Pentecoste è una parola greca e significa cinquantesimo giorno; è la festa che si celebra cinquanta giorni dopo Pasqua. Per gli antichi cinquanta era il numero della pienezza di un tempo. La Pentecoste, i cinquanta giorni, indicano che un tempo è finito: è giunto cioè a compimento il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni, e si apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, della Chiesa e dello Spirito.
Cosa è successo in quei giorni a Gerusalemme? Gesù è morto e gli apostoli sono presi dalla paura: “Che accadrà adesso? Gesù, il nostro capo, se ne è andato, è stato ucciso, cosa ne sarà di noi?” Per loro è un momento di crisi profonda, radicale, decisiva.
Quante volte ci troviamo anche noi in questa situazione.
Stiamo vivendo tranquillamente la nostra vita: il lavoro, la salute, la famiglia, gli amici, tutto sembra andare bene: in realtà dentro siamo spenti e procediamo per forza d’inerzia: andiamo in chiesa, rispettiamo le regole cristiane, siamo generosi, ma non c’è slancio nella nostra fede, non c’è passione; quando parliamo di Dio sembriamo degli insegnanti non degli innamorati, perché?
Siamo delle brave persone, siamo rispettati da tutti, ma siamo insoddisfatti perché ci rendiamo conto dentro di noi che non è esattamente questa la vita che dovremmo vivere. Che dobbiamo fare allora? Cosa bisogna fare in queste situazioni? Cosa è successo agli apostoli?
Per loro il giorno di Pentecoste ha segnato una decisiva catarsi. Da un livello di superficie, di esteriorità, sono passati ad un livello massimo di profondità, di interiorità; da una dipendenza totale, quasi infantile, sono passati alla maturità, alla piena autonomia, alla libertà.
Parlavano una lingua “altra”, che però tutti capivano, perché dentro di loro erano entrati in contatto diretto con Dio. Prima Gesù era fuori: avevano vissuto con lui, avevano mangiato e parlato insieme. Ma ora quel Gesù, risorto, non era più fuori ma dentro (lo Spirito Santo), lo sentivano forte e chiaro, potente e presente.
Mentre prima vivevano nella paura di perderlo, ora sapevano benissimo che nessuno avrebbe più potuto toglierlo loro. Pentecoste fu per loro un “passaggio” che li sconvolse, che li rovesciò, che li mise in crisi.
Le due immagini “rombo come di vento” e “fuoco che si divideva” (At 2,2-3) indicano un passaggio potente, destabilizzante, terribile: il vento indica un passaggio di libertà e di decisione: il vento spazza via, purifica, scompiglia e sconvolge, è un uragano che si abbatte (rombo), che libera da paure e dalla dipendenza dagli altri. Il fuoco indica il calore, la passione, l’essere presi, toccati dall’unicità di ciascun soggetto.
Ebbene: questo è il nostro salto qualitativo: un salto che porterà anche noi, come gli apostoli, dall’essere freddi, insignificanti, insapori, all’essere ardenti, fuoco che brucia, carichi di senso e di passione. Significa calarsi nell’intimità ed entrare in contatto con il Dio in noi; contatto che ci permette di analizzarci, di individuarci, di trovare la nostra forma autentica, la nostra unicità.
Nella vita è solo così che avvengono i grandi salti di qualità: se non c’è Spirito, se non c’è vento, se non c’è fuoco, non andiamo da nessuna parte! Soprattutto non possiamo fare le grandi scelte, non possiamo andare in tutto il mondo.
Se non avviene questo salto qualitativo, la nostra vita continuerà a trascinarsi nella mediocrità, nella tiepidezza. Fare invece questo salto significa “sentire” lo Spirito di Dio dentro di noi; significa sentirlo presente, forte, incontenibile, significa rendersi conto che è Lui la nostra forza, la nostra guida, il nostro tutto. Significa insomma vivere in un’altra dimensione.
Così per esempio il nostro andare in chiesa: se non avviene questo salto qualitativo, rimarremo dei semplici esecutori di regole religiose, la nostra fede rimarrà sempre bambina. Con questa nuova dimensione, invece Dio non sarà più una regola, un precetto, una formula; ma una Persona di cui innamorarsi, una Persona che ci prende dentro, che diventa esempio e modello di energia, di coraggio, di forza, di libertà, di passione; ed è guardando questo fuoco, che noi possiamo sprigionare il nostro di fuoco; perché tutto nella vita è esattamente in funzione di questo Fuoco divino, che è lo Spirito Santo!
Ma cos’è in pratica questo Spirito Santo? Se lo chiediamo alle persone, la maggior parte non saprà cosa rispondere. E se non sa rispondere, è perché non lo conosce, non ne ha esperienza, non lo ha mai vissuto. Molti pensano che lo Spirito sia un’aggiunta a ciò che siamo, un di più. Quindi un qualcosa di cui possiamo anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un di più, è qualcosa che noi già siamo. È il nostro essere, il nostro esistere: lo Spirito non decide di scendere in noi così, improvvisamente, un bel giorno della nostra vita; lo Spirito abita già in noi da sempre, dal primissimo istante del nostro concepimento. Essere spirituali, pertanto, non è pregare molto o fare cose religiose o frequentare la chiesa o fare pellegrinaggi. Essere spirituali vuol dire vivere dando spazio, facendo emergere lo Spirito di Dio che ci abita dentro. È il modo di vedere Dio, e di amarlo, in tutto ciò che ci circonda. Quando i santi guardavano le persone, la natura, le cose, non vedevano il loro essere materia, ma la luce, lo Spirito che abitava in loro.
