è ben congegnata: qualunque risposta egli darà, gli si ritorcerà contro; dicendo “sì”, si dichiarerebbe favorevole al pagamento delle tasse e quindi, riconoscendo l’invasore come “il signore” del popolo, incorrerebbe nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); dicendo invece “no”, si metterebbe automaticamente contro l’autorità romana, scegliendo da solo la propria morte, veloce e sicura.
Vista la situazione, Gesù la capovolge immediatamente. E lo fa magistralmente, ignorando la loro provocazione e spostando i termini del discorso su un altro piano: “Mostratemi la moneta del tributo”.
Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio del “divino” imperatore.
Gliela mostrano e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Cosa significa? Prima di tutto che le tasse vanno pagate, certo: le monete di Cesare vanno restituite al loro padrone. Ma la risposta continua: “Rendete a Dio quello che è di Dio”.
I doveri quindi sono due: uno nei confronti dello Stato, del potere politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio.
Gesù non perde occasione per richiamare all’ordine i suoi nemici. In altre parole, con un tono piuttosto irritato, esclama: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, che vi ritenete i depositari dell’alleanza con Dio, voi che siete la classe dirigente del sacro, che vivete all’ombra del tempio, restituite a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che ha temporaneamente affidato alla vostra guida. Voi invece cercate di impadronirvi di esso, di indurlo in errore con regole false, con le vostre ideologie; cercate di attirarlo a voi, predicando un Dio, che non è il vero Dio; subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti, e questo è un terribile oltraggio nei suoi confronti: il popolo è suo; vostro unico dovere è di ricondurlo a Lui”. Parole crude che, come tutto il Vangelo, sono sempre di grande attualità.
Il racconto ci offre infatti due spunti di meditazione, uno sulla domanda e l’altro sulla risposta di Gesù. Vediamoli nel particolare.
Primo spunto, la domanda: “Di chi è quest’immagine?”. L’immagine incisa sulla moneta rappresenta la persona che l’ha fatta coniare, stabilisce quindi chi ne è il proprietario: quella di Cesare decreta che la moneta viene da lui, gli appartiene e a lui deve tornare.
Un discorso ovvio, che implica dei chiari riferimenti pratici: sappiamo infatti che l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,26): noi quindi apparteniamo a Lui, siamo sua proprietà, a Lui dobbiamo tornare! Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra indelebile dipendenza da Dio, significa tradire la vita che lui ci ha donato, significa vivere una non vita, cadere in un falso vivere, in una finzione esistenziale: per cui qualunque nostro legame ad altre realtà che non siano Dio, qualunque attaccamento a persone, a cose, al mondo intero, svilirebbe, deturperebbe la nostra somiglianza divina, ci renderebbe schiavi, dipendenti e prigionieri: non saremmo mai più completamente liberi come prima.
Ci capita mai, guardando il cielo stellato, ammirando la meraviglia di tutti quei punti luminosi, di pensare che è da lì che noi veniamo, di sentirci “parte” di tutte quelle luci, di provare una certa nostalgia di casa, una nostalgia di cose grandi, immense? Ci capita mai, in certi giorni, di veder riflettere il sole, la luce, nel volto e negli occhi delle persone amate? Ci succede mai di essere pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, è in quei momenti che possiamo sentire chiaramente il vero motivo per cui siamo nati, da dove veniamo, a chi apparteniamo, chi è il nostro vero padre (Dio l’Altissimo).
Altra considerazione: Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare, ciò che appartiene allo Stato”: è quindi nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se noi ci arricchiamo e gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere.
Ma la risposta di Gesù si presta ancora ad altre considerazioni: non basta restituire il dovuto a Cesare, non basta riconsegnare la nostra anima a Dio; c’è un altro dono essenziale, di proprietà divina, che Dio concede in uso all’uomo, e che gli deve essere restituito: la vita! Ogni giorno, infatti, Dio ci offre gratuitamente la meravigliosa possibilità di poter dire: “Sono vivo!”.
Purtroppo la vita per molti è un fatto scontato: non l’apprezzano, non sanno che farsene del tempo, delle giornate, mesi, anni che hanno a loro disposizione; continuano a lamentarsi con Dio per qualunque banalità, piuttosto che ringraziarlo umilmente per questo suo incalcolabile dono.
La vita è invece un dono che va custodito, onorato, amato: non ci è “dovuta”, non ci appartiene, un giorno dovremo riconsegnarla nelle mani di Colui che ne è il padrone assoluto. Finita la vita presente, non ne abbiamo un’altra di scorta con cui poter rimediare al tempo sprecato in questa: quello che non facciamo oggi non potremo farlo mai più.
Viviamola allora seriamente questa nostra vita, viviamola con intensità, pienamente: abbiamo solo questa per amare, agire, provare, sentire, per realizzare i nostri ideali, per diventare insomma ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere pienamente. Rimaniamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ascoltiamo ciò che il nostro corpo ci grida: “Voglio vivere: voglio sentire la fragranza dei prati, della natura in fiore, il profumo del mare; voglio provare la gustosità del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi per i miei progressi, correre, ridere spensieratamente, svagarmi, accarezzare, abbracciare, amare; voglio piangere quando sto male, condividere il dolore degli altri, commuovermi per la loro gioia; voglio inseguire i miei sogni, lottare per un mondo migliore e sentire che il tempo che mi è stato concesso non sta fuggendo invano, ma ha un senso profondo e meraviglioso per me e per il mondo intero. Sì, voglio vivere!”.
Se arriveremo a tanto, quando moriremo saremo in grado di restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: ci troveremo ancora, cioè, nel pieno della vita. A Dio che ce l’ha consegnata, riconsegneremo allora una vita palpitante, con tutto il suo entusiasmo, con tutto il suo fascino: certamente non nella immobilità mortale dei rinunciatari, dei falliti, di quanti si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
Certo, l’uomo è un essere molto particolare: si lamenta, impreca, quando le cose belle finiscono; ma non sa ringraziare, non sa viverle adeguatamente quando sono nella sua disponibilità; non capisce che all’amore si risponde con amore: che per amore ha ricevuto la sua vita, e con amore deve restituirla al suo proprietario. Amen.

 

 

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