Ogni cosa è materia e spirito (luce, energia). Lo spirito quindi si trova in tutte le particelle del corpo umano, in tutte le cose che ci circondano. Attenzione però: non c’è uno spirito dentro la materia, ma è la materia che è insieme “spirito” e materia. Non esiste uno spirito staccato dalla materia ma la materia stessa è spirito. Rilevarli, dipende da cosa noi vogliamo vedere; dipende cioè se noi entriamo dentro alla materia, oppure se ci fermiamo all’apparenza esteriore.
Ora cosa centra tutto questo con la festa di Pentecoste di oggi? Centra eccome: lo Spirito abita ogni cosa, è ogni cosa. Tutto è spirito e tutto è materia: dipende solo da come noi guardiamo le cose. Si tratta di andare alla ricerca dello Spirito, oltre le apparenze.
Gesù fu l’uomo del vedere oltre l’apparenza, dentro la realtà. Questa cosa Lui la chiamava “regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il regno di Dio non è il paradiso, ma è qui, oggi, adesso. Dipende dai tuoi occhi”. Gesù vedeva un fiore e vedeva Dio (vedeva la luce, lo spirito del fiore). Gesù vedeva gli uccelli del cielo ed esclamava: “Che meraviglia; chi può vestire come loro?; che liberi!”. Gesù vedeva i fatti di cronaca e vi vedeva dentro, leggeva la mano di Dio che insegnava. Gesù vedeva i sofferenti, i poveracci, le donne, e mentre tutti se ne stavano lontani, Lui li abbracciava, li incontrava, li baciava, li accarezzava e coglieva il loro desiderio, il loro bisogno d’amore. Gesù vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano all’apparenza (“Siete dei disgraziati lontani da Dio!”), Lui andava dentro. Lui sapeva cogliere la luce che li abitava; Lui sapeva vedere la forza, il desiderio di vita, che dormiva dentro di loro. Sulla croce era vicino ad un peccatore che aveva ucciso e mentre tutti vedevano il malfattore, Lui gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Fu condannato a morte e mentre noi non proviamo che rabbia verso coloro che lo condannarono, Lui vide la luce che si nascondeva nel profondo delle loro tenebre: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”. Gesù dunque non vedeva la materia; Gesù vedeva lo Spirito, la luce che c’è dentro ad ogni cosa. Questo significa essere uomini “spirituali”.
Ma noi continuiamo a correre, a fare, a produrre, e in questo modo continuiamo a rimanere nell’ordine della materia. Non possiamo accedere allo spirito che c’è in ogni cosa. Non possiamo vedere il divino che si nasconde dentro le persone e la vita stessa.
Perché sbattiamo le porte così forte? Perché urliamo sempre quando parliamo? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché non c’è luce nel nostro volto? Perché non sappiamo esprimere un sentimento che sia uno? Perché se possiamo “fregare” gli altri non ci pensiamo due volte? Perché non sappiamo sorridere? Perché non sappiamo dire “grazie”? Perché non sappiamo pregare?
Ciò che è tremendo della nostra società è l’incapacità di essere spirituale. È una vera disabilità. Il segno evidente della nostra malattia, della nostra materialità, è: “Quanto costa? Quanti soldi servono?” Oppure, altro segno eclatante, è l’espressione continua: “Io, io”. “Io faccio così; io faccio cosà; se non ci fossi io; io di qua, io di là”. Ritenersi i reggitori del mondo!
Ebbene: quando giudichiamo o valutiamo le persone in base al vestito; quando ammiriamo le auto e le case della gente, invidiandole; quando il nostro unico pensiero è il conto in banca; quando lavoro e carriera vengono prima di ogni cosa; quando tutto viene monetizzato, noi non siamo altro che “materia”: materia è quando vediamo nei vicini, nei colleghi, negli amici solo delle persone che rompono i nostri progetti, che scocciano, che ci danno fastidio. Spirito invece è quando iniziamo a vedere uno che soffre, uno che ha un cuore e un’anima. Materia è quando vediamo nel nuovo giorno solo un altro giorno di lavoro; Spirito è quando possiamo vedervi un’altra opportunità offertaci per sperimentare la vita. Materia è quando qualcosa ci fa innervosire. Spirito è quando iniziamo a chiederci il perché, cosa dobbiamo imparare o cosa dobbiamo cambiare del nostro comportamento o del nostro modo di pensare. Materia è quando guardiamo una donna e vogliamo possedere il suo corpo. Spirito è quando iniziamo a percepire che quella donna è una creatura, con un cuore che batte e che pulsa. Materia è mangiare, spirito è gustare. Materia è respirare (avviene in automatico), spirito è essere consapevoli del respiro, della “ruah” (spirito, soffio vitale). Materia è udire il canto degli uccelli, spirito è ascoltare il loro canto. La stessa vita può essere terribilmente materiale o meravigliosamente spirituale, piena di buio deprimente o di luce esaltante: dipende dai nostri occhi. Amen.
1 commento:
che belle cose Mario, sarò più costante a visitare il tuo blog, un abbraccio
